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Marchio di lusso e violazione del Regolamento UE 330/2010

nota a Cassazione, Sez. I. civ., Ord. 14/3/2023, n. 7378
marchio di lusso
marchio di lusso

Marchio di lusso e violazione del Regolamento UE 330/2010

(nota a Cassazione, Sez. I. civ., Ord.  14/3/2023, n. 7378)

 

Considerazioni di premessa

Nell’accezione categoriale del luxury brand[1] si ricomprende il marchio per il quale tutti o gran parte dei suoi prodotti rientrano nella categoria dei beni di lusso, intendendo per tali quei beni di qualità superiore rispetto ad altri beni, di omologa funzione. Il bene di lusso si caratterizza per plurimi aspetti, dal design alla durata, dalle prestazioni alle funzionalità avanzate. A volte, invero, il bene è definito di lusso, se svolge un ruolo di status symbol.

Qualunque ne sia l’origine della lussuosità, sono beni esclusivi, che seguono canali di immissione in commercio unici e selettivi.

Come noto, l’art. 1 del Regolamento 330/2010 /UE, definisce la distribuzione selettiva come sistema con il quale “il fornitore si impegna a vendere i prodotti o i servizi oggetto del contratto direttamente o indirettamente, esclusivamente a distributori selezionai, sulla base di criteri specifici ed a condizione che questi distributori si impegnino a non rivendere questi prodotti /servizi a rivenditori non autorizzati, nel territorio, che il fornitore ha riservato a questo sistema”.

È, questo, un sistema distributivo riconosciuto legittimo e diffuso fra imprese posizionate a livelli diversi della medesima catena produttiva.

Questo sistema involge il mercato dei beni di marca e di lusso, per poter tutelare gli investimenti effettuati dal titolare in termini di prestigio del marchio[2].

La giurisprudenza interna, al pari di quella eurounitaria, protegge il circuito commerciale selettivo, di lusso, sulla base del principio per cui la limitazione del canale di vendita non può essere qualificata come restrizione della clientela, ma costituisce una modalità legittima di rivendita dei prodotti, con le inerenti cautele[3]. In relazione a tale dinamica distributiva, si pongono inevitabili profili di criticità tra la compatibilità degli accordi restrittivi della distribuzione selettiva con i principi del libero mercato, della libera concorrenza, della libera circolazione delle merci. In sostanza, la coniugazione di tali principi con le facoltà esclusive dei titolari dei diritti di proprietà industriale è, a volte, giuridicamente complessa.

L’ordinanza della Corte

Di marchi di lusso si è, molto recentemente, espressa la Corte di Cassazione.

In breve, i fatti.

Una nota maison di oreficeria ricorre alla Suprema Corte, chiedendo la cassazione della sentenza con la quale la Corte d’Appello di Milano, in riforma della sentenza del giudice di prime cure, esclude la condotta di contraffazione del marchio e la contestuale richiesta di inibitoria della commercializzazione, in tutte le sue forme, dei prodotti del marchio della società ricorrente.

Il ricorso viene affidato a tre motivi: col primo, si deduce la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 51 c.p.c. e dell’art. 111 Cost, in relazione all’art. 360 n.n. 3 e 4 c.p.c.[4]

La ricorrente lamenta la nullità per violazione dell’obbligo di astensione da parte di un componente del collegio, il quale aveva conosciuto e trattato la controversia in sede di procedimento cautelare ante causam.

Gli Ermellini ritengono tale motivo infondato, atteso che “per orientamento consolidato della Corte, non è deducibile come motivo di nullità di una sentenza di appello la circostanza che uno dei componenti del collegio avesse in precedenza conosciuto dei medesimi fatti in sede di reclamo, perché l’aver conosciuto della stessa causa in un altro grado deve essere ritualmente fatto valere come motivo di ricusazione del giudice, a norma degli artt. 51, comma 1n. 4 e 52 c.p.c.[5], e, d’altra parte, l’aver trattato della controversia in sede di procedimento cautelare ante causam neanche costituisce, secondo la giurisprudenza costituzionale, un’ipotesi sufficientemente assimilabile alla trattazione della causa “in un altro grado di giudizio” (orientamento, questo avallato anche dalle Sezioni Unite, sent. 1783/2011[6]).

Col secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione del Regolamento 330/2010, lamentando l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, per avere la Corte d’Appello statuito l’insussistenza di un sistema di distribuzione selettiva.

In particolare, secondo la società ricorrente, la Corte territoriale avrebbe errato nell’applicare la normativa eurounitaria nonché avrebbe omesso di esaminare un fatto decisivo, ovvero che i prodotti della ricorrente fossero da qualificarsi quali beni di lusso, già di per sé idonei a legittimare in capo alla stessa società l’adozione di un sistema di distribuzione selettiva.

Anche questo motivo viene ritenuto inammissibile dalla Corte.

Questa, l’argomentazione dei Supremi Giudici: la Direttiva Europea 2008/95/CE ha introdotto nell’ordinamento giuridico, all’art. 7, il principio di “esaurimento del marchio[7], quale espressione della libera circolazione delle merci, che è stato recepito anche dal nostro ordinamento interno all’art. 5 del codice della proprietà industriale[8].

In base a questo principio, una volta che il titolare di uno o più diritti di proprietà industriale, immetta in commercio, direttamente o col proprio consenso, un bene nel territorio dell’Unione, questi perde le relative facoltà di privativa e, invero, l’esclusiva è limitata al primo atto di messa commercio, con la conseguenza che nessuna esclusiva può essere successivamente vantata dal titolare del diritto di proprietà industriale sulla circolazione del prodotto recante il marchio.

Il principio dell’esaurimento registra un’eccezione, atteso che il secondo comma dell’art. 5 c.p.i. prevede che questa limitazione di poteri in capo al titolare della privativa non si applica quando sussistono motivi legittimi, perché il titolare stesso si opponga all’ulteriore commercializzazione dei prodotti.

Sul tema, la giurisprudenza eurounitaria[9] ha ritenuto che l’esistenza di una rete di distribuzione selettiva (intendendo per tale, secondo quanto previsto dall’art. 1 lett. e del Regolamento UE 330/2010, un sistema di distribuzione nel quale il fornitore si impegna a vendere i beni e i servizi oggetto del contratto, direttamente o indirettamente, solo a distributori selezionati sulla base di criteri specificati e nel quale questi distributori si impegnano a non vendere tali beni o servizi a rivenditori non autorizzati nel territorio che il fornitore ha riservato a tale sistema ) può essere ricompresa tra i motivi legittimi, ostativi all’esaurimento del marchio, a condizione che il prodotto commercializzato sia un articolo di lusso o di prestigio che legittimi la scelta di adottare un sistema di distribuzione selettiva.

Anche tali deduzioni vengono censurate dalla Corte, la quale ritiene che la Corte d’Appello non abbia omesso di considerare che i prodotti in oggetto fossero beni di lusso, ma viceversa tali li ha riconosciuti, tuttavia disconoscendo che la struttura di vendita organizzata rispondesse ai requisiti del Regolamento 330/2010 per la distribuzione selettiva, perché difettava la prova che i distributori autorizzati fossero stati selezionati sulla base del possesso di determinati requisiti prestabiliti.

Col terzo, ultimo, motivo la ricorrente deduce la violazione e/o falsa applicazione degli artt.20 cpi e lett. e del Regolamento Ue 330/2010, nonché l’omesso esame di fatto decisivo per il giudizio, per aver la Corte d’Appello statuito l’assenza di pregiudizio alla reputazione del marchio.

Il motivo è inammissibile.

Invero, sul punto, la Corte territoriale ha rigettato la domanda con doppia ratio decidendi: non sussiste la prova che i distributori fossero stati selezionati in base ai requisiti di cui al Regolamento eurounitario e, inoltre, in ogni caso, la sola circostanza che il rivenditore sia estraneo alla rete della distribuzione selettiva non è comunque e di per sé sufficiente a ritenere che la commercializzazione del prodotto di lusso determini un pregiudizio per la reputazione del marchio.

Per tutte le motivate argomentazioni, la Corte rigetta il ricorso depositato dall’impresa ricorrente.

Conclusioni

L’ordinanza della Corte rileva, ancora una volta, la delicata intersezione tra i diritti riconosciuti al titolare del marchio, in termini di privativa e l’accesso ai beni in un contesto di libero mercato.

Invero, le aziende titolari di marchi prestigiosi e lussuosi hanno interesse a esercitare uno stretto controllo sulla distribuzione dei propri prodotti, preservando il valore dei marchi, non solo per le caratteristiche di qualità, ma anche per lo stile e l’immagine, di prestigio, che conferisce loro un’aura di lusso, quale elemento essenziale affinché i consumatori li distinguano da altri prodotti simili.

Lo stile e l’immagine di prestigio strettamente connesse alle modalità di commercializzazione dei beni di lusso.

Di qui, il ricorso alla distribuzione selettiva.

Perché si abbia tale sistema di commercializzazione, i distributori ammessi alla rete devono essere scelti attraverso una selezione operata sulla base di criteri qualitativi e/o quantitativi, in difetto della quale, come nel caso scrutinato dagli Ermellini, non può aversi un canale selettivo.

 

Note:

[1] Si definisce tale quel prodotto che riassume, nella propria essenza, qualità eccezionali, arricchite da stile e design distinguibile, espressione anche legata alla personalità e al paese d’origine del suo creatore.

Erroneamente si attribuisce la nascita dei luxury brand ai tempi recenti.

Invero, il lusso è sempre esistito: nell’antichità, veniva considerato alla stregua di una condotta negativa, deviante rispetto a specifiche abitudini, consuetudini e tendenze. In ambito filosofico, tra il 1600 ed il 1800, lusso era sinonimo di consumo eccessivo e smisurato di beni da parte delle classi sociali dominanti.

Con la rivoluzione industriale, tale concetto inizia ad affievolirsi, essendo la produzione di beni produzione di beni di massa.

[2] Distribuzione selettiva tra regolamento di esenzione ed esaurimento del diritto, S. Giani, De Jure 2019.

[3] P. Gelato, 4C Legal, 2020.

[4] Le norme disciplinano, rispettivamente, le fattispecie dell’astensione del giudice, il principio della terzietà del giudice e i motivi di ricorso per cassazione e impugnabilità dei provvedimenti.

[5] In tema di astensione e ricusazione del giudice.

[6] L’incompatibilità che, ai sensi dell’art. 51, n. 4, e 52 c.p.c., giustifica l’accoglimento dell’istanza di ricusazione per avere il giudice conosciuto del merito della causa in un altro grado dello stesso processo non è ravvisabile nell’ipotesi in cui gli stessi componenti del Collegio delle Sezioni Unite investito della decisione sul ricorso avverso un provvedimento disciplinare posto a carico di un magistrato abbiano già deciso sull’impugnazione del provvedimento di sospensione cautelare emesso nei confronti del medesimo incolpato, atteso che la decisione sul provvedimento cautelare appartiene ad una serie processuale autonoma sia per presupposti, sia per ambito di cognizione sia per effetti impugnatori e che essa, di conseguenza, non è in alcun modo riferibile “ad un altro grado dello stesso processo”.

[7] Quello dell’esaurimento del marchio è un principio generale, in base al quale il titolare di un marchio non può più fare valere la propria esclusiva sul segno, opponendosi alla circolazione del bene sul quale esso è apposto, una volta che tale bene sia stato immesso in commercio – nel territorio italiano o nel territorio di uno Stato membro dell’Unione Europea o dello Spazio economico europeo (SEE), a seconda dei casi – ad opera del titolare medesimo ovvero con il suo consenso.

Il principio di esaurimento è normato a livello comunitario nell’art. 15, comma 1, della Direttiva (UE) 2015/2436 e nell’art. 13, comma 1 del Regolamento UE 2017/1001 sul Marchio dell’Unione Europea, mentre nel nostro Paese è regolamentato dall’art. 5 del D.Lgs. 30/2005 (c.p.i.), che peraltro stabilisce che il principio è applicabile a tutti i diritti di proprietà industriale.

In particolare, il disposto dell’art. 5 c.p.i. stabilisce che il presupposto fondante dell’esaurimento del marchio è l’esistenza di un negozio – anche a titolo gratuito, con effetti reali od obbligatori, esplicito o implicito – con il quale il titolare del marchio acconsenta, direttamente o indirettamente, all’immissione sul mercato del prodotto contraddistinto dal marchio.

[8] La norma, rubricata “esaurimento” illustra i poteri di privativa del titolare del marchio, unitamente alle eccezioni.

[9] Corte di Giustizia, causa C 59/08, Copad contro Christian Dior.