Bonus matrimoni: potrà davvero essere introdotto?

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Bonus matrimoni: potrà davvero essere introdotto?

 

Abstract

Recentemente tornato agli onori delle cronache, il bonus matrimoni proposto da alcuni deputati della Lega è stato pensato come una misura volta a spronare i giovani a sposarsi, sovvenzionando per mezzo di apposite detrazioni fiscali l’acquisto di tutto quanto necessario per la miglior riuscita della cerimonia religiosa, dagli addobbi floreali agli abiti da sposi. Ma chi potrà avervi accesso?

 

Discriminazioni sì, ma solo se ragionevoli

Questa dovrebbe essere la pietra miliare che traccia il sentiero di una legislazione equa, volta al benessere della società.

Tuttavia, non sempre è facile distinguere in concreto quando la previsione di un trattamento particolare possa essere discriminatoria. Per questo la giurisprudenza, sia costituzionale, sia sovranazionale, si è spesso districata con difficoltà tra questioni spinose, per dare la migliore attuazione possibile dei principi di uguaglianza e di non discriminazione.

Spesso il cammino è particolarmente insidioso perché intralciato da questioni politiche, espressione di sensibilità morali e etiche che non devono necessariamente essere messe a tacere.

I rappresentanti eletti in Parlamento dovrebbero, in espressione del mandato loro affidatogli, farsi portavoce delle istanze di coloro che li hanno votati.

Questo è quello che ha fatto la Lega con la proposta di legge n. 97/2022, a firma dei deputati Furgiele, Billi, Bisa, Gusmeroli e Pretto, volta alla concessione di agevolazioni fiscali per le spese connesse alla celebrazione del matrimonio religioso, che si sono fatti promotori di un’idea tradizionale di famiglia italiana, fondata sul matrimonio cristiano, tra uomo e donna, celebrato in chiesa.

Nonostante siano trascorsi ormai due anni dalla sua presentazione, la proposta è recentemente tornata agli onori delle cronache per questioni di propaganda politica.

Per meglio comprendere la questione, vediamo nel dettaglio come è strutturata la proposta di legge.

Le disposizioni propongono di concedere una detrazione fiscale del 20% (con un tetto massimo di 20.000,00 euro) per le spese connesse al matrimonio religioso, quali la passatoia e i libretti, l’addobbo floreale, gli abiti per gli sposi, il servizio di ristorazione, il servizio di acconciatura e il servizio fotografico. Questo purché i nubendi, di età non superiore a 35 anni e in possesso della cittadinanza italiana da almeno dieci anni, non abbiano un ISEE superiore a 23.000,00 euro insieme (e comunque ciascuno non superiore a 11.500,00 euro). In ultimo, le spese considerate devono essere sostenute nel territorio italiano.

Questo scritto si propone di mettere in luce due macroscopiche categorie di discriminazioni che una simile previsione porterebbe inevitabilmente con sé.

La prima, la più evidente, riguarda la necessaria religiosità del matrimonio. Se lo scopo del legislatore vuole essere quello di spronare i giovani (fino ai 35 anni) a creare nuove famiglie, non si vede per quale motivo queste non potrebbero ugualmente fondarsi su un matrimonio civile.

Tanto più che l’ordinamento italiano è laico.

L’ordinamento metterebbe così a disposizione un istituto, ossia il matrimonio civile, che esso stesso non considererebbe degno di attenzioni, tanto da non concedere sovvenzioni a chi decida di accedervi, privilegiando, invece, altre forme di unione.

Tra l’altro, il termine “religioso” utilizzato dal legislatore non implica necessariamente un matrimonio celebrato con rito cattolico, a differenza di quanto enunciato dalla relazione di accompagnamento, nella quale si fa espresso riferimento agli “ornamenti della chiesa”. Una discrasia interessante, foriera di dubbi interpretativi di non poco conto, stante l’evidente contrasto che sorgerebbe tra l’interpretazione del dato letterale e quella della voluntas legis, qualora il testo venisse approvato così com’è.

Così ragionando potrebbero non essere discriminate neppure le coppie omosessuali laddove vi sia una religione che ammetta anche tale tipo di unione.

Qualora con matrimonio religioso, però, si scegliesse di ricomprendere solo quello cattolico, le coppie omosessuali resterebbero irrimediabilmente discriminate, non potendovi accedere. Una simile previsione appare a tutti gli effetti in contrasto con il divieto di discriminazioni in base all’orientamento sessuale, come se con un semplice colpo potessero essere dimenticati i traguardi di civiltà sociale raggiunti con la Legge Cirinnà del 2016.

Nessun bonus per gli atei, che conformemente alla propria morale scelgano di sposarsi con il rito civile. Ecco una discriminazione in base alla religione, che dovrebbe essere tacciata di incostituzionalità non essendo sorretta da alcun criterio di ragionevolezza.

In aggiunta, si potrebbero ipotizzare comportamenti “abusivi” di soggetti non credenti indotti a celebrare il matrimonio in chiesa solo per avere accesso al bonus statale. Una simile celebrazione, per quanto idonea a far apparire la coppia rispettosa della classica tradizione italiana, sarebbe del tutto invalida nella prospettiva religiosa: infatti, è nullo il matrimonio cattolico contratto dal soggetto non credente.

La seconda palese discriminazione derivante dall’impostazione legislativa riguarderebbe i matrimoni celebrati in Italia tra un cittadino italiano e un cittadino straniero.

Si immagini una coppia formatasi tra un ragazzo italiano e una ragazza filippina, non cittadina italiana. Per il solo fatto che la sposa non possiede la cittadinanza italiana, i nubendi non avrebbero diritto ad alcun bonus, come se il loro matrimonio non fosse degno di essere adeguatamente festeggiato, o come se lo Stato considerasse la loro unione come di minor valore rispetto a quella tra due italiani.

Ancora più irragionevole appare la discriminazione nel caso di una coppia composta, ad esempio, da un ragazzo italiano e una ragazza francese. Nessuna considerazione sarebbe, infatti, data al fatto che una delle “parti” del matrimonio sia cittadina europea, con buona pace degli ideali di creare un’Europa unica, espressione di unità tra i popoli.

Una logica economica potrebbe essere intravista alle spalle della previsione di sovvenzionare solo le spese per i matrimoni celebrati in Italia, potendo le detrazioni fiscali agevolare la circolazione di denaro, aiutando le imprese locali. Tuttavia, se questa fosse la logica, una qualche agevolazione ben potrebbe spettare anche qualora uno dei membri della coppia non sia cittadino italiano. Invece, la ragione che muove i proponenti è proprio quella di “aiutare” solo ed esclusivamente le coppie italiane, per costruire una società quanto più aderente ai valori tradizionali, ormai quasi anacronistici.

Si permetta ora un mero calcolo matematico: per poter accedere al bonus è necessario che la coppia abbia un ISEE non superiore a 23.000 euro annui a coppia. Pur riconoscendo che l’ISEE non corrisponde con precisione al reddito, si può stimare in maniera dichiaratamente imprecisa che potrebbero accedere al bonus coppie che, congiuntamente considerate, non ricevano uno stipendio superiore a 1.200,00 euro al mese, in due.

Chi scrive si chiede - concretamente - quante coppie decidano di sposarsi avendo tra le mani redditi tanto bassi, per poi spendere 100.000,00 euro per il matrimonio, accedendo così ai 20.000,00 euro di bonus. Nella situazione economica attuale, con l’inflazione alle stelle, i tassi dei mutui in continua crescita e l’aumento del costo della vita, due persone che guadagnino poco più di 500 euro al mese ciascuna e decidano di sposarsi farebbero una scelta indubitabilmente coraggiosa.

Forse chi, di fatto, potrebbe accedere al bonus è chi produce redditi “in nero”, che risulta avere un ISEE molto basso, ma al contempo potrebbe permettersi di spendere anche 100.000,00 euro per i festeggiamenti del matrimonio. Proprio coloro che non rispettano le norme fiscali sarebbero, quindi, i perfetti destinatari dell’agevolazione.

Insomma, ciò che risulta dalla proposta di legge altro non è che una pura e semplice dichiarazione di bandiera, volta a riaffermare un ideale di famiglia legato a un modello storico che ormai da lunghi anni sembra superato. La proposta risulta a tal punto selettiva da essere evidentemente e pacificamente discriminatoria, e irragionevolmente tale.

A ben vedere, non è chiaro come sovvenzionare coppie con un reddito medio-basso con incentivi fiscali per coprire le spese dell’abito nuziale o del fotografo possa convincere giovani a sposarsi.

Né come possa un matrimonio religioso creare maggior stabilità della base sociale o aumentare la natalità.

Più che di dichiarazioni vuote o di sovvenzioni fiscali per decorare la chiesa, le giovani coppie avrebbero bisogno di stabilità e certezze per il futuro, di contratti a tempo indeterminato e di politiche sociali che garantiscano loro aiuti se e quando decideranno di avere figli. Sanità migliori, scuole e servizi educativi degni di essere chiamati tali, un sistema pensionistico affidabile e magari una retribuzione adeguata al lavoro svolto: questi potrebbero convincerli a sposarsi.

Magari anche l’amore.

Ma sicuramente non una detrazione fiscale.