La giurisdizione italiana in tema di corruzione internazionale, anche a fini 231

illecito 231
illecito 231

La giurisdizione italiana in tema di corruzione internazionale, anche a fini 231

 

La contestazione

Veniva mossa l’accusa di corruzione internazionale del direttore di una società pubblica brasiliana, affinché lo stesso compisse atti contrari ai propri doveri di ufficio per favorire una società del gruppo, non bandendo gare pubbliche internazionali per la fornitura di tubi industriali e concludendo ventidue contratti a trattativa privata con tale società.

Tale accordo avrebbe previsto, quale contropartita, il pagamento su conti esteri di somme pari allo 0,5% del valore dei contratti stipulati.

I pagamenti corruttivi non sarebbero stati eseguiti dalla società (brasiliana) beneficiaria dell'accordo corruttivo, ma dalla holding del gruppo.

Alla holding è stato contestato l'illecito amministrativo di cui all'art. 25 d.lg. 231/2001, in relazione al delitto di corruzione internazionale commesso, nel proprio interesse e a proprio vantaggio, dai suoi amministratori (essendo stata ravvisata, in via di fatto, la sua sede in Italia).

 

Il difetto di giurisdizione

Il Tribunale di Milano (26 maggio 2022), ha dichiarato non doversi procedere nei confronti degli imputati perché l'azione penale non doveva essere iniziata per difetto di giurisdizione dello Stato italiano.

I Giudici rilevavano che nel caso di specie non potesse trovare applicazione la disciplina dell'art. 6 c.p., relativa alla giurisdizione dell'autorità giudiziaria italiana per il reato commesso nel territorio dello Stato, in quanto «il materiale probatorio...converge univocamente verso l'integrale consumazione all'estero del delitto per cui si procede».

Secondo il Tribunale, inoltre, non poteva essere applicata neppure la disciplina del «delitto comune del cittadino all'estero» dettata dall'art. 9 c.p., in quanto difettavano, ai sensi del terzo comma di tale disposizione, la condizione della presenza degli imputati nel territorio nazionale, e, comunque, la richiesta del Ministro della Giustizia.

 

Sulla corruzione internazionale

Secondo la Cassazione (VI, 23 maggio 2024, n. 33857), con l'introduzione di questa fattispecie di reato, il legislatore non ha inteso derogare ai criteri generali di territorialità per la punibilità del reato da parte dello Stato italiano.

L'articolo 5 della Convenzione OCSE del 17 dicembre 1997, ratificata in Italia con legge n. 300/2000, stabilisce, infatti, che le indagini e l'azione penale per corruzione di pubblico ufficiale straniero sono soggette alle norme e ai principi applicabili di ciascuna Parte.

La giurisprudenza di legittimità ha in proposito rilevato che la Convenzione OCSE, ai fini della determinazione della giurisdizione, rinvia ai principi applicabili in ciascuno dei Paesi aderenti (Feriale, n. 32779/2012), e che lo Stato italiano, in sede di ratifica, ha fatto espressamente salve le regole di cui agli artt. 7, 9 e 10 c.p. (VI, n. 9106/2013).

Secondo il PM, all'epoca dell'accordo corruttivo, la holding, che ha disposto i pagamenti corruttivi mediante propri "fondi neri", era gestita da Milano; in questa città venivano adottate le scelte strategiche del gruppo e, verosimilmente, quella di costituire fondi neri e di utilizzarli in funzione corruttiva.

Il Pubblico Ministero, in particolare, ha dedotto che essa ha subito una verifica fiscale conclusa con la contestazione della stabile organizzazione della società in Italia.

 

La decisione sul difetto di giurisdizione

La S.C. ha rilevato che era necessaria, per la procedibilità del reato contestato agli imputati, la richiesta del Ministro della Giustizia sulla base del terzo comma dell'art. 9 c.p., in quanto il reato di corruzione internazionale è un «delitto commesso a danno...di uno Stato estero».

Il terzo comma dell'art. 9 del codice penale, parlando di delitti commessi a danno di uno stato estero e accomunando ad essi quelli commessi in danno di uno straniero, non ha riguardo ai delitti che lo stato estero sia comunque interessato a reprimere nell'esercizio del suo potere di governo e nei confronti dei quali assume, quindi, la qualifica di soggetto passivo generico, ma si riferisce, al contrario, a quelli in cui lo stato straniero assume la posizione di soggetto passivo specifico (o particolare) (I, n. 8435/1979).

Il delitto di corruzione internazionale, pur inteso a tutelare le regole della concorrenza e della corretta destinazione delle risorse economiche sui mercati esteri, tuttavia, lede un interesse che concerne specificamente lo Stato estero, ovvero quello alla legalità dell'azione dei suoi organi amministrativi.

Nessun rilievo, da ultimo, al fine di escludere la necessità della richiesta del Ministro può ravvisarsi nella modifica del quarto comma dell'art. 9 c. p. operata dalla legge n. 3/2019 (c.d. legge spazza-corrotti).

Tale modifica ha, infatti, escluso la necessità della richiesta del Ministro della giustizia o della istanza o della querela della parte offesa per la punizione del cittadino che commetta in territorio estero i delitti di cui agli articoli 320, 321 e 346-bis c.p. e, dunque, di fattispecie di reato riferibili alla pubblica amministrazione italiana.

 

La giurisdizione nei confronti dell’ente

Il difetto di giurisdizione dell'autorità giudiziaria italiana nei confronti delle persone fisiche ravvisato dal Tribunale di Milano sussiste anche nei confronti dell'ente imputato.

L'art. 4 del d.lg. n. 231 sancisce, infatti, che «Nei casi e alle condizioni previsti dagli articoli 7, 8, 9 e 10 del codice penale, gli enti aventi nel territorio dello Stato la sede principale rispondono anche in relazione ai reati commessi all'estero, purché nei loro confronti non proceda lo Stato del luogo in cui è stato commesso il fatto».

Nel caso di specie la holding, per quanto accertato, all'epoca del patto corruttivo aveva la sede legale nelle Antille Olandesi e all'epoca del versamento delle "tangenti" in Lussemburgo.

Il Pubblico Ministero, come detto, ha dedotto che la società avesse la sede principiale («la stabile organizzazione») in Italia, ma la censura è stata svolta in fatto e quindi ritenuta inammissibile in sede di legittimità.

Secondo la Cassazione, anche su tale punto, la sentenza del Tribunale di Milano è stata motivata in modo non manifestamente illogico.