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Cassazione Penale: ancora sul made in e indicazione di origine

Sezione Terza Penale

Presidente Lupo - Relatore Franco

1. Il PM di Firenze convalidò il 29.10.2009 il sequestro probatorio disposto dalla Agenzia delle Dogane di Firenze di 9.005 camicie da uomo provenienti dalla Serbia in relazione al reato di cui all’art.4, comma 49, legge 24 dicembre 2003, n.350, ed all’art.517 cod. pen. Perché le camicie erano prive della etichetta «made in Italy», ma recavano la sola etichetta con la dicitura «Prodotto e distribuito da FI Studio Srl Floreze Italy» e la marca «Romeo Gigli».

2. Tizio propose istanza di riesame.

Il tribunale del riesame di Firenze, con l’ordinanza in epigrafe, revocò il sequestro probatorio e dispose la restituzione delle cose in sequestro all’indagato alla condizione che questi provveda alla esatta indicazione sulle camicie e di quant’altro induca a ritenere che si tratti di prodotto di origine italiana.

3. Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Firenze propone ricorso per Cassazione deducendo che il Tribunale, una volta verificato il fumus del reato, avrebbe dovuto rigettare l’impugnazione, non avendo il potere di disporre la sanatoria in via amministrativa, la quale comunque non influisce sulla legittimità del sequestro.

Motivi della decisione

4. A parere del Collegio il ricorso deve essere accolto nei limiti che seguono.

Va premesso che la cosiddetta «regolarizzazione amministrativa» della merce, mediante l’asportazione dei segni o delle figure o quant’altro induca a ritenere che si tratti di prodotto di origine italiana, o attraverso l’esatta indicazione dell’origine o l’asportazione della stampigliatura «made in Italy», non comporta l’estinzione del reato, non essendo prevista dalla legge come scriminante.

Sono quindi inconferenti le considerazioni del ricorrente circa una presunta impossibilità del tribunale del riesame di revocare il sequestro probatorio quando sopravvenga una causa di estinzione del reato, ritenendo invero questo Collegio che debba preferirsi il diverso orientamento secondo cui «non travalica i limiti della propria competenza il giudice del riesame il quale dia atto che il reato ipotizzato sarebbe in ogni caso prescritto e ritenga, pertanto, inutile il permanere del sequestro. Infatti in tanto sussiste il potere del P.M. di procedere a sequestro, in quanto la sua attività sia finalizzata alla persecuzione di un reato. Ma se il reato risulta ex actis estinto, tale potere viene meno» (Sez. III, 4.11.1998, n. 2859, Agustoni, m. 212483).

Sennonché, secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte, anche se, ai sensi dell’art. 4, comma 49, l. n. 350/2004, la regolarizzazione opera sul piano amministrativo e non comporta l’estinzione del reato, essa è tuttavia idonea a legittimare il dissequestro della merce che alla fine delle operazioni risulti regolarizzata, atteso che viene meno la possibilità di trarre in inganno gli eventuali acquirenti, con il che verrebbero meno anche le finalità probatorie indispensabili per il mantenimento della misura (Sez. IlI, 24.11.2005, n. 3669/06, Huang, m. 233285; Sez. III, 10.11.2004, n. 49394, D’Amodio, m. 230477).

Pur avendo quest’ultima decisione ritenuto che il giudice può autorizzare la temporanea rimozione dei sigilli per consentire all’indagato di «bonificare» la merce sequestrata, disponendo da subito il dissequestro di quella che, alla fine delle operazioni, risulterà regolarizzata e pur avendo le dette decisioni ammesso tale possibilità anche per il sequestro probatorio, poiché però la regolarizzazione non comporta l’estinzione del reato, ritiene il Collegio che occorra precisare che, in caso di sequestro probatorio, per disporre la revoca del sequestro è anche necessario che il giudice accerti che, nonostante la regolarizzazione, non per- mangano ancora le specifiche esigenze probatorie che avevano giustificato l’apposizione ed il mantenimento del vincolo.

Nella specie l’ordinanza impugnata è totalmente priva di motivazione in proposito, sicché la stessa deve essere annullata con rinvio.

5. È però opportuno, per motivi di economia processuale, anche evidenziare che l’ordinanza impugnata è altresì priva di motivazione su una serie di altre questioni, alcune delle quali avrebbero dovuto essere rilevate anche d’ufficio.

In primo luogo deve rilevarsi che, a quanto qui risulta, né il verbale di sequestro dell’ufficio doganale né il decreto del PM di convalida del sequestro probatorio, contenevano una indicazione di quali fossero le concrete esigenze probatorie che la misura nella specie doveva assicurare.

Ora, secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte (Sez. Un., 28 gennaio 2004, n. 5876, Ferazzi, e numerose altre successive), anche per le cose che costituiscono corpo di reato il decreto di sequestro probatorio deve contenere, a pena di nullità, idonea motivazione sulla concreta finalità probatoria perseguita e, se tale indicazione manca e se il PM non indica le ragioni che giustificano in concreto la misura neppure davanti al tribunale del riesame, quest’ultimo non è legittimato a disegnare, di propria iniziativa, il perimetro delle specifiche finalità del sequestro, cosi integrando il titolo cautelare mediante un’arbitraria opera di supplenza delle scelte discrezionali che siano state da questo radicalmente e illegittimamente pretermesse dall’accusa.

Nella specie questa Corte non è in grado di sapere se il PM avesse nella udienza di riesame specificato le concrete ragioni probatorie che giustificavano la misura. D’altra parte, allo stato nemmeno risulta se l’indagato avesse eccepito la mancanza di motivazione sulle esigenze probatorie.

E tuttavia, al fine di disporre la revoca del sequestro a seguito della regolarizzazione amministrativa, il tribunale del riesame dovrà comunque accertare se, nonostante tale regolarizzazione, tale revoca sia eventualmente impedita dal persistere delle esigenze probatorie indicate dal PM con riferimento a tutti gli oggetti posti in sequestro.

6. Sotto quest’ultimo profilo, va anche rilevato che nella specie sono state sottoposte a sequestro probatorio 9.500 camicie. Il tribunale del riesame avrebbe dovuto, d’ufficio, accertare se per la finalità probatoria era necessario sequestrare tutte le 9.500 camicie oppure se era sufficiente porre il vincolo solo su alcuni capi. In quest’ultimo caso si tratterebbe, evidentemente, di sequestro preventivo e non probatorio ed il tribunale del riesame avrebbe dovuto dichiarare la nullità del sequestro preventivo irritualmente emesso dal P.M. nelle forme del sequestro probatorio (Sez. III, 21 novembre 2006, n. 42115, Di Gregorio). E’ invero illegittimo un sequestro avente finalità preventive che invece il pubblico ministero qualifichi come sequestro probatorio ed adotti con proprio decreto, atteso che con tale inesatta qualificazione il pubblico ministero verrebbe illegittimamente ad espropriare il giudice per le indagini preliminari della giurisdizione che l’art. 321 cod. proc. peno gli riserva in tema di adozione di sequestro preventivo (cfr. Sez. 111, 5 giugno 2007, n. 37837, Grande, m. 237925; Sez. 111, 3.11.2009, El Kaarfi; Sez. 111, 24.9.2009, Margani; Sez. 111, 9.2.1010, Conte; Sez. 111,28 settembre 1995, Viola, m. 202.953; Sez. I, 19 ottobre 1993, Artuso, m. 195712).

7. Va inoltre rilevato che nella specie l’accusa ha contestato all’indagato il fatto di avere importato camicie fabbricate in Serbia, con tessuto inviato dall’Italia, che recavano l’etichetta con la dicitura «Prodotto e distribuito da FI Studio Srl Floreze Italy» e la marca «Romeo Gigli», ma non anche l’etichetta - «made in Serbia». Allo stesso modo, anche il decreto di convalida -emesso il 29 ottobre 2009 -contesta all’indagato il reato di cui all’art. 4, comma 49, legge 24 dicembre 2003, n. 350, per non avere fatto apporre sulle camicie una etichetta con la scritta «made in Serbia». Sembra quindi -considerando anche la data del fatto -che sia stato ipotizzato il reato di cui al suddetto art. 4, comma 49, nel testo modificato dall’art. 17, comma 4, letto a), della legge 23 luglio 2009, n. 99, il quale, innovando alla precedente disposizione, ha previsto come reato anche l’uso di marchi di aziende italiane su prodotti o merci non originari dell’Italia senza l’indicazione precisa del loro Paese o del loro luogo di fabbricazione o di produzione. Il fatto contestato, invero, consiste nel non avere apposto sulle camicie l’etichetta «made in Serbia», ossia di non avere indicato il luogo di fabbricazione, pur avendovi apposto l’etichetta «Prodotto e distribuito da FI Studio Srl Floreze Italy» ed il marchio «Romeo Gigli».

Occorre quindi fare un rapido accenno alla diversa disciplina della materia succedutasi nel tempo per individuare quella vigente al momento del fatto ed applicabile nella specie.

8. Deve invero ricordarsi che questa Corte, prima dell’entrata in vigore della legge 23 luglio 2009, n. 99, ha con giurisprudenza costante ripetutamente affermato che, ai sensi dell’art. 517 cod. pen. e dell’art. 4, comma 49, della legge 24 dicembre 2003, n. 350 (anche a seguito della modificazione apportata dall’art. 1, comma 9, del decreto legge 14 marzo 2005, n. 35), relativamente ai prodotti industriali, per «provenienza ed origine» della merce non deve intendersi (ad eccezione delle specifiche ipotesi espressamente previste dalla legge) la provenienza della stessa da un certo luogo di fabbricazione, totale o parziale, bensì la sua provenienza da un determinato imprenditore che si assume la responsabilità giuridica, economica e tecnica della produzione e si rende garante della qualità del prodotto nei confronti degli acquirenti (Sez. 111, 7 luglio 1999, Thum, m. 214.438; Sez. 111, 21 ottobre 2004, n. 3352/05, Scarpa, m. 231110; Sez. III, 17.2.2005, n. 13712, Acanfora, m. 231831; Sez. III, 19.4.2005, D. 34103, Tarantino, m. 232397; Sez. III, 2 marzo 2005, n. 23043, Dewar, m. 234468; Sez. III, 24.1.2007, n. 8684, Emi1i, m. 236087; Sez. III, 15 marzo 2007, n. 27250, Contarini, m. 237812; Sez. III, 28.9.2007, D. 166/08, Parentini, m. 238560).

Lo strumento che rassicura il mercato sulla qualità del prodotto è il marchio, registrato o no, che si configura come segno distintivo del prodotto medesimo, nella forma di un emblema o di una denominazione. La triplice tradizionale funzione del marchio (indicare la provenienza imprenditoriale, assicurare la qualità del prodotto e agire come suggestione pubblicitaria) non è modificata neppure nella realtà economica contemporanea, nella quale numerosi imprenditori si avvalgono legittimamente di imprese situate in altri paesi per fabbricare i propri prodotti contrassegnati da un proprio marchio distintivo (Sez. 111, 17.2.2005, n. 13712, Acanfora, m. 231831). Il marchio, quindi, rappresenta il collegamento tra un determinato prodotto e l’impresa, non nel senso della materialità della fabbricazione, ma della responsabilità del produttore il quale, solo di fatto, ne garantisce la qualità nel senso che è il solo responsabile verso l’acquirente; sicché non è richiesto dalla disciplina del marchio che venga pure indicato il luogo di fabbricazione perché non imposto dalla legge e perché non sussiste per l’imprenditore l’obbligo di informare che egli non fabbrica direttamente i prodotti (Sez. III, 21 ottobre 2004, n. 3352/05, Scarpa, m. 231110).

In particolare, è stato più volte affermato che quando il marchio corrisponda effettivamente alla ditta che si assume la responsabilità e la garanzia della qualità della merce, è poi irrilevante che la ditta italiana sia stata solo importatrice o abbia anche partecipato alla produzione della merce, dal momento che essa si è comunque resa garante della qualità della merce stessa nei confronti degli eventuali acquirenti (Sez. III, 21 ottobre 2004, n. 3352/05, Scarpa, m. 231110; Sez. 111, 17.2.2005, n. 13712, Acanfora, m. 231831; Sez. 1Il, 19.4.2005, n. 34103, Tarantino, m. 232397; Sez. III, 2 marzo 2005, n. 23043, Dewar, m. 234468; Sez. III, 15 marzo 2007, n. 27250, Contarini, m. 237812; Sez. III, f 28.9.2007, n. 166/08, Parentini, m. 238560; Sez. III, 13 maggio 2008, Mazza).

9. E’ stato peraltro specificato che il reato è astrattamente configurabile solo quando, oltre al proprio marchio o alla indicazione della località in cui ha la sede, l’imprenditore apponga anche una dicitura con cui attesti espressamente che il prodotto è stato fabbricato in Italia o comunque in un paese diverso da quello di effettiva fabbricazione (paese da individuare secondo le disposizioni del codice doganale europeo). In questi casi, invero, la falsa apposizione del marchio «made in Italy» o «prodotto in Italia» sarà punita ai sensi dell’art. 4, comma 49, legge 24 dicembre 2003, n. 350, mentre la falsa attestazione che il prodotto è stato fabbricato in un altro paese sarà comunque punita ai sensi dell’art. 517 cod. pen. In questi casi, infatti, non ha più rilievo la provenienza da un dato imprenditore che assicura la qualità del prodotto, ma il fatto che la falsa specifica attestazione che il prodotto è stato fabbricato in un determinato paese è comunque idonea ad ingannare il consumatore e ad incidere sulle sue scelte (egli potrebbe indursi, per i più diversi motivi, ad acquistare o non acquistare un prodotto proprio perché fabbricato o non fabbricato in un determinato luogo).

Con la precisazione che ciò può verificarsi solo quando sul prodotto sia apposta la specifica indicazione del suo luogo di produzione, e questo sia falso alla stregua dei criteri indicati dal codice doganale europeo. Non è invece sufficiente l’indicazione di un marchio, o del nome della ditta o dell’impresa, o anche della località in cui ha sede questa impresa, o simili indicazioni, quando non sia indicato che il prodotto è fabbricato in Italia o in un altro determinato paese. Né sono sufficienti indicazioni pubblicitarie che si riferiscono all’impresa e non al luogo di produzione.

10. Questa Corte ha anche ripetutamente affermato che è erronea la tesi che le disposizioni in esame (ossia l’art. 4, comma 49, legge 24 dicembre 2003, n. 350, come modificato dall’art. l, comma 9, del d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito dalla legge 14 maggio 2005, n. 80) avrebbero imposto agli imprenditori italiani, che commercializzano in Italia beni da essi o per essi prodotti all’estero, un obbligo di positiva indicazione del luogo in cui i beni importati sono materialmente prodotti.

Invero, almeno sulla base delle disposizioni di legge dianzi ricordate, non esisteva alcun obbligo per l’imprenditore di indicare il luogo di fabbricazione del prodotto commercializzato con il suo marchio.

La suddetta tesi, del resto, non solo non trova fondamento nella lettera e nella ratio delle disposizioni in questione, ma deve essere disattesa anche per la necessità di dare alle disposizioni stesse una interpretazione adeguatrice, che non rischi di porle in contrasto con i principi dell’Unione europea e con quelli costituzionali (Sez. III, 2 marzo 2005, n. 23043, Dewar, m. 234468).

Ed invero, qualora un siffatto obbligo fosse posto unilateralmente soltanto dal legislatore nazionale e non anche dagli altri paesi della Comunità, potrebbe prospettarsi un pericolo di non conformità con i principi comunitari relativi alla libera circolazione dei beni e servizi ed alle misure di effetto equivalente. Un obbligo del genere potrebbe infatti avere l’effetto di scoraggiare i rapporti tra imprese situate in Stati membri diversi, potendo indurre l’impresa che deve far realizzare da altri i propri prodotti apponendovi il suo marchio, a rivolgersi all’industria nazionale invece che ad imprese situate in altri Stati membri. Del resto, proprio in applicazione di tali principi, gli organi dell’Unione europea e la Corte di Giustizia si sono più volte espressi con disfavore in ordine alla marcatura di origine dei prodotti.

Un obbligo del genere, inoltre, potrebbe, in contrasto con gli artt. 3 e 41 Cost., portare ad una ingiustificata disparità di trattamento tra gli imprenditori nazionali e ad una compressione della libertà di iniziativa nei confronti di alcuni imprenditori nazionali. Ed invero, sarebbe consentito solo agli imprenditori nazionali che si rivolgono, per la realizzazione dei propri prodotti, ad altri produttori nazionali, di omettere la indicazione della origine e provenienza, mentre tale indicazione sarebbe obbligatoria -a prescindere da ogni incidenza sulla qualità del prodotto -qualora i prodotti fossero realizzati, a parità di condizioni qualitative, all’estero. Inoltre, poiché in ambito comunitario vige il principio che il prodotto legalmente commercializzato in uno Stato membro deve poter essere commercializzato negli altri Stati membri (a meno che non ricorrano esigenze imperative quali la tutela della salute, la lealtà dei rapporti commerciali, i diritti di privativa industriale, nella specie non configurabili) e poiché non risulta l’esistenza di norme comunitarie che impongano l’indicazione della origine e provenienza del prodotto in casi come quello in esame, potrebbe ipotizzarsi un caso di discriminazione alla rovescia. Invero, l’operatore nazionale potrebbe trovarsi discriminato a favore dell’operatore di altro Stato membro, perché ad esso sarebbe imposto l’obbligo di indicazione della origine della merce prodotta all’estero, mentre all’operatore di altro stato membro (ovviamente libero di commercializzare sul mercato italiano) tale obbligo non sarebbe imposto. Ulteriori profili di irrazionale disparità di trattamento potrebbero ravvisarsi nell’ipotesi che l’obbligo di indicazione della fabbricazione all’estero sussista solo per i prodotti cui sono apposti marchi o diciture italiane o che li facciano apparire come prodotti in Italia e non anche quando siano apposti marchi o diciture di altri Stati dell’Unione.

11. Questa interpretazione è altresì confermata dalle modifiche apportate all’art. 4, comma 49, legge 24 dicembre 2003, n. 350, con l’art. 17, comma 4, lett. a), della legge 23 luglio 2009, n. 99. E infatti solo con questa disposizione - avente chiaramente natura innovativa e non interpretativa - è stata introdotta nel suddetto comma 49 una disposizione che prevede che qualora sugli oggetti fabbricati all’estero siano apposti marchi di aziende italiane debba anche essere apposta «l’indicazione precisa, in caratteri evidenti, del loro paese o del loro luogo di fabbricazione o di produzione, o altra indicazione sufficiente ad evitare qualsiasi errore sulla loro effettiva origine estera». L’introduzione di questa nuova disposizione conferma che in precedenza non vi era obbligo di indicare il luogo di fabbricazione per gli oggetti prodotti all’estero, quand’anche sugli stessi fossero apposti marchi di aziende italiane, che quindi l’imprenditore era libero di usare anche su oggetti prodotti all’estero senza alcuna altra specificazione.

Sennonché il suddetto art. 17, comma 4 della legge 23 luglio 2009, n. 99 (con la disposizione da esso inserita nell’art. 4, comma 49, della legge 24 dicembre 2003, n. 350) dopo due mesi dalla sua entrata in vigore è stato abrogato dall’art. 16, comma 8, del d.l. 25 settembre 2009, n. 135, convertito con legge 20 novembre 2009, n. 166.

Il comma 6 del medesimo art. 16 del d.l. 25 settembre 2009, n. 135, peraltro, ha inserito nell’art. 4 della legge 24 dicembre 2003, n. 350, il comma 49 bis, il quale ora prevede che «costituisce fallace indicazione l’uso del marchio, da parte del titolare o del licenziatario, con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana ai sensi della normativa europea sull’origine, senza che gli stessi siano accompagnati da indicazioni precise ed evidenti sull’origine o provenienza estera o comunque sufficienti ad evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore sull’effettiva origine del prodotto, ovvero senza essere accompagnati da attestazione, resa da parte del titolare o del licenziatario del marchio, circa le informazioni che, a sua cura, verranno rese in fase di commercializzazione sulla effettiva origine estera del prodotto. Il contravventore è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 ad euro 250.000».

Pertanto, attualmente, un obbligo di indicazione della origine estera del prodotto sussiste soltanto nell’ipotesi di uso del marchio con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto sia di origine italiana. Peraltro, anche in questo caso, non è indispensabile l’indicazione del paese di fabbricazione, essendo sufficienti altre indicazioni che evitino fraintendimenti del consumatore sull’effettiva origine del prodotto ovvero una attestazione sulle informazioni che verranno in seguito rese in fase di commercializzazione sulla effettiva origine estera del prodotto.

Il mancato adempimento di tale obbligo, peraltro, non è previsto come reato e costituisce solo un illecito amministrativo.

12. Nel caso in esame il fatto è stato commesso il 28 ottobre 2009 (data del sequestro da parte dell’Agenzia delle dogane di Firenze) ossia quando già era in vigore il d.l. 25 settembre 2009, n. 135, e quindi quando già era stato abrogato l’art. 17, comma 4 della legge 23 luglio 2009, n. 99 (con la disposizione da esso inserita nell’art. 4, comma 49, della legge 24 dicembre 2003, n. 350).

Erroneamente, pertanto, non è stato tenuto conto di detta abrogazione e comunque della circostanza che era già in vigore una norma che qualificava il fatto come illecito amministrativo.

Il giudice del merito quindi dovrà, in ogni caso, accertare se il fatto contestato rientri in una delle ipotesi che sono ancora previste come reato dall’art. 4, comma 49, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, ovvero rientri comunque anche nelle ipotesi previste come illecito amministrativo dal successivo comma 49 bis. In quest’ultimo caso dovrà escludere l’astratta configurabilità di un reato e la possibilità di sottoporre gli oggetti a sequestro penale, probatorio o preventivo.

I dianzi rilevati profili di non conformità ai principi comunitari o costituzionali restano nella specie irrilevanti, perché in questa sede non deve farsi applicazione dell’ art. 4, comma 49 bis, cit.

Per questi motivi la Corte Suprema di Cassazione

annulla l’ordinanza impugnata con rinvio al tribunale di Firenze.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di Cassazione, il 9 febbraio 2010.

Sezione Terza Penale

Presidente Lupo - Relatore Franco

1. Il PM di Firenze convalidò il 29.10.2009 il sequestro probatorio disposto dalla Agenzia delle Dogane di Firenze di 9.005 camicie da uomo provenienti dalla Serbia in relazione al reato di cui all’art.4, comma 49, legge 24 dicembre 2003, n.350, ed all’art.517 cod. pen. Perché le camicie erano prive della etichetta «made in Italy», ma recavano la sola etichetta con la dicitura «Prodotto e distribuito da FI Studio Srl Floreze Italy» e la marca «Romeo Gigli».

2. Tizio propose istanza di riesame.

Il tribunale del riesame di Firenze, con l’ordinanza in epigrafe, revocò il sequestro probatorio e dispose la restituzione delle cose in sequestro all’indagato alla condizione che questi provveda alla esatta indicazione sulle camicie e di quant’altro induca a ritenere che si tratti di prodotto di origine italiana.

3. Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Firenze propone ricorso per Cassazione deducendo che il Tribunale, una volta verificato il fumus del reato, avrebbe dovuto rigettare l’impugnazione, non avendo il potere di disporre la sanatoria in via amministrativa, la quale comunque non influisce sulla legittimità del sequestro.

Motivi della decisione

4. A parere del Collegio il ricorso deve essere accolto nei limiti che seguono.

Va premesso che la cosiddetta «regolarizzazione amministrativa» della merce, mediante l’asportazione dei segni o delle figure o quant’altro induca a ritenere che si tratti di prodotto di origine italiana, o attraverso l’esatta indicazione dell’origine o l’asportazione della stampigliatura «made in Italy», non comporta l’estinzione del reato, non essendo prevista dalla legge come scriminante.

Sono quindi inconferenti le considerazioni del ricorrente circa una presunta impossibilità del tribunale del riesame di revocare il sequestro probatorio quando sopravvenga una causa di estinzione del reato, ritenendo invero questo Collegio che debba preferirsi il diverso orientamento secondo cui «non travalica i limiti della propria competenza il giudice del riesame il quale dia atto che il reato ipotizzato sarebbe in ogni caso prescritto e ritenga, pertanto, inutile il permanere del sequestro. Infatti in tanto sussiste il potere del P.M. di procedere a sequestro, in quanto la sua attività sia finalizzata alla persecuzione di un reato. Ma se il reato risulta ex actis estinto, tale potere viene meno» (Sez. III, 4.11.1998, n. 2859, Agustoni, m. 212483).

Sennonché, secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte, anche se, ai sensi dell’art. 4, comma 49, l. n. 350/2004, la regolarizzazione opera sul piano amministrativo e non comporta l’estinzione del reato, essa è tuttavia idonea a legittimare il dissequestro della merce che alla fine delle operazioni risulti regolarizzata, atteso che viene meno la possibilità di trarre in inganno gli eventuali acquirenti, con il che verrebbero meno anche le finalità probatorie indispensabili per il mantenimento della misura (Sez. IlI, 24.11.2005, n. 3669/06, Huang, m. 233285; Sez. III, 10.11.2004, n. 49394, D’Amodio, m. 230477).

Pur avendo quest’ultima decisione ritenuto che il giudice può autorizzare la temporanea rimozione dei sigilli per consentire all’indagato di «bonificare» la merce sequestrata, disponendo da subito il dissequestro di quella che, alla fine delle operazioni, risulterà regolarizzata e pur avendo le dette decisioni ammesso tale possibilità anche per il sequestro probatorio, poiché però la regolarizzazione non comporta l’estinzione del reato, ritiene il Collegio che occorra precisare che, in caso di sequestro probatorio, per disporre la revoca del sequestro è anche necessario che il giudice accerti che, nonostante la regolarizzazione, non per- mangano ancora le specifiche esigenze probatorie che avevano giustificato l’apposizione ed il mantenimento del vincolo.

Nella specie l’ordinanza impugnata è totalmente priva di motivazione in proposito, sicché la stessa deve essere annullata con rinvio.

5. È però opportuno, per motivi di economia processuale, anche evidenziare che l’ordinanza impugnata è altresì priva di motivazione su una serie di altre questioni, alcune delle quali avrebbero dovuto essere rilevate anche d’ufficio.

In primo luogo deve rilevarsi che, a quanto qui risulta, né il verbale di sequestro dell’ufficio doganale né il decreto del PM di convalida del sequestro probatorio, contenevano una indicazione di quali fossero le concrete esigenze probatorie che la misura nella specie doveva assicurare.

Ora, secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte (Sez. Un., 28 gennaio 2004, n. 5876, Ferazzi, e numerose altre successive), anche per le cose che costituiscono corpo di reato il decreto di sequestro probatorio deve contenere, a pena di nullità, idonea motivazione sulla concreta finalità probatoria perseguita e, se tale indicazione manca e se il PM non indica le ragioni che giustificano in concreto la misura neppure davanti al tribunale del riesame, quest’ultimo non è legittimato a disegnare, di propria iniziativa, il perimetro delle specifiche finalità del sequestro, cosi integrando il titolo cautelare mediante un’arbitraria opera di supplenza delle scelte discrezionali che siano state da questo radicalmente e illegittimamente pretermesse dall’accusa.

Nella specie questa Corte non è in grado di sapere se il PM avesse nella udienza di riesame specificato le concrete ragioni probatorie che giustificavano la misura. D’altra parte, allo stato nemmeno risulta se l’indagato avesse eccepito la mancanza di motivazione sulle esigenze probatorie.

E tuttavia, al fine di disporre la revoca del sequestro a seguito della regolarizzazione amministrativa, il tribunale del riesame dovrà comunque accertare se, nonostante tale regolarizzazione, tale revoca sia eventualmente impedita dal persistere delle esigenze probatorie indicate dal PM con riferimento a tutti gli oggetti posti in sequestro.

6. Sotto quest’ultimo profilo, va anche rilevato che nella specie sono state sottoposte a sequestro probatorio 9.500 camicie. Il tribunale del riesame avrebbe dovuto, d’ufficio, accertare se per la finalità probatoria era necessario sequestrare tutte le 9.500 camicie oppure se era sufficiente porre il vincolo solo su alcuni capi. In quest’ultimo caso si tratterebbe, evidentemente, di sequestro preventivo e non probatorio ed il tribunale del riesame avrebbe dovuto dichiarare la nullità del sequestro preventivo irritualmente emesso dal P.M. nelle forme del sequestro probatorio (Sez. III, 21 novembre 2006, n. 42115, Di Gregorio). E’ invero illegittimo un sequestro avente finalità preventive che invece il pubblico ministero qualifichi come sequestro probatorio ed adotti con proprio decreto, atteso che con tale inesatta qualificazione il pubblico ministero verrebbe illegittimamente ad espropriare il giudice per le indagini preliminari della giurisdizione che l’art. 321 cod. proc. peno gli riserva in tema di adozione di sequestro preventivo (cfr. Sez. 111, 5 giugno 2007, n. 37837, Grande, m. 237925; Sez. 111, 3.11.2009, El Kaarfi; Sez. 111, 24.9.2009, Margani; Sez. 111, 9.2.1010, Conte; Sez. 111,28 settembre 1995, Viola, m. 202.953; Sez. I, 19 ottobre 1993, Artuso, m. 195712).

7. Va inoltre rilevato che nella specie l’accusa ha contestato all’indagato il fatto di avere importato camicie fabbricate in Serbia, con tessuto inviato dall’Italia, che recavano l’etichetta con la dicitura «Prodotto e distribuito da FI Studio Srl Floreze Italy» e la marca «Romeo Gigli», ma non anche l’etichetta - «made in Serbia». Allo stesso modo, anche il decreto di convalida -emesso il 29 ottobre 2009 -contesta all’indagato il reato di cui all’art. 4, comma 49, legge 24 dicembre 2003, n. 350, per non avere fatto apporre sulle camicie una etichetta con la scritta «made in Serbia». Sembra quindi -considerando anche la data del fatto -che sia stato ipotizzato il reato di cui al suddetto art. 4, comma 49, nel testo modificato dall’art. 17, comma 4, letto a), della legge 23 luglio 2009, n. 99, il quale, innovando alla precedente disposizione, ha previsto come reato anche l’uso di marchi di aziende italiane su prodotti o merci non originari dell’Italia senza l’indicazione precisa del loro Paese o del loro luogo di fabbricazione o di produzione. Il fatto contestato, invero, consiste nel non avere apposto sulle camicie l’etichetta «made in Serbia», ossia di non avere indicato il luogo di fabbricazione, pur avendovi apposto l’etichetta «Prodotto e distribuito da FI Studio Srl Floreze Italy» ed il marchio «Romeo Gigli».

Occorre quindi fare un rapido accenno alla diversa disciplina della materia succedutasi nel tempo per individuare quella vigente al momento del fatto ed applicabile nella specie.

8. Deve invero ricordarsi che questa Corte, prima dell’entrata in vigore della legge 23 luglio 2009, n. 99, ha con giurisprudenza costante ripetutamente affermato che, ai sensi dell’art. 517 cod. pen. e dell’art. 4, comma 49, della legge 24 dicembre 2003, n. 350 (anche a seguito della modificazione apportata dall’art. 1, comma 9, del decreto legge 14 marzo 2005, n. 35), relativamente ai prodotti industriali, per «provenienza ed origine» della merce non deve intendersi (ad eccezione delle specifiche ipotesi espressamente previste dalla legge) la provenienza della stessa da un certo luogo di fabbricazione, totale o parziale, bensì la sua provenienza da un determinato imprenditore che si assume la responsabilità giuridica, economica e tecnica della produzione e si rende garante della qualità del prodotto nei confronti degli acquirenti (Sez. 111, 7 luglio 1999, Thum, m. 214.438; Sez. 111, 21 ottobre 2004, n. 3352/05, Scarpa, m. 231110; Sez. III, 17.2.2005, n. 13712, Acanfora, m. 231831; Sez. III, 19.4.2005, D. 34103, Tarantino, m. 232397; Sez. III, 2 marzo 2005, n. 23043, Dewar, m. 234468; Sez. III, 24.1.2007, n. 8684, Emi1i, m. 236087; Sez. III, 15 marzo 2007, n. 27250, Contarini, m. 237812; Sez. III, 28.9.2007, D. 166/08, Parentini, m. 238560).

Lo strumento che rassicura il mercato sulla qualità del prodotto è il marchio, registrato o no, che si configura come segno distintivo del prodotto medesimo, nella forma di un emblema o di una denominazione. La triplice tradizionale funzione del marchio (indicare la provenienza imprenditoriale, assicurare la qualità del prodotto e agire come suggestione pubblicitaria) non è modificata neppure nella realtà economica contemporanea, nella quale numerosi imprenditori si avvalgono legittimamente di imprese situate in altri paesi per fabbricare i propri prodotti contrassegnati da un proprio marchio distintivo (Sez. 111, 17.2.2005, n. 13712, Acanfora, m. 231831). Il marchio, quindi, rappresenta il collegamento tra un determinato prodotto e l’impresa, non nel senso della materialità della fabbricazione, ma della responsabilità del produttore il quale, solo di fatto, ne garantisce la qualità nel senso che è il solo responsabile verso l’acquirente; sicché non è richiesto dalla disciplina del marchio che venga pure indicato il luogo di fabbricazione perché non imposto dalla legge e perché non sussiste per l’imprenditore l’obbligo di informare che egli non fabbrica direttamente i prodotti (Sez. III, 21 ottobre 2004, n. 3352/05, Scarpa, m. 231110).

In particolare, è stato più volte affermato che quando il marchio corrisponda effettivamente alla ditta che si assume la responsabilità e la garanzia della qualità della merce, è poi irrilevante che la ditta italiana sia stata solo importatrice o abbia anche partecipato alla produzione della merce, dal momento che essa si è comunque resa garante della qualità della merce stessa nei confronti degli eventuali acquirenti (Sez. III, 21 ottobre 2004, n. 3352/05, Scarpa, m. 231110; Sez. 111, 17.2.2005, n. 13712, Acanfora, m. 231831; Sez. 1Il, 19.4.2005, n. 34103, Tarantino, m. 232397; Sez. III, 2 marzo 2005, n. 23043, Dewar, m. 234468; Sez. III, 15 marzo 2007, n. 27250, Contarini, m. 237812; Sez. III, f 28.9.2007, n. 166/08, Parentini, m. 238560; Sez. III, 13 maggio 2008, Mazza).

9. E’ stato peraltro specificato che il reato è astrattamente configurabile solo quando, oltre al proprio marchio o alla indicazione della località in cui ha la sede, l’imprenditore apponga anche una dicitura con cui attesti espressamente che il prodotto è stato fabbricato in Italia o comunque in un paese diverso da quello di effettiva fabbricazione (paese da individuare secondo le disposizioni del codice doganale europeo). In questi casi, invero, la falsa apposizione del marchio «made in Italy» o «prodotto in Italia» sarà punita ai sensi dell’art. 4, comma 49, legge 24 dicembre 2003, n. 350, mentre la falsa attestazione che il prodotto è stato fabbricato in un altro paese sarà comunque punita ai sensi dell’art. 517 cod. pen. In questi casi, infatti, non ha più rilievo la provenienza da un dato imprenditore che assicura la qualità del prodotto, ma il fatto che la falsa specifica attestazione che il prodotto è stato fabbricato in un determinato paese è comunque idonea ad ingannare il consumatore e ad incidere sulle sue scelte (egli potrebbe indursi, per i più diversi motivi, ad acquistare o non acquistare un prodotto proprio perché fabbricato o non fabbricato in un determinato luogo).

Con la precisazione che ciò può verificarsi solo quando sul prodotto sia apposta la specifica indicazione del suo luogo di produzione, e questo sia falso alla stregua dei criteri indicati dal codice doganale europeo. Non è invece sufficiente l’indicazione di un marchio, o del nome della ditta o dell’impresa, o anche della località in cui ha sede questa impresa, o simili indicazioni, quando non sia indicato che il prodotto è fabbricato in Italia o in un altro determinato paese. Né sono sufficienti indicazioni pubblicitarie che si riferiscono all’impresa e non al luogo di produzione.

10. Questa Corte ha anche ripetutamente affermato che è erronea la tesi che le disposizioni in esame (ossia l’art. 4, comma 49, legge 24 dicembre 2003, n. 350, come modificato dall’art. l, comma 9, del d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito dalla legge 14 maggio 2005, n. 80) avrebbero imposto agli imprenditori italiani, che commercializzano in Italia beni da essi o per essi prodotti all’estero, un obbligo di positiva indicazione del luogo in cui i beni importati sono materialmente prodotti.

Invero, almeno sulla base delle disposizioni di legge dianzi ricordate, non esisteva alcun obbligo per l’imprenditore di indicare il luogo di fabbricazione del prodotto commercializzato con il suo marchio.

La suddetta tesi, del resto, non solo non trova fondamento nella lettera e nella ratio delle disposizioni in questione, ma deve essere disattesa anche per la necessità di dare alle disposizioni stesse una interpretazione adeguatrice, che non rischi di porle in contrasto con i principi dell’Unione europea e con quelli costituzionali (Sez. III, 2 marzo 2005, n. 23043, Dewar, m. 234468).

Ed invero, qualora un siffatto obbligo fosse posto unilateralmente soltanto dal legislatore nazionale e non anche dagli altri paesi della Comunità, potrebbe prospettarsi un pericolo di non conformità con i principi comunitari relativi alla libera circolazione dei beni e servizi ed alle misure di effetto equivalente. Un obbligo del genere potrebbe infatti avere l’effetto di scoraggiare i rapporti tra imprese situate in Stati membri diversi, potendo indurre l’impresa che deve far realizzare da altri i propri prodotti apponendovi il suo marchio, a rivolgersi all’industria nazionale invece che ad imprese situate in altri Stati membri. Del resto, proprio in applicazione di tali principi, gli organi dell’Unione europea e la Corte di Giustizia si sono più volte espressi con disfavore in ordine alla marcatura di origine dei prodotti.

Un obbligo del genere, inoltre, potrebbe, in contrasto con gli artt. 3 e 41 Cost., portare ad una ingiustificata disparità di trattamento tra gli imprenditori nazionali e ad una compressione della libertà di iniziativa nei confronti di alcuni imprenditori nazionali. Ed invero, sarebbe consentito solo agli imprenditori nazionali che si rivolgono, per la realizzazione dei propri prodotti, ad altri produttori nazionali, di omettere la indicazione della origine e provenienza, mentre tale indicazione sarebbe obbligatoria -a prescindere da ogni incidenza sulla qualità del prodotto -qualora i prodotti fossero realizzati, a parità di condizioni qualitative, all’estero. Inoltre, poiché in ambito comunitario vige il principio che il prodotto legalmente commercializzato in uno Stato membro deve poter essere commercializzato negli altri Stati membri (a meno che non ricorrano esigenze imperative quali la tutela della salute, la lealtà dei rapporti commerciali, i diritti di privativa industriale, nella specie non configurabili) e poiché non risulta l’esistenza di norme comunitarie che impongano l’indicazione della origine e provenienza del prodotto in casi come quello in esame, potrebbe ipotizzarsi un caso di discriminazione alla rovescia. Invero, l’operatore nazionale potrebbe trovarsi discriminato a favore dell’operatore di altro Stato membro, perché ad esso sarebbe imposto l’obbligo di indicazione della origine della merce prodotta all’estero, mentre all’operatore di altro stato membro (ovviamente libero di commercializzare sul mercato italiano) tale obbligo non sarebbe imposto. Ulteriori profili di irrazionale disparità di trattamento potrebbero ravvisarsi nell’ipotesi che l’obbligo di indicazione della fabbricazione all’estero sussista solo per i prodotti cui sono apposti marchi o diciture italiane o che li facciano apparire come prodotti in Italia e non anche quando siano apposti marchi o diciture di altri Stati dell’Unione.

11. Questa interpretazione è altresì confermata dalle modifiche apportate all’art. 4, comma 49, legge 24 dicembre 2003, n. 350, con l’art. 17, comma 4, lett. a), della legge 23 luglio 2009, n. 99. E infatti solo con questa disposizione - avente chiaramente natura innovativa e non interpretativa - è stata introdotta nel suddetto comma 49 una disposizione che prevede che qualora sugli oggetti fabbricati all’estero siano apposti marchi di aziende italiane debba anche essere apposta «l’indicazione precisa, in caratteri evidenti, del loro paese o del loro luogo di fabbricazione o di produzione, o altra indicazione sufficiente ad evitare qualsiasi errore sulla loro effettiva origine estera». L’introduzione di questa nuova disposizione conferma che in precedenza non vi era obbligo di indicare il luogo di fabbricazione per gli oggetti prodotti all’estero, quand’anche sugli stessi fossero apposti marchi di aziende italiane, che quindi l’imprenditore era libero di usare anche su oggetti prodotti all’estero senza alcuna altra specificazione.

Sennonché il suddetto art. 17, comma 4 della legge 23 luglio 2009, n. 99 (con la disposizione da esso inserita nell’art. 4, comma 49, della legge 24 dicembre 2003, n. 350) dopo due mesi dalla sua entrata in vigore è stato abrogato dall’art. 16, comma 8, del d.l. 25 settembre 2009, n. 135, convertito con legge 20 novembre 2009, n. 166.

Il comma 6 del medesimo art. 16 del d.l. 25 settembre 2009, n. 135, peraltro, ha inserito nell’art. 4 della legge 24 dicembre 2003, n. 350, il comma 49 bis, il quale ora prevede che «costituisce fallace indicazione l’uso del marchio, da parte del titolare o del licenziatario, con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana ai sensi della normativa europea sull’origine, senza che gli stessi siano accompagnati da indicazioni precise ed evidenti sull’origine o provenienza estera o comunque sufficienti ad evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore sull’effettiva origine del prodotto, ovvero senza essere accompagnati da attestazione, resa da parte del titolare o del licenziatario del marchio, circa le informazioni che, a sua cura, verranno rese in fase di commercializzazione sulla effettiva origine estera del prodotto. Il contravventore è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 ad euro 250.000».

Pertanto, attualmente, un obbligo di indicazione della origine estera del prodotto sussiste soltanto nell’ipotesi di uso del marchio con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto sia di origine italiana. Peraltro, anche in questo caso, non è indispensabile l’indicazione del paese di fabbricazione, essendo sufficienti altre indicazioni che evitino fraintendimenti del consumatore sull’effettiva origine del prodotto ovvero una attestazione sulle informazioni che verranno in seguito rese in fase di commercializzazione sulla effettiva origine estera del prodotto.

Il mancato adempimento di tale obbligo, peraltro, non è previsto come reato e costituisce solo un illecito amministrativo.

12. Nel caso in esame il fatto è stato commesso il 28 ottobre 2009 (data del sequestro da parte dell’Agenzia delle dogane di Firenze) ossia quando già era in vigore il d.l. 25 settembre 2009, n. 135, e quindi quando già era stato abrogato l’art. 17, comma 4 della legge 23 luglio 2009, n. 99 (con la disposizione da esso inserita nell’art. 4, comma 49, della legge 24 dicembre 2003, n. 350).

Erroneamente, pertanto, non è stato tenuto conto di detta abrogazione e comunque della circostanza che era già in vigore una norma che qualificava il fatto come illecito amministrativo.

Il giudice del merito quindi dovrà, in ogni caso, accertare se il fatto contestato rientri in una delle ipotesi che sono ancora previste come reato dall’art. 4, comma 49, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, ovvero rientri comunque anche nelle ipotesi previste come illecito amministrativo dal successivo comma 49 bis. In quest’ultimo caso dovrà escludere l’astratta configurabilità di un reato e la possibilità di sottoporre gli oggetti a sequestro penale, probatorio o preventivo.

I dianzi rilevati profili di non conformità ai principi comunitari o costituzionali restano nella specie irrilevanti, perché in questa sede non deve farsi applicazione dell’ art. 4, comma 49 bis, cit.

Per questi motivi la Corte Suprema di Cassazione

annulla l’ordinanza impugnata con rinvio al tribunale di Firenze.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di Cassazione, il 9 febbraio 2010.