Marchio complesso e confondibilità tra segni in conflitto
Marchio complesso e confondibilità tra segni in conflitto (Nota a Cassazione, Sez. I. civ., Ord. 31/01/2023, n. 2866)
Considerazioni di premessa
Essenza ontologica del marchio, sia con riferimento alla sua disciplina interna (ai sensi dell’art. 7 e ss. C.p.i.[1]) sia a quella eurounitaria (in base all’art.4 del REG. Marchio Comunitario n.207 del 2009[2]) è il suo carattere distintivo.
Il marchio, invero, può essere costituito da segni, i quali abbiano la forza e la capacità di “distinguere i prodotti e servizi di una impresa” da quelli di altre imprese.
Attesa l’ampiezza del dettato normativo, il marchio può consistere in un solo segno ed essere considerato “semplice”; oppure in una combinazione di più elementi, e si avrà dunque un marchio composto.
In particolare, i marchi composti possono dirsi “complessi”.
Il marchio complesso è costituito da una composizione di più elementi, ciascuno dei quali dotato di capacità caratterizzante e suscettibile di essere autonomamente tutelabile. Il giudice, allora, chiamato a scrutinare ipotesi di eventuali confondibilità, deve esaminare, in modo parcellizzato, ciascuno di essi, pur se la forza distintiva viene centralizzata nell’elemento costituente il cosiddetto cuore del marchio.
Il marchio complesso si distingue dal marchio d’insieme, in cui manca l’elemento caratterizzante e tutti i vari elementi sono singolarmente privi di distintività: in tale fattispecie, allora, il valore distintivo, più o meno accentuato, si ricava solo attraverso la loro combinazione ovvero dal loro “insieme”[3].
Il marchio complesso, dotato di più segni, ciascuno dotato di capacità caratterizzante e suscettibile di essere autonomamente tutelabile, non necessariamente è un marchio forte, ma lo è solo se lo sono i singoli segni che lo compongono, o quanto meno uno di essi, ovvero se la loro combinazione rivesta un particolare carattere distintivo in ragione dell’originalità e della fantasia nel relativo accostamento. Quando, invece, i singoli segni siano dotati di capacità distintiva, ma quest’ultima (ovvero la loro combinazione) sia priva di una particolare forza individualizzante, il marchio deve essere qualificato debole, tale seconda fattispecie differenziandosi, peraltro, dal marchio di insieme in ragione del fatto che i segni costitutivi di quest’ultimo sono privi di un’autonoma capacità distintiva, essendolo solo la loro combinazione.
Nello scrutinio tra marchi complessi, per evitare ogni similitudine confusoria, è necessario seguire un criterio globale, basato su percezione visiva, uditiva e concettuale degli stessi con riferimento al consumatore medio di una determinata categoria di prodotti, considerando anche che costui non ha possibilità di un raffronto diretto, che si basa invece sulla percezione mnemonica dei marchi a confronto.
Ne deriva che costituisce atto di concorrenza sleale l’imitazione e la riproduzione pedissequa degli elementi essenziali della confezione dell’altrui prodotto, se il consumatore possa essere indotto ad attribuire, alla confezione dell’imitatore, le qualità di cui è portatore l’altrui prodotto (c.d. “look alike”), per il rischio di associazione tra le due confezioni, e senza che occorra errore o confusione quanto alle fonti di produzione.
L’art. 125 c.p.i., comma 2, consente che il giudice liquidi il danno in una somma globale, stabilita in base agli atti della causa e alle presunzioni che ne derivano.
Il criterio del giusto prezzo del consenso o della giusta royalty, vale a dire del compenso che il contraffattore avrebbe pagato al titolare se avesse chiesto ed ottenuto una licenza per utilizzare l’altrui privativa industriale, opera come ulteriore elemento di valutazione equitativa “semplificata” del lucro cessante e come fissazione di un limite minimo o residuale di ammontare del risarcimento, voluto dal legislatore a garanzia della effettività della compensazione. Il criterio della “giusta royalty” o “royalty virtuale” segna solo il limite inferiore del risarcimento del danno liquidato in via equitativa e non può essere utilizzato laddove il danneggiato abbia offerto validi e ragionevoli criteri per procedere alla liquidazione del lucro cessante o ad una valutazione comunque equitativa più consistente.
La retroversione degli utili ha una causa petendi diversa, autonoma e alternativa rispetto alle fattispecie risarcitorie di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 125. Ci si trova di fronte non ad una mera e tradizionale funzione esclusivamente riparatoria o compensativa del risarcimento del danno, nei limiti del pregiudizio subito dal soggetto danneggiato, ma ad una funzione, se non propriamente sanzionatoria, diretta, quantomeno, ad impedire che il contraffattore possa arricchirsi mediante l’illecito consistito nell’indebito sfruttamento del diritto di proprietà intellettuale altrui.
L’ordinanza della Suprema Corte di Cassazione, sez. I civ., 31/01/2023, n. 2866
Di marchi complessi si è occupata, di recente, la Suprema Corte.
Brevemente, i fatti.
La società Erreà Sport s.p.a. ricorre alla Corte avverso la sentenza, pronunciata dalla Corte di territoriale di Napoli, depositata il 23 agosto 2019, di reiezione dell’appello per la riforma della sentenza del locale Tribunale che aveva respinto le sue domande di accertamento della nullità del marchio registrato, di titolarità di Altamura Rosario (A. R.) e di condanna di quest’ultimo al risarcimento dei danni per contraffazione dei marchi nazionali e comunitari «Errea», «RA» e «RA ERREA» SPORT” di cui essa ricorrente era titolare. [4]
Invero, la Corte di Appello dava atto che il giudice di primo grado aveva disatteso le domande dell’attrice sul fondamento dell’assenza del dedotto pericolo di confondibilità tra il segno «RA», di titolarità del convenuto, e quelli di titolarità dell’attrice medesime, nonché del fatto che, mentre questi ultimi erano utilizzati per contraddistinguere prodotti di abbigliamento e borse che attenevano al settore sportivo, quello contestato era utilizzato per borse, scarpe e prodotti, valigie in pelle che esulavano da tale settore.
La Corte, dunque, disattendeva il gravame dell’appellante, condividendo la valutazione del Tribunale e sottolineando che il nucleo distintivo dei segno dell’attrice non poteva essere rinvenuto nella sua componente denominativa «RA», del tutto evanescente e individuabile solo all’esito di un’attenta osservazione, e che, inoltre, gli stessi elementi denominativi dei segni in comparazione presentavano caratteristiche grafiche non identiche e non erano coincidenti neanche sotto il profilo fonetico, attesi i diversi modi di esprimere il segno in relazione alla lettura unitaria o separata delle singole lettere dell’alfabeto che lo componevano, e a quello visivo, stante la differenza dei caratteri utilizzati.
Il ricorso per la cassazione del provvedimento di secondo grado è affidato a tre motivi.
In particolare, col primo motivo, la ricorrente denuncia la violazione ed errata applicazione degli artt. 12, lett. b), e 25 cod. prop. ind., per aver la sentenza impugnata respinto la domanda di nullità del marchio del convenuto sul fondamento che tra gli elementi figurativi e distintivi che componevano i segni azionati prevalesse quello figurativo, caratterizzato dalla figura romboidale benché, trattandosi di marchi complessi, avrebbe dovuto essere accertata, all’esito di un loro esame parcellizzato, la presenza di due «cuori» e la comparazione con il marchio del resistente avrebbe dovuto essere condotta con riferimento a ogni loro singola componente;
Con la medesima doglianza, lamenta la mancata valorizzazione dell’elemento alfabetico che caratterizzava i suoi marchi e delle somiglianze concettuali e fonetiche tra i segni in comparazione; ed infine, lamenta il fatto che la Corte di appello ha escluso che il marchio dell’appellato fosse nullo per difetto di novità, benché il rischio di confusione emergesse dall’affinità dei prodotti contraddistinti dai marchi in esame e dall’accentuato carattere distintivo dei marchi azionati a motivo della loro notorietà.
Col secondo motivo, deduce la violazione ed errata applicazione degli artt. 20, lett. b), e 22 cod. prop. ind., per aver la sentenza impugnata ha rigettato la domanda di contraffazione e ha omesso di pronunciare le richieste sanzioni civili di cui agli artt. 124, 125 e 126 cod. prop. ind;
Infine, col terzo ed ultimo motivo, censura la sentenza di appello per violazione ed errata applicazione dell’art. 2598 cod. civ., nella parte in cui ha escluso la sussistenza di un illecito concorrenziale confusorio.
Ebbene, La Corte ritiene i motivi infondati.
Invero, gli Ermellini, ritengono che, come sostenuto dalla ricorrente, in presenza di un marchio complesso, la valutazione della somiglianza tra due marchi non può limitarsi a prendere in considerazione solo una componente e a paragonarla con un altro marchio, occorrendo procedere all’esame dei segni in conflitto considerati ciascuno nel suo insieme: ciò, tuttavia, non esclude che l’impressione complessiva prodotta nella memoria del pubblico di riferimento da un marchio complesso possa, in determinate circostanze, essere influenzata da una o più delle sue componenti e, in tali casi, laddove tutte le altre componenti assumano un rilievo trascurabile, la valutazione di somiglianza possa essere affidata al solo esame di tali componenti[5].
Ne deriva che la decisione della Corte di appello, nella parte in cui ha individuato nei marchi dell’attrice due elementi distintivi caratterizzanti - consistenti nella figura romboidale e nella denominazione «Errea» -, ritenendo trascurabile l’elemento rappresentato dalle lettere «RA» e ha affidato la valutazione di confondibilità all’esame di tali elementi distintivi, ha fatto corretta applicazione del richiamato principio;
E in particolare, specifico riferimento alla valutazione degli elementi denominativi comunque condotta dal giudice di merito, si osserva che la ricorrente muove dall’erroneo assunto che questi abbia negato la tutelabilità, quale marchio, dei segni alfanumerici, laddove, invece, la pronuncia è motivata con la non immediata intellegibilità delle lettere «RA», in relazione al loro profilo stilizzato collocato all’interno della figura geometrica romboidale;
Con riferimento, poi, alla sottovalutazione del profilo fonetico e concettuale, si rammenta che l’apprezzamento del giudice del merito sulla confondibilità dei segni, anche in relazione al profilo della affinità dei prodotti commercializzati o dei servizi offerti, è incensurabile in cassazione se, come nel caso in esame, sorretto da motivazione immune da vizi logici e giuridici[6].
Alla stregua delle indicate argomentazioni, la Corte rigetta il ricorso.
Conclusioni
In conclusione, la Suprema Corte, per costante giurisprudenza, ha ritenuto che, in tema di tutela del marchio, l’apprezzamento del giudice sulla confondibilità dei segni, in caso di affinità di prodotti, debba essere compiuto non in via analitica, attraverso il solo esame particolareggiato e la separata considerazione di ogni singolo elemento, ma in via globale e sintetica, ossia avendo riguardo all’insieme degli elementi salienti grafici e visivi, con un esame “d’impressione”, in riferimento alla normale diligenza e avvedutezza del pubblico dei consumatori.
Nella fattispecie sottoposta allo scrutinio della Corte, sebbene si verta in ipotesi di marchio complesso, che impone, in astratto, un esame parcellizzato di ogni componente nel suo insieme globale, tuttavia non è sufficiente analizzare le varie componenti del marchio nel loro insieme, viceversa, occorre guardare quale elemento “catturi” maggiormente l’attenzione del consumatore.
In tal caso, quando il consumatore è influenzato da una sola componente del marchio, (id est quella figurativa), che ne catalizza ed influenza la sua attenzione e la sua condotta commerciale, allora gli altri elementi, (in questa fattispecie, rappresentati dalle lettere) ben possono assumere rilievo trascurabile all’occhio del pubblico, facendo sì che la valutazione sulla somiglianza dei marchi sia effettuata meramente considerando l’elemento dotato di maggiore incisività, ovvero il cuore del marchio.