Lampada 1954: la Cassazione mette fine alla controversia

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Lampada 1954: la Cassazione mette fine alla controversia

 

La Corte di Cassazione fa chiarezza sul tema della tutela del diritto d’autore su un’opera di industrial design e, con l’ordinanza depositata lo scorso 29 aprile, ha posto la parola “fine” alla nota controversia sulla lampada 1954 escludendo che la stessa costituisca il plagio dell’allestimento della X Triennale di Milano del 1954.

The Supreme Court clarifies the issue of copyright protection for an industrial design work. With the ordinance filed last 29th of April, it has put an "end" to the well-known controversy regarding the “1954 lamp”, ruling out that it constitutes a plagiarism of the setup of the 10th Triennale di Milano in 1954.

 

Con l’ordinanza depositata lo scorso 29 aprile, la prima sezione civile della Corte di cassazione, ha escluso, in conformità con la legge n. 633/1941, che la lampada “1954” costituisse il plagio dell’allestimento della X Triennale di Milano tenutasi nel 1954, in quanto l’ideazione artistica e la relativa tutela “non sia da attribuire al corpo illuminante in sé per sé, bensì al suo utilizzo quale strumento dello spazio espositivo”.

La lampada è stata realizzata da un architetto, nipote del geniale autore dell’allestimento, e realizzata su licenza d’uso da una società in accomandita semplice.

L’addebito trae origini delle “accuse” elevate dalla figlia ed erede del noto designer inventore della lampada qui in questione.

La vicenda, pertanto, pone fine alla vicenda giudiziaria tra i due cugini.

Nel presente approfondimento non si analizzerà nel dettaglio l’iter della vicenda, per quale si rimanda alla lettura integrale delle decisioni dei tre gradi di giudizio.

Quel che qui interessa è, piuttosto, l’analisi condotta dal Supremo collegio in base alla quale si giunge - disattendendo così le affermazioni del Tribunale di Milano di primo grado - ad escludere il plagio dell’opera.

La decisione del Tribunale di primo grado

A dire del giudice meneghino, la sola lampada era caratterizzata da creatività e da valore artistico indipendentemente dal luogo nel quale fosse inserita. La stessa, infatti, era il vero e proprio protagonista del contesto all’interno del quale si trovava e, pertanto, risultava dotata di una propria autonomia, di un proprio valore artistico e di una propria rilevanza.

Il Tribunale milanese, inoltre, confrontando le due opere - tramite immagini fotografiche - notava che erano pressoché uguali, le uniche differenze venivano rinvenute nelle dimensioni e nel carattere funzionale (il faretto nella lampada originale era posto fuori dal cono trasparente mentre in quella ridisegnata era posto all’interno).

A valle di tali considerazioni, nella sentenza di primo grado, veniva accertato il plagio da parte del nipote del designer e, oltre ciò, veniva inibita ogni attività di fabbricazione e vendita di suddetti articoli, ordinato il ritiro dal commercio degli stessi, oltre alla pubblicazione dell’intestazione e del dispositivo della sentenza e della fissazione di una penale per ogni prodotto in commercio.

Il diverso avviso della Corte di appello

La vicenda giungeva poi dinnanzi alla Corte di appello di Milano, la quale, con la sentenza del 14 giugno 2022, ribaltava la decisione del Tribunale dal momento che “ai fini della tutelabilità per la normativa sul diritto di autore, di una creazione d’arte applicata all’industria, l’art. 2 n. 10, L. 633/41, esige che l’opera di industrial design abbia un quid pluris costituito dal valore artistico […]”. In altre parole, il carattere creativo poteva essere riconosciuto solo al complessivo allestimento e non soltanto alla lampada che dello stesso altro non era che un mero componente. E non potrebbe che essere così, considerando che il geniale architetto aveva ottenuto riconoscimenti in riferimento all’allestimento nel suo complesso, non in relazione al corpo illuminante, per il quale non aveva mai ricevuto premi specifici.

Nell’escludere il plagio la Corte territoriale ha evidenziato le differenze tra l’originale e la successiva lampada che presentano, come già emerso in primo grado, diverse dimensioni e componenti funzionali. Quest’ultimi sono tutt’altro che da tralasciare poiché essi causano una diversa illuminazione e, pertanto, un diverso impatto diviso. In questo senso, tali differenze strutturali sono tali da poter escludere in radice ogni contestazione sul plagio.

In conclusione, il carattere creativo poteva essere riconosciuto soltanto all’allestimento considerato nella propria complessità e non già al singolo apparecchio illuminante.

La parola finale della Corte di cassazione

La prima sezione civile della Corte di cassazione, attraverso una ricostruzione giurisprudenziale, ha conformato la decisione di secondo grado.

La Suprema corte ha colto l’occasione per effettuare una ricostruzione giurisprudenziale tanto nazionale quanto europea sul tema.

Considerando il nostro ordinamento, ai sensi dell’art. 2 n. 10 della legge n. 633/1941 affinché l’opera di industrial design possa ricevere la tutela in ambito del diritto d’autore è necessario che “contenga un quid pluris costituito dal valore artistico sulla base di parametri oggettivi, non necessariamente tutti presenti in concreto, quali il riconoscimento delle qualità estetiche ed artistiche da parte di ambienti culturali e istituzionali, l’esposizione in mostre o musei, la pubblicazione su riviste specializzate, all’attribuzione di premi, l’acquisto di un valore di mercato tale da trascendere quello legato alla funzionalità, la creazione da arte di un noto artista”.

Alla luce della norma, l’opera d’arte applicata all’industria deve essere caratterizzata da “originalità” e “novità”. Di fondamentale importanza è, infatti, la scindibilità del valore artistico del bene dal carattere industriale dello stesso; tale fattispecie appare particolarmente importante permettendo un’autonoma valutazione dell’opera.

Con riferimento al quadro normativo europeo vengono richiamate le Direttive Europee n. 2001/29 e n. 98/71 e il regolamento EU 06/2002, disposizioni che permettono di ricavare la nozione di “opera” per cui il bene deve rappresentare una creazione intellettuale propria dell’artista, inoltre, deve essere originale, capace di riflettere la personalità dell’autore. Di conseguenza, ogni qualvolta la realizzazione del bene è determinata da studi tecnici, regole o calcoli, non è possibile parlare di opera. Per utilizzare le parole della giurisprudenza di legittimità: “sono qualificabili come “opere” quei modelli che rappresentano una creazione intellettuale originale propria dell’autore”.

L’impostazione comunitaria porta a concludere che le protezioni riservate ai modelli e quella assicura dal diritto di autore sono distinte ma cumulabili.

Fatte queste premesse, il Supremo collegio non ritiene censurabili le considerazioni della Corte territoriale.

Non vi è alcun vulnus nel ragionamento della CA dal momento che “la percezione dell’opera del design si è consolidata nella collettività, e in particolare negli ambienti culturali in senso lato, nella sua funzione scenografica, e il rilievo iconico della stessa non è da attribuire al corpo illuminante in sé per sé, bensì al suo utilizzo quale strumento dello spazio espositivo […]. La tutela d’autore è dunque da limitare all’allestimento nel suo complesso e non al singolo strumento illuminante per il quale non erano emersi successivi ed ulteriori riconoscimenti specifici”.

La giurisprudenza di legittimità, anche in passato, ha avuto modo di soffermarsi sulla protezione del diritto d’autore, il quale implica un accertamento sui requisiti di “originalità” e “creatività”. Per questi ultimi non è sufficiente un’analisi sull’idea alla base della creazione dell’opera quanto sulla forma della sua espressione, tale per cui l’opera deve riflettere la personalità del proprio autore, ugualmente a quanto statuito dalla Corte europea.

Nel caso di specie, il carattere artistico della lampada non assume rilevanza poiché ciò che realmente colpisce e rimane impresso è la percezione dell’opera nel suo insieme, tanto che il rilievo iconico della stessa non è da ricercare nel corpo illuminante quanto nella funziona scenografica e quindi all’uso della lampada quale strumento di costruzione dello spazio espositivo.