x

x

La Cassazione torna su contraffazione del marchio e responsabilità dell’ente

Marchio
Marchio

La Cassazione torna su contraffazione del marchio e responsabilità dell’ente

Una recente sentenza di legittimità (Cass., V, 19 maggio 2023, n. 21640) consente di fare il punto sul tema della contraffazione del marchio e sulla connessa responsabilità dell’ente collettivo ex art 25-bis d.lg. 231/2001.


Sulla contraffazione del marchio

La S.C. ribadisce che i delitti previsti dagli artt. 473 (Contraffazione, alterazione o uso di marchi o segni distintivi ovvero di brevetti, modelli e disegni) e 474 (Introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi) c.p. sono costruiti secondo lo schema dei reati di pericolo: ciò che rileva è la mera attività di contraffazione o alterazione dell'altrui marchio in quanto foriera dell'immissione sul mercato di beni suscettibili di ledere la fede pubblica e ingenerare confusione, nuocendo all'affidamento dei consumatori (III, n. 14812 del 30 novembre 2016; V, n. 27743 del 30 aprile 2019; V, n. 28956 del 8 maggio 2012).

Di conseguenza, integra il delitto di cui all'art. 474 c.p. la detenzione per la vendita di prodotti recanti marchio contraffatto, senza che abbia rilievo neppure la c.d. contraffazione grossolana, considerato che la disposizione tutela, in via principale e diretta, non già la libera determinazione dell'acquirente, ma la fede pubblica, intesa come affidamento dei cittadini nei marchi e segni distintivi che individuano le opere dell'ingegno ed i prodotti industriali e ne garantiscono la circolazione anche a tutela del titolare del marchio; si tratta, pertanto, di un reato di pericolo per la cui configurazione non occorre la realizzazione dell'inganno, non ricorrendo, quindi, l'ipotesi del reato impossibile qualora la grossolanità della contraffazione e le condizioni di vendita siano tali da escludere la possibilità che gli acquirenti siano tratti in inganno (cfr., II, n. 16807 del 11 gennaio 2019).

Un marchio si intende contraffatto quando la confusione con un segno distintivo similare emerga non in via analitica, attraverso il solo esame particolareggiato e la separata valutazione di ogni singolo elemento, ma in via globale e sintetica, con riguardo cioè all'insieme degli elementi salienti, grafici, fonetici o visivi; ove si tratti di un marchio "forte", sono illegittime anche le variazioni, sia pure rilevanti ed originali, che lasciano sussistere l'identità sostanziale del nucleo ideologico in cui si riassume l'attitudine individuante (II, n. 40324 del 7 giugno 2019).

La giurisprudenza della Cassazione civile sottolinea come la qualificazione del segno distintivo quale marchio "debole" non incide sull'attitudine dello stesso alla registrazione, ma soltanto sull'intensità della tutela che ne deriva, nel senso che, a differenza del marchio "forte", in relazione al quale vanno considerate illegittime tutte le modificazioni, pur rilevanti ed originali, che ne lascino comunque sussistere l'identità sostanziale ovvero il nucleo ideologico espressivo costituente l'idea fondamentale in cui si riassume, caratterizzandola, la sua attitudine individualizzante, per il marchio debole sono sufficienti ad escluderne la confondibilità anche lievi modificazioni od aggiunte (I, n. 8942 del 14 maggio 2020).

In tema di tutela dei marchi "forti", basti rammentare il costante orientamento che evidenzia la punibilità di riproduzioni di personaggi di fantasia a marchio registrato, ancorchè non fedeli, ma espressive di una forte somiglianza, che renda possibile la confusione delle immagini tale da indurre il pubblico ad identificare erroneamente la merce come proveniente da un determinato produttore (II, n. 9362 del 13 febbraio 2015; II, n. 20040 del 20 aprile 2011; V, n. 25147 del 31 gennaio 2005).

Si rammenta, altresì, nella medesima ottica, la punibilità della contraffazione dei c.d. modelli ornamentali, indicativi della provenienza del prodotto dall'impresa che l'ha brevettato; in tal caso la contraffazione consiste nel dare al prodotto quella forma e quei colori particolari che possono indurre il pubblico ad identificarlo come proveniente da una certa impresa, anche contro le eventuali indicazioni dei marchi con i quali venga contrassegnato (V, n. 8758 del 22 giugno 1999, che ha segnalato, come, quando il modello contraffatto sia legittimamente contrassegnato anche da un marchio di provenienza, per la consumazione del reato è necessario che sia integralmente riprodotta per imitazione una forte capacità identificativa del modello, pur riconoscendosi autonoma rilevanza penale alla contraffazione del modello a norma dell'articolo 473, comma 2 , c.p.).

La natura di marchio "forte" si accompagna quasi sempre alla "notorietà" del marchio, che, in quanto tale, può prescindere anche dalla necessità della registrazione a fini di tutela.

Difatti, ai fini della configurabilità del reato di commercio di prodotti con segni falsi, è sufficiente e necessaria l'idoneità della falsificazione a ingenerare confusione, con riferimento non solo al momento dell'acquisto, bensì alla loro successiva utilizzazione, a nulla rilevando che il marchio, se notorio, risulti, o non, registrato, data l'illiceità dell'uso senza giusto motivo di un marchio identico o simile ad altro "notorio anteriore" utilizzato per prodotti o servizi sia omogenei o identici, sia diversi, allorché al primo derivi un indebito vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del secondo (V, n. 40170 del 1 luglio 2009).

Allorché si tratti di marchio di larghissimo uso e di incontestata utilizzazione, pur non essendo richiesta la prova della registrazione, è comunque indispensabile la previa acquisizione di elementi attestanti la rinomanza del marchio e la notoria sua riferibilità alla casa produttrice ed alla tipologia di prodotti che contraddistingue, tale da giustificarne la tutela, con conseguente onere, per l'incolpato, di fornire la prova contraria (II, n. 46882 del 3 dicembre 2021).

La S.C. ribadisce che

integra il delitto di cui all'art. 473 c.p., ovvero quello di cui all'art. 474 c.p., la contraffazione di marchi celebri pur se apposti su prodotti appartenenti a un settore merceologico diverso da quello tradizionale, posto che il bene della fede pubblica è leso dalla confondibilità, secondo il giudizio del consumatore medio, del marchio originale con quello contraffatto, quand'anche utilizzato in ambiti non tradizionali

per effetto di attività di "merchandising", non costituendo tale circostanza, di per sé sola, motivo di sospetto (si richiama Cass., V, n. 35235 del 18 maggio 2022: nella specie, si trattava di marchi di case automobilistiche apposti su capi di vestiario e gadget).
 

Sulla responsabilità degli enti

Nel processo in esame una s.r.l. veniva condannata per contraffazione del marchio, ai sensi dell’art 25-bis d.lg. 231/2001; in riforma della sentenza di primo grado, la Corte d’appello le irrogava la sanzione pecuniaria pari a 200 quote del valore di euro 300 ciascuna, nonché una sanzione interdittiva per 6 mesi (non è chiaro quale: si parla di quella prevista “dall’art 9, comma primo, n. 2”, ma il riferimento non è corretto), oltre alla pubblicazione della sentenza per estratto.

La S.C. aderisce a quella che, in dottrina, è stata individuata come una nuova frontiera ermeneutica in relazione all'illecito degli enti, e cioè la tesi che ricostruisce la struttura dell'illecito dell'ente secondo un modello di tipo colposo, per la prima volta chiaramente espressa dalla sentenza n. 23401 del 2022 (Impregilo).

In tale prospettiva, l'accertamento della responsabilità dell'ente deve passare attraverso la verifica della sussistenza di specifici nessi, di ordine naturalistico e normativo, che intercorrono tra la carenza organizzativa e il fatto-reato: il reato presupposto deve essere messo in collegamento con la carenza di auto-organizzazione preventiva, che costituisce la vera e propria condotta stigmatizzabile dell'ente.

Pertanto, il giudice di merito dovrà motivare, al fine di giustificare l'affermazione di responsabilità dell'ente, di aver valutato il suo deficit di auto-organizzazione, vale a dire la carenza di quel complesso delle regole elaborate dall'ente per la prevenzione del rischio reato, che trovano la loro sede naturale nel Modello organizzativo.

Secondo questa prospettiva di accertamento, non è consentito al giudice di merito un vaglio sull'adeguatezza del modello condotto solo "in generale", ma è necessaria una verifica in concreto; non è possibile giungere a sanzionare l'ente in ragione di una "cultura d'impresa deviante", né mediante un criterio sillogistico semplificatorio secondo cui la commissione del reato equivale a dimostrare l'inidoneità dell'assetto organizzativo.

Il giudice di merito deve verificare se il reato della persona fisica sia la concretizzazione del rischio che la regola cautelare organizzativa violata mirava ad evitare o, quantomeno, tendeva a rendere minimo; ovvero deve accertare che, se il modello "idoneo" fosse stato rispettato, l'evento non si sarebbe verificato.

L’ente che non si sia dotato affatto di siffatto Modello risponderà, verosimilmente, del reato presupposto commesso dal suo rappresentante, se compiuto a suo vantaggio o nel suo interesse.

Nel caso di specie, La S.C. ha ritenuto necessario colmare la carenza motivazionale relativa sia alla verifica della sussistenza di un modello di compliance ed alla sua adeguatezza ed idoneità a prevenire il reato presupposto, sia alla sussistenza del vantaggio o interesse dell'ente, “solo acriticamente evocato dalla sentenza impugnata, nonostante, come ha sottolineato la società ricorrente, questi vadano accertati in concreto”.

La motivazione della Corte d’appello di Genova si è limitata, invece, ad abbinare l'interesse della società all'interesse proprio della persona fisica, legale rappresentante di entrambe le aziende legate alla produzione e commercializzazione dei prodotti contraffatti, senza prendere neppure in esame il fatturato complessivo dell'ente rispetto agli introiti derivanti dalla commercializzazione  dei prodotti in sequestro, che, pur se non configurabile come parametro decisivo ai fini di ritenere o meno sussistente la responsabilità ai sensi del d.lg. 231, può comunque costituire uno degli indicatori valutabili al riguardo.

È stato pertanto disposto il rinvio ad altra sezione della Corte d’appello per nuovo giudizio.