L’università degli ignoranti
Nota introduttiva di Riccardo Radi
Nella pagina Cultura de “la Repubblica” del 13 giugno scorso, Roberto Saviano intervista il filosofo francese Michel Onfray.
Nella presentazione dell’intervista Roberto Saviano indica Onfray come un faro che “quando mi sento in mare aperto, senza direzione mi indica l’orizzonte”.
Dopo tanta premessa leggo con stupore la scoperta dell’acqua calda da parte del filosofo e del suo naufrago. Entrambi convengono che: “La scuola repubblicana che insegnava a ragazzi e ragazze a leggere, scrivere, far di conto e pensare senza guardare alle loro origini sociali è morta nel maggio del ’68 … La scuola che una volta produceva cittadini, adesso produce pecore di Panurgo in catena di montaggio.”.
Urca che “scoperta”, immagino i due che si danno di gomito (in tempi di coronavirus) dopo averci svelato “il terzo segreto di Fatima”.
La scuola è morta nel 1968 e ve ne accorgete nel 2020! Dopo 52 anni!!!
Invitiamo il filosofo faro e il discepolo naufrago a leggere: “L’università degli ignoranti” di Piero Operti, articolo scritto sul “Borghese” il 14 marzo 1968, addirittura prima dell’avvenuto “decesso” svelatoci dai due geni dopo 52 anni dalla “dipartita”.
"DEMOCRAZIA, progresso, tempi nuovi: con queste tre parole si tappa la bocca a chi sa ancora distinguere il possibile dall’impossibile, il sensato dall’insensato. Qualunque assurdità venga presentata come affermazione di democrazia, incentivo al progresso, adeguamento ai temi nuovi deve aver via libera; e ogni resistenza è bollata di rigurgito fascista, sopravvivenza medioevale, reazione in agguato. Prassi corrente è divenuta per i commandos universitari la «occupazione» delle aule, considerata efficace terapia per guarire l’Università dal suoi mali, e i nuovi «arditi» possono impunemente fracassare infissi e suppellettili, rovinare gli impianti, insudiciare i locali: tanto non saranno essi a pagare i danni; possono picchiare gli uscieri e insolentire il rettore, dal momento che fruiscono della Immunità studentesca non meno totalitaria della immunità parlamentare. Possono anche gettare il Crocifisso nella spazzatura, gesto che compiuto da uno studente di destra sarebbe sacrilegio, compiuto da uno di sinistra passa sotto silenzio e viene lodato quale ritorsione, sia pure tardiva, contro chi introdusse nelle aule il Crocifisso. Alla sinistra infatti, di ispirazione moscovita o pechinese o cubana, appartengono gli assaltatori di facoltà, una timbratura che li rende invulnerabili come per Achille l’immersione nello Stige.
Per capire cosa vogliono basta leggere i manifesti e proclami che hanno lanciato dal principio dell’agitazione e che, riuniti e coordinati, costituiranno la nuova Magna Charta dell’istruzione superiore. In uno di questi documenti essi esigono fra altre cose «il recupero delia comunicazione delle ricerche, con la demistificazione del linguaggio e dello spazio culturale per questa operazione».
«Rafèl mai améc izabi almi» son le parole messe da Dante sulla bocca di Nembrot costruttore della Torre di Babele, a causa della quale «pure un linguaggio nel mondo non s’usa». I nuovi progettisti di Babele non vogliono più saperne di lezioni «cattedratiche» e hanno espresso il loro odio distruggendo una cattedra con una bombetta emblematica: vogliono un Insegnamento democratico. Essi sanno come si possa insegnare democraticamente l’anatomia, il calcolo integrale, il Corpus Juris di Giustiniano. Le richieste variano dall’una all’altra sede, ma comune a tutte è la rivendicazione del «potere studentesco» o «contropotere», che dovrà opporsi all’impotente potere dei senati accademici e dei rettori non più magnifici.
Supponendo che «potere studentesco», formula derivata da black power dei negri d’America, indichi che spetterà agli studenti stabilire come dovrà svolgersi la vita degli atenei, quali saranno le materie d’insegnamento e come dovranno essere insegnate, e che le lauree verranno assegnate da commissioni di studenti nelle quali sarà ammesso come «membro esterno» un professore, bisognerà per prima cosa che si mettano d’accordo fra loro, dato che gli attivisti sono una minoranza che non rappresenta neppure gli organismi studenteschi elettivi, minoranza con la quale la maggioranza non è affatto solidale, come dimostrano frequenti scazzottature nel seno della famiglia goliardica.
Dopo la democratizzazione e il contropotere una terza richiesta essenziale è l’abolizione degli esami, e il problema sarebbe semplificato se, una volta impadronitìsi del legislativo e dell’esecutivo universitari, gli innovatori istituissero che l’iscrizione da diritto, dopo quattro, cinque o sei anni, alla laurea, e che la laurea da diritto all’assegnazione di un posto dove ci sia da lavarare poco e da guadagnare molto. Sarebbe il coronamento della «presa di coscienza dei diritto».
È un peccato che gli intelligenti, che si trovano certamente fra i protestatari, abbiano lasciato passare siffatte amenità, svalutando ciò che di giusto e legittimo i documenti della protesta contengono. L’agitazione, a parte le aberrazioni in cui è precipitata, non è immotivata, perché deficienze e disfunzioni degli studi superiori sono reali e si rendono necessari rimedi, i quali però non sono da attendere tanto dall’esterno attraverso misure legislative quanto all’interno con una più alta nozione del dovere e in più severo impegno di coscienza da parte di tutti gli interessati all’Università, compresi gli studenti.
La giovinezza non è franchigia del manicomio.
Come sempre, la definizione giusta la diede Dante: «quasi entòmata in difetto - si come verme in cui formazion falla». Ma dinanzi ad autorità invertebrate, accademiche e politiche, gli esagitati tengono il coltello per il manico, facendo riscontro alla loro protervia il basso livello a cui è disceso il corpo insegnante da quando nepotisimo e politicizzazione lo hanno inquinato e diviso in fazioni nemiche. Alla guerra calda dei giovani si accompagna la guerra fredda dei loro pedagoghi. Sorgono, involontari, i raffronti.
Al tempo del nostro verde aprile avevamo Einaudi in Scienze delle Finanze, Loria in Economia Politica, Ruffini in Diritto Ecclesiastico, Pacchioni in Diritto Romano, Solari in Filosofìa del Diritto, Solmi in Storia del Diritto Italiano, e via elencando una schiera di Maestri di altissimo livello scientifico e morale. Possedevano l’esemplare dignità delle anime antiche. Nessuno di essi era, ancora, senatore o deputato o ministro o altro. Erano docenti e basta. Avevano fatto dell’insegnamento la ragione e l’opera della propria vita. Dalle loro lezioni cattedratiche apprendemmo il gusto del vero sapere, che provato una volta non si dimentica più. Noi eravamo discenti e basta. Come variante allo studio avevamo le battaglie dell’Isonzo. Le nostre «occupazioni» erano il San Michele, Gorizia, il Sabotino, il Monte Santo, l’Hermada, la Bainsizza. Il solo problema del giovani era, come disse Croce, di non impiegare troppo tempo a divenire adulti, e quelle battaglie acceleravano nei sopravvissuti la maturazione.
Oggi, nonché sollecitare la maturazione dei giovani, gli stessi adulti bamboleggiano per terrore dell’accusa di arretratezza sui tempi nuovi, e si baloccano nei vaniloqui delle assemblee miste e delle commissioni paritetiche. «Sempre la confusione delle persone - principio fu del mal della cittade». Docenti di grande esperienza e valore, stanchi dell’insolenza di giovini irresponsabili e posti nell’impossibilità di lavorare utilmente, si dimettono.
Gli attivisti del movimento non sarebbero certo da meno del giovani delle generazioni passate se non avessero subito una pedagogia falsamente democratica che li ha corrotti, ad eccezione di quelli che hanno trovato nella famiglia un antidoto immunizzante. Tutte le influenze della società che ci circonda concorrono ad intossicarsi nella mente e nell’anima, e «tanto più maligno e più silvestro - fassi il terren col mal seme e non colto - quant’esso ha più del buon vigor terrestro».
Ricordarsi di Dante, come ricordarsi del latino, è indizio di spirito reazionario, ma la reazione non ha bisogno di trovarsi nella volontà degli uomini quando è nella necessità delle cose.
Res nolunt diu male administrari.
Questi ragazzi si professano rivoluzionari, con la loro «carica contestativa contro la società attuale» si credono capaci di abbattere e ricostruire, di rifare da capo a mondo, riprendere da zero la teoria, e cominciano con rinfilare la strada più facile, si aggregano alla schiera più numerosa, si aggruppano sotto il vasto ombrello rosso, gridano parole che erano già logore e vuote di senso molto prima che essi nascessero.
Non hanno capito che da un pezzo in qua il solo modo d’esser autenticamente rivoluzionari è di opporsi a ogni sorta di rivoluzionarismo, non già perché la situazione presente sia l’optimum della convivenza umana (quattromila anni fa l’Egitto faraonico e la Cina delle dinastie Hia erano società meglio ordinate e più civili della nostra), ma perché l’alternativa che propongono implica con la morte della libertà un irreparabile impoverimento dell’uomo. Quelli di essi che si affidano nel modello moscovita vadano a veder come è ordinata nell’URSS l’Università e attraverso quali setacci occorra passare per accedervi. Multi sunt vocati sed pauci electi. La situazione è stata esposta dal celebre cardiologo Wladimir Bourakovski nello scorso febbraio in un incontro con clinici italiani a Genova. Vale la pena di riferire un passo del suo discorso: «Ho un figlio che finite le scuole secondarie ha espresso ti desiderio di divenire medico. I posti disponibili negli Istituti si contano sulle dita. Mio figlio concorrerà con altri sette studenti per un unico posto. La selezione è terribile. Soltanto quello che risulterà più preparato diventerà dopo sei anni medico. Lo stesso avviene nelle altre facoltà». Altro che Università di massa; altro che universale «diritto allo studio». Lo studio è un «diritto» soltanto per chi ha ingegno e volontà di studiare. Lo stato economico della famiglia non deve condizionare la camera scolastica d’un giovane (e d’altronde varie istituzioni hanno sempre aiutato gli intellettualmente dotati in condizioni modeste), ma ci corre parecchio fra il necessario accoglimento di questo principio e il facilismo italico e la democratica galleria del «tutto a tutti», un tutto in cui entra ovviamente a «titolo di studio».
Poiché per effetto di quel facilismo gli istituti secondari adempiono sempre meno, anche per suggerimento ministeriale, la funzione selettiva, la nostra Università, oggi è superaffollata, quando sarà raggiunta dall’ondata di piena della nuova Scuola media d’obbligo diverrà inabitabile. Fra alcuni anni gli italiani e le italiane fregiati del titolo di «dottore» si conteranno a milioni e il certificato di laurea avrà lo stesso valore d’un biglietto del tram usato.
La democrazia come viene intesa da noi è una sbornia da cui l’Italia si sveglierà con la testa confusa e dolente, la bocca amara e le tasche vuote."