La proposta del nuovo reato di femminicidio

La proposta del nuovo reato di femminicidio
Il nuovo reato di femminicidio, nato per tacitare la vendetta, non risponde alle esigenze di rispetto e dignità della donna ed appare incostituzionale
Ancora una volta la Politica si dimostra a rimorchio del mal di pancia sociale e della necessità di inseguire il consenso elettorale. A novembre la Ministro Casellati annunciava «Ho costituito un tavolo tecnico presso il mio ministero, insieme al ministro Roccella, per redigere un testo unico sulla violenza di genere. Questo documento avrà un approccio innovativo, poiché si concentrerà sull’intero universo femminile, affrontando tutti i diritti delle donne. Si tratterà di un testo organico che partirà dall’educazione e dalla formazione nelle scuole per promuovere la cultura del rispetto, fino a trattare le norme relative all’inserimento delle donne nel mondo del lavoro». L’annuncio è arrivato dalla ministra alle Riforme Istituzionali Maria Elisabetta Alberti Casellati. La ministra ne ha parlato a Milano nel corso dell’evento “Donne nel mirino. Riconoscere i reati spia per prevenire la violenza. IA come strumento contro la violenza di genere”.
La Ministra Roccella commentava: «Il Testo Unico sulla violenza contro le donne è un lavoro avviato dalla Commissione Bicamerale sulla Violenza su ispirazione della presidente Semenzato. L’obiettivo è di presentarlo per l’8 marzo. Sarà una combinazione di ciò che è già stato fatto contro la violenza, allargando il campo anche alla lotta alla violenza economica», ha detto la Ministra per la famiglia, la natalità e le pari opportunità Eugenia Roccella alla XXIV Edizione della rassegna Italia Direzione Nord, promosso dalla Fondazione Stelline, in corso presso la Triennale Milano….” Del testo unico neppure l’ombra, intanto il Governo alla vigilia dell’08 marzo 2025 approva un Disegno di Legge recante "Introduzione del delitto di femminicidio e altri interventi normativi per il contrasto alla violenza nei confronti delle donne e per la tutela delle vittime", proposto dai ministeri della Giustizia, dell'Interno, per la Famiglia Natalità e Pari Opportunità, per le Riforme istituzionali e Semplificazione normativa.
Il provvedimento prevede l'introduzione nel sistema giuridico italiano del reato di femminicidio, qualificando come tale il delitto commesso da chiunque provochi la morte di una donna per motivi di discriminazione, odio di genere o per ostacolare l’esercizio dei suoi diritti e l’espressione della sua personalità.
La politica elude il problema della reale efficacia preventiva e orientativa della punizione e ingolfa sempre di più la macchina giudiziaria. Motivi questi già sufficienti per bocciare il nuovo reato.
Invero pare di dover registrare come la politica utilizzi sempre più frequentemente l’uso del diritto penale come strumento di consenso politico o come mezzo pedagogico. I motivi per cui opporsi sono molteplici:
- Cominciando dal rilievo che la politica elude il problema della reale efficacia preventiva e orientativa della punizione innanzitutto per la seguente ragione: creando nuovi reati o introducendo circostanze aggravanti i politici di turno mostrano di rispondere in modo sollecito alle aspettative di protezione e alle paure dei cittadini. La pena come strumento di pronto intervento e ansiolitico sociale, per di più a costo zero. Al contrario attuare strategie di prevenzione (di natura sociale, economica, educativa, ecc.) volte a incidere con maggiore efficacia sulle cause profonde dei mali da contrastare, presuppone capacità progettuali, competenze e risorse, sia economiche sia umane.
- La delega alla giustizia penale, se è politicamente comoda perché deresponsabilizza il ceto politico, presenta per altro verso un serio inconveniente pratico: il continuo aumento dei reati ingolfa sempre più la macchina giudiziaria, contribuendo ad aggravare la lentezza dei processi. Una ulteriore ragione dell’uso smodato del penale è individuabile nella tendenza a sfruttarne il potenziale simbolico-comunicativo, come medium per rimarcare agli occhi dei cittadini l’importanza dei valori da tutelare e per promuoverne l’interiorizzazione nella coscienza sociale. Ma un simile impiego simbolico-promozionale merita veramente di essere assecondato ?
- Il diritto penale, più che a promuovere il progresso culturale e morale, dovrebbe più laicamente servire a prevenire danni sociali, diagnosticabili come tali a prescindere da preferenze morali, eventualmente anche maggioritarie. In uno stato liberal-democratico è più coerente astenersi dall’assegnare alla repressione anche il compito di cercare di correggere o orientare inclinazioni etiche, disposizioni psicologiche, tipi di mentalità o atteggiamenti interiori. Non a caso, questa pretesa - peraltro illusoria - è storicamente tipica degli stati autoritari, che confondono legalità e moralità.
L’introduzione, mediante apposito disegno di legge, di un reato autonomo di femminicidio da parte del Governo Meloni con previsione della pena dell’ergastolo (non prevista se la vittima è un uomo, essendo contemplata la pena della reclusione non inferiore ad anni ventuno), solleva evidenti profili di incostituzionalità sia sul piano dei principi fondamentali sanciti dalla Costituzione vigente, sia rispetto al sistema penalistico italiano. Si può davvero pensare che la minaccia di una pena a vita possa davvero fungere da deterrente del femminicidio e assolvere una funzione pedagogica nei confronti di quanti non hanno ancora interiorizzato come valore la parità di genere e il rispetto della donna come persona titolare di eguali diritti?
In una democrazia costituzionale degna di questo nome, convertire i maschilisti dovrebbe costituire un obiettivo da perseguire solo con la cultura, l’educazione, la promozione di condizioni ambientali più evolute nei contesti in cui perdurano visioni patriarcali. Per punire condotte aggressive ai danni delle donne, sono più che sufficienti le norme incriminatrici esistenti. Oltretutto, se fosse davvero necessaria una nuova incriminazione diversa dal generale delitto di omicidio, si dovrebbe per coerenza configurare una ulteriore e autonoma fattispecie per sanzionare l’omicidio motivato da omofobia .
Il testo recita: “Chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità, è punito con l’ergastolo”.
Attualmente il codice penale prevede una pena non inferiore a 21 anni per l’omicidio, che però raggiunge l’ergastolo se commesso nei confronti del coniuge, del convivente o della persona con cui si ha una relazione affettiva. La novità del ddl proposto dal governo, dunque, è soprattutto l’istituzione di un reato autonomo di femminicidio.
Siamo tutti dalla parte delle vittime, soprattutto quando parliamo di fenomeni così gravi e drammatici, sui quali tutti condividono l’esigenza di giustizia e di risposta concreta che l’ordinamento deve assicurare. Ciò premesso, però, il problema riguarda l’efficacia e la razionalità della risposta apprestata per contrastare queste fenomenologie criminose. La formulazione del nuovo reato sembra allontanarsi dai postulati del diritto penale del fatto, della materialità, e avvicinarsi a quelli del diritto penale soggettivo
La commissione di un femminicidio come atto di discriminazione è insuscettibile di una verifica empirica. L’unica via per l’interprete sarebbe quella di ricorrere a un’opera di introspezione nell’autore del reato. Lo stesso discorso vale per l’uccisione ‘come atto di odio’. Ma in ogni omicidio volontario, non solo nel femminicidio, è sempre presente un elemento di odio verso la persona offesa. La nuova fattispecie di reato raggiunge quasi il paradosso quando fa riferimento alla ‘repressione dell’esercizio dei diritti, delle liberte o dell’espressione della personalità della persona offesa’: più che un omicidio quale può essere la condotta che reprime l’espressione della personalità? Insomma, la fattispecie di reato risulta composta di elementi che non specificano la materialità e l’offensività della condotta, ma si affida a ricognizioni interiori, e come tali molto arbitrarie.
Se si entra poi nel merito della progettata fattispecie, c’è da rabbrividire. Un insulto ai princìpi di un diritto penale costituzionalmente orientato. Già a prima vista risalta la notevole indeterminatezza, esposta a obiezioni di incostituzionalità, della formulazione testuale della condotta punibile. Colpisce, non secondariamente, la declinazione in chiave psicologistica e di censura morale del disvalore del femminicidio, che si presume in ogni caso più grave di quello relativo all’omicidio comune. Come dovrebbe il giudice accertare, al di là di ogni ragionevole dubbio, la motivazione discriminatoria o il sentimento di odio (della donna in quanto donna) sottostante all’atto omicidiario? Esistono criteri di giudizio sicuri in proposito? Neanche il più esperto degli psicologi potrebbe distinguere con certezza le motivazioni suddette da motivazioni di altro tipo. È dunque da prevedere che l’accertamento giudiziario di così scivolose pulsioni motivazionali finirebbe, inevitabilmente, col risentire dei pregiudizi e delle impressioni soggettive di chi di volta in volta giudica.
Appare evidente l’incostituzionalità del D.d.l. poiché si incarica di stabilire che il marito che uccide la moglie è più colpevole della moglie che uccide il marito (succede meno ma succede), e incrina un principio sacro come quello di uguaglianza; ma anche la Costituzione viene piegata ai venti e ai tempi, e lo fu quando incrinò il principio di uguaglianza nell’accogliere il delitto d’onore, come si è accennato qua sopra. E oggi lo si fa per l’incapacità, conclamata nella politica italiana ed esibita in quella del governo Meloni, di affrontare qualsiasi problema se non con un po’ di galera in più e un po’ più facilmente perché a questo si riduce la svolta “epocale”; incredibile come si trascuri da decenni, da secoli, da sempre, che aumentare le pene non è mai un deterrente, e tantomeno lo sarà per i femminicidi, i quali agiscono in uno stato di tale feroce delirio che a trattenerli non sarà una supplementare riflessione sulle modifiche del codice penale.
La Costituzione sancisce, all’articolo 3, il principio di eguaglianza, che impone allo Stato di garantire pari dignità e trattamento a tutti i cittadini senza distinzione di sesso. L’istituzione di un reato che punisce in maniera differenziata un omicidio in base al genere della vittima viola questa norma, introducendo una disparità di trattamento ingiustificata rispetto al principio di eguaglianza formale. Peraltro, il diritto penale italiano si fonda sulla neutralità delle fattispecie di reato rispetto al genere, al fine di evitare che la legge penale diventi discriminatoria.
L’omicidio è già previsto e punito dall’articolo 575 del codice penale, con l’aggravante specifica dell’omicidio connesso a motivi abbietti o futili, come la discriminazione o l’odio di genere. L’introduzione di un reato autonomo di femminicidio, quindi, non solo è superflua dal punto di vista della necessità repressiva, ma rischia di introdurre un’anomalia giuridica che rompe la coerenza del sistema penale, creando categorie di vittime con un diverso livello di tutela senza una giustificazione costituzionalmente valida.
L’articolo 25 della Costituzione stabilisce, inoltre, il principio di tassatività e determinatezza della norma penale, secondo il quale il reato deve essere definito in modo chiaro e preciso. La formulazione del reato di femminicidio potrebbe risultare eccessivamente indeterminata e lasciare un ampio margine di discrezionalità interpretativa ai giudici, andando così a ledere il principio di legalità. Inoltre, si creerebbe un contrasto con il principio di personalità della responsabilità penale (articolo 27 Costituzione), poiché si punirebbe più gravemente un soggetto non in base alla sua condotta oggettiva, ma in base a caratteristiche personali della vittima.
Dal punto di vista del diritto costituzionale, l’approccio corretto per contrastare la violenza di genere dovrebbe concentrarsi su misure di prevenzione e protezione delle vittime, piuttosto che su un intervento penale disorganico e potenzialmente discriminatorio nei confronti di altre categorie di vittime di omicidio. L’esigenza di una maggiore tutela per le donne vittime di violenza non giustifica la creazione di un reato autonomo che entra in conflitto con i principi costituzionali fondamentali.
In questo senso, la Corte costituzionale potrebbe essere chiamata a pronunciarsi sulla legittimità di questa disposizione normativa, con il rischio concreto di una sua dichiarazione di incostituzionalità. Ancora una volta il Governo Meloni si presenta inadeguato e succube delle mode del momento.
A chi attribuisce alla legge “un valore simbolico”, viene da chiedere se sia accettabile, in una democrazia liberale, che una legge sia elevata a simbolo, dunque se sia accettabile che un uomo venga giudicato, eventualmente condannato e di conseguenza punito non soltanto per quello che ha commesso ma per quello che simboleggia.
A chi ritiene inoltre che la legge “mette a posto questa indecente e oscura voglia di vendetta che tormenta molti cuori femminili”, viene da chiedere se non sia il desiderio di vendetta a ispirare la legge, e se non sia il modo perché la vendetta sia legittimata, aggiungendo errore a orrore, e forse orrore a orrore.
E’ però vero che si deve assolutamente porre mano alla materia, per prevenire la piaga sociale della violenza di genere, ma a tal riguardo lo Stato dovrebbe investire in una profonda riforma culturale e sociale. Serve un cambiamento strutturale che promuova il rispetto della donna, educando le nuove generazioni alla parità di genere e all’eliminazione degli stereotipi. Invece di introdurre nuove norme simboliche, sarebbe più efficace intervenire direttamente nelle scuole, e nella società.
Sarebbe importante intervenire alla radice, dove si formano gli orientamenti di massa e quindi intervenire la dove l’opinione pubblica assorbe anche e per gran parte inconsciamente orientamenti, modelli. Occorre intervenire sulle modalità di rappresentazione di modelli e di relazioni indotte attraverso gli strumenti di comunicazione di massa (social e televisione), analizzare e disintossicare, qui si anche in via legislativa, le trasmissioni e le rappresentazioni che la Tv produce. Chiedere, anzi pretendere maggiore rispetto della persona (uomo e donna) che vien rappresentata vilipesa, resa oggetto di mercificazione, sacrificata al consumismo e all’Auditel
Un impegno concreto in questo ambito, anziché un approccio puramente repressivo, garantirebbe un cambiamento culturale duraturo e una reale uguaglianza tra i cittadini, senza la necessità di misure legislative differenziate tra uomini e donne.