La tutela del Made in Italy

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Che cos’é il Made in Italy?

Il marchio Made in Italy, che contraddistingue i prodotti interamente realizzati e/o ottenuti in Italia e che si appone accanto al marchio di impresa, è molto più di una semplice etichetta, tant’è che è considerato nel mondo come sinonimo di  creatività, garanzia e qualità.

Esso abbraccia numerosi settori quali abbigliamento, arredamento, auto e agroalimentare, settori in cui l’Italia è tutt’oggi portatrice di grande fama e motivo per il quale il Made in Italy deve essere difeso da qualsiasi tipo di contraffazione.

Il termine Made in Italy fu utilizzato per la prima volta dai produttori italiani negli anni ’80, per  cercare di far fronte alla falsificazione dei prodotti italiani che all’estero godono di grande fama per qualità, stile ed eleganza. In poche parole il Made in Italy, soprattutto nel mondo della moda, è un valore aggiunto, che garantisce l’autenticità di un prodotto e per tale motivo viene spesso imitato e/o contraffatto.

Difatti non è raro imbattersi, in un prodotto che riporta tale dicitura, ma che di italiano non ha nulla, anche se viene imitato alla perfezione.

Il   Made in Italy  per il nostro Paese rappresenta dunque un settore economico talmente importante che si è resa necessaria una regolamentazione legislativa atta, da un lato a difendere e tutti i comparti del “Made in Italy” che si trovano sul mercato, tra cui spicca il settore tessile  parte essenziale della moda e, dall’altro lato, il consumatore che può essere vittima di prodotti contraffatti.

Per meglio comprendere quando un prodotto può essere qualificato come italiano e di conseguenza quando gli si può apporre il marchio  “Made in Italy”, occorre però capire cosa si intende per origine e provenienza del prodotto medesimo.

L’origine di un prodotto designa il luogo in cui la materia prima è nata o quello in cui è stata allevata/coltivata/pescata. 

La provenienza, invece,  indica l’ultimo stabilimento nel quale il prodotto è stato manipolato e/o stoccato. Ad esempio se un’azienda italiana, che produce collant importa dalla Serbia il semilavorato in tessuto costituito da fibre prodotte in Serbia, lo cuce ed effettua tutte le operazioni successive in Italia, i prodotti finali ottenuti saranno considerati di origine italiana.

Il marchio Made in Italy può essere apposto quando un prodotto: a) ha origine e provenienza italiani, vale a dire la materia prima si trova in Italia e viene interamente lavorato in Italia (in questo caso si parla di prodotto 100% Made in Italy); b)  ha provenienza italiana, ossia la materia prima o il prodotto semilavorato provengono da un Paese terzo e le fasi sostanziali di manipolazione e stoccaggio vengono compiute in Italia ( in questo caso si parla di Made in Italysemplice).

Fin qui parrebbe tutto molto semplice e lineare, tuttavia non sempre il legislatore è stato al passo coi tempi e spesso, soprattutto a livello europeo, è intervenuto in maniera blanda lasciando scoperte alcune lacune che analizzeremo nel paragrafo successivo.


La normativa applicabile

La minaccia della contraffazione e la conseguente indicazione di falsa provenienza dei prodotti è un problema molto datato, basti pensare che già nel 1891 le maggiori potenze dell’epoca vararono l’Accordo di Madrid per tutelare i propri prodotti e la loro provenienza, obbligando i Paesi aderenti ad indicare l’origine di un prodotto con la dicitura “Made in….” Tale normativa è stata ratificata in Italia solo nel 1967 con la Legge n.676. 

Da allora, vista l’importanza di salvaguardare il consumatore finale da possibili contraffazioni e vista l’importanza di promuovere il commercio fra più Stati, si sono susseguiti vari interventi legislativi sia a livello europeo che a livello nazionale.

In particolare, se facciamo riferimento al settore tessile che è d’interesse primario nel campo della moda, fiore all’occhiello dell’Italia, l’Unione Europea ha varato due normative la Direttiva 94/11/CE, ed il Reg. UE 1007/2011. Entrambe le formazioni hanno ad oggetto la disciplina delle caratteristiche qualitative fisiche delle fibre tessili,  ma al contempo tralasciano altri obblighi di informazione quali le taglie dei capi di abbigliamento, le istruzioni per la cura dei capi ed il Paese di origine.

Queste ultime informazioni possono essere richieste dal singolo Stato membro o divulgate dagli operatori su base volontaria, a condizione che le stesse non siano false o ingannevoli per i consumatori.

Per sopperire alla lacuna lasciata dalla Direttiva e dal Regolamento de quibus , sono intervenute le norme in materia doganale  (Regolamento UE n.952/2013 c.d. Codice Doganale dell’Unione), che introducono controlli molto severi e, impongono agli operatori economici di fornire chiare informazioni sulle proprie merci in modo tale che se questi prodotti possiedono determinate caratteristiche e provengono da un determinato Paese possa essere aggiunta la dicitura  Made in.

Tutto ciò, però, non è abbastanza in quanto occorrerebbe una normativa ad hoc che obbligasse gli Stati membri a inserire il Paese di provenienza delle merci in maniera chiara ed esaustiva.

L’Italia dal canto suo, in questi anni ha sempre cercato di proteggere il Made in Italy in tutti i settori di eccellenza tra cui quello tessile, che rappresenta il fulcro di una moda di qualità e di prestigio,  attraverso l’introduzione di numerose normative che si sono succedute nel tempo.

Un primo intervento legislativo ad hoc è la Legge n.350 del 24 dicembre 2003 (Legge Finanziaria 2004), la quale: a) ha dettato le modalità di riconoscimento del Paese di origine di un prodotto; b) ha incrementato la lotta alla contraffazione chiarendo che non è possibile apporre il marchio Made in Italy su un prodotto ove l’attività di trasformazione non si sia svolta in Italia o, se ivi svolta, sia stata del tutto marginale o irrilevante; c) ha disposto sanzioni penali e civili per chi pone in vendita o mette  in circolazione opere dell’ingegno o prodotti industriali, con nomi, marchi o segni distintivi nazionali o esteri atti a indurre in inganno il compratore sull’origine, provenienza o qualità dell’opera o del prodotto.  (c.d. segni decettivi).

Un secondo intervento si registra col D.L. n. 35 del 14 marzo 2005 convertito in legge 14 maggio 2005 n.80 , con cui il legislatore nazionale ha provveduto ad inasprire le sanzioni e a vietare la commercializzare all’interno dell’Unione Europea (e, quindi, anche in Italia) di merci prodotte all’estero con la sola dicitura relativa al nominativo e all’indirizzo italiano dell’azienda che ne ha curato la produzione e l’importazione, poiché risulterebbe obbligatorio specificare anche il paese d’origine degli stessi. Sul punto si è espresso  il TAR del Friuli Venezia Giulia, che ha riconosciuto la legittimità del fermo amministrativo disposto dall’Agenzia delle Dogane, oggi Agenzia delle Dogane e dei Monopoli su t-shirt provenienti dalla Turchia sulle quali erano state apposte targhette con la dicitura  di una nota azienda italiana.

Nel 2009 è stata la volta del D.L. n. 135 del 29 settembre 2009 convertito nella legge del  20 novembre 2009 n.166 con cui l’Italia: a) ha introdotto la disciplina del marchio collettivo 100% Made in Italy riservato ai prodotti interamente lavorati in Italia, differenziandoli dal semplice Made in Italy che si ha in caso di lavorazione sostanziale; b) ha disposto l’inasprimento delle sanzioni; c) ha introdotto ulteriori obblighi in capo ai titolari e ai licenziatari dei marchi sull’etichettamento della merce che deve contenere tutte le informazioni necessarie atte a non trarre in inganno i consumatori. 

Nel 2010 il legislatore è intervenuto con la Legge Reguzzoni - Versace –Calearo (L.55/2010) che per  il settore tessile, della pelletteria e calzaturiero, ha istituito un sistema di etichettatura obbligatoria, dei prodotti finiti ed intermedi destinati alla vendita, idoneo non soltanto ad evidenziare il luogo di origine di ciascuna fase di lavorazione, ma anche ad assicurare la tracciabilità dei prodotti e nel contempo  ha inasprito  ulteriormente le sanzioni. 

Secondo la predetta legge, l’indicazione del marchio d’origine “Made in Italy” può essere apposta esclusivamente su prodotti finiti, le cui fasi di lavorazione abbiano avuto luogo prevalentemente nel territorio nazionale e, in particolare, se almeno due delle fasi di lavorazione previste per ciascun settore siano state eseguite nel territorio medesimo e per le rimanenti fasi sia verificabile la tracciabilità.

La Legge Reguzzoni, seppur entrata regolarmente in vigore non è applicabile all’interno dell’UE in quanto foriera di contrasti normativi, poiché contrariamente ai regolamenti doganali, secondo cui un prodotto può essere considerato come proveniente da uno Stato qualora la “lavorazione sostanziale”, ossia la trasformazione del prodotto, il passaggio da materia prima a prodotto finito, sia avvenuto in quello Stato, parla genericamente di due fasi di lavorazione contravvenendo ai dettami europei.

Ciò significa che per la legge Reguzzoni una borsa in pelle assemblata e rifinita in Cina con concia e taglio del pellame realizzato in Italia, potrebbe essere importata in Italia con il marchio Made in Italy mentre risulterebbe “Made in China” per tutti gli altri Paesi Membri, il che non è ammissibile.

L’ultimo intervento legislativo è la L. 206 del 2023 c.d. legge sul Made in Italy che ha apportato delle modifiche a livello sanzionatorio e ha rafforzato i diritti correlati all’IP.

La legge sul Made in Italy in ambito penale e sanzionatorio: a) ha reso passibile di reato anche la mera detenzione a fini di vendita di merce contraffatta, b) ha dato la possibilità alla persona offesa di richiedere immediatamente la distruzione delle merci contraffatte, c) ha eliminato lo svolgimento di accertamenti tecnici e irripetibili prima di procedere alla distruzione, nel caso in cui la natura contraffatta o usurpativa delle merci sia evidente, fatto salvo provvedimento dell’autorità giudiziaria nel caso le merci siano ritenute essenziali ai fini probatori, d) ha introdotto la distruzione automatica entro 3 mesi delle merci contraffatte nei procedimenti a carico di ignoti.

Con riferimento agli aspetti di IP, la nuova legge si è posta l’obiettivo di tutelare  i marchi di particolare interesse e valenza nazionale, vale a dire marchi registrati o utilizzati in modo continuativo da più di cinquant’anni, imponendo alle imprese titolari o licenziatarie dei predetti segni distintivi di comunicare al Ministero delle Imprese e del Made in Italy (MIMIT) la volontà di cessare definitivamente la propria attività, motivandone la scelta.

 Il MIMIT dal canto suo potrà decidere di subentrare gratuitamente nella titolarità del marchio, oppure, nel caso in cui il marchio risulti inutilizzato negli ultimi 5 anni, di depositare una domanda di registrazione a proprio nome in modo tale da evitare che il marchio sia alla mercé di tutti. Inoltre  sempre al fine di tutelare i prodotti “Made in Italy”, la legge introduce alcuni interessanti istituti tra cui il  contrassegno per il “Made in Italy”, ossia un contrassegno ufficiale, realizzato con sistemi in grado di assicurare un’idonea protezione dalle contraffazioni e dalle falsificazioni, che potrà essere apposto su base volontaria da parte delle imprese che producono beni sul territorio nazionale , la ricognizione e tutela dei prodotti tipici italiani e la blockchain per la tracciabilità delle filiere. 

In particolare con riguardo a quest’ultimo profilo viene istituito presso il MIMIT un catalogo nazionale delle nuove tecnologie per la tracciabilità e valorizzazione della filiera del “Made in Italy”, prima fra tutte quella basata sulla blockchain in maniera tale che il consumatore accedendo a tale elenco possa essere sicuro delle merci che acquista.


Cautele 

L’Italia specialmente con l’ultimo intervento legislativo ha cercato di contrastare il fenomeno della contraffazione dei prodotti Made in Italy, il cui giro di affari illeciti ammonta a circa 90 miliardi di euro  l’anno.

La lotta alla contraffazione è sempre più serrata, tant’è che negli anni oltre all’inasprimento delle sanzioni, si è cercato di fornire alle aziende degli strumenti per contraddistinguere i propri capi rispetto a quelli contraffatti.

Oggi sono lontani i tempi della scarpa “Adidas” a quattro strisce piuttosto che a tre, il che significa che è sempre più difficile riconoscere un prodotto contraffatto e l’induzione del consumatore finale in errore contribuisce ad incidere negativamente sul vero Made in Italy.

Ciò significa che le aziende devono assolutamente correre ai ripari per cercare quantomeno di contenere il fenomeno.

Per le imprese è fondamentale innanzitutto avere un marchio regolarmente registrato oltre che in Italia ed in Europa, nei Paesi di forte interesse al fine di blindare la tutela del proprio segno distintivo.

Successivamente  le aziende devono regolare contrattualmente i rapporti con licenziatari, produttori e distributori al fine di evitare che questi ultimi possano compiere atti di concorrenza sleale e produrre e/o vendere tramite canali differenti merce contraffatta.

Inoltre dato che il punto debole per riconoscere la merce contraffatta rimane ad oggi l‘etichetta che o  non presenta tutte le indicazioni che dovrebbero essere contenute, oppure graficamente risulta sfocata o leggermente diversa rispetto a quella di un prodotto originale, è necessario che le aziende facciano campagne informative sui propri prodotti ed utilizzino sistemi atti a dare una garanzia in più al consumatore finale quali ad esempio le etichette col QR code, che consentono a quest’ultimo prima dell’acquisto, con una semplice app,  di verificare l’autenticità dei propri prodotti.

Un ulteriore strumento di garanzia è dato dalla Legge sul Made in Italy che ha istituito un catalogo nazionale, a cui possono iscriversi le aziende titolari o licenziatarie di un marchio in possesso dei requisiti per poter ottenere la certificazione Made in Italy, che sarà liberamente consultabile dai consumatori. 

Se da un lato le aziende si fanno protagoniste della lotta al Made in Italy, dall’altro lato vi è il costante monitoraggio da parte delle Autorità Doganali di ciò che entra ed esce dal territorio.

Non è raro infatti che la maggior parte della merce contraffatta  venga individuata nel momento in cui varca il suolo italiano.

A quel punto le Autorità Doganali, in applicazione del Codice Doganale dell’Unione Europea, dispongono l’asportazione delle etichette fallate o di qualsiasi altro segno e/o figura possa indurre in inganno il consumatore, da parte del contravventore, che si farà carico delle spese ed al contempo dovrà procedere col corretto rietichettamento della stessa.

Questa operazione è molto utile per cercare di impedire che in Italia entri merce contraffatta, proveniente da Paesi Terzi, come ad esempio la Cina che è particolarmente attenzionata.

Questo in sintesi rappresenta il quadro di riferimento attuale delle normative in essere che ci si augura possa essere ulteriormente implementata.