Spunti di riflessione critica sulla teoria della pena naturale

Breve commento alla sentenza della Corte Cost. 48/2024
Pena naturale
Pena naturale

Spunti di riflessione critica sulla teoria della pena naturale

Breve commento alla sentenza della Corte Cost. 48/2024

 

Abstract

La Corte Costituzionale, con sentenza 48/2024, ha dichiarato infondata una questione di costituzionalità in tema di pene naturali. Lo scritto, dopo aver analizzato il dictum della Consulta, si sofferma su alcuni profili problematici emergenti dalle teoria delle pene naturali

 

La questione sollevata dall’ordinanza di rimessione del Tribunale di Firenze

Con ordinanza del 20/02/2023, n. 37, il Tribunale di Firenze aveva sollevato una questione di costituzionalità dell’art. 529 c.p.p., in relazione agli artt. 3, 13 e 27 Cost., nella parte in cui «nei procedimenti relativi a reati colposi, non prevede la possibilità per il giudice di emettere sentenza di non doversi procedere allorché l’agente, in relazione alla morte di un prossimo congiunto cagionata dalla propria condotta, abbia già patito una sofferenza proporzionata alla gravità del reato commesso».

Il Tribunale di Firenze si trovava a dover decidere un caso dai confini tragici. Un uomo era chiamato a rispondere del reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione di norme antinfortunistiche (e di pertinenti reati contravvenzionali in materia di sicurezza sul lavoro) insieme al committente dell’opera, per aver cagionato, quale titolare della ditta di riparazioni edili, la morte del suo nipote ex fratre. Il giovane era un dipendente “in nero” dell’impresa dello zio e il suo decesso era stata determinato da una caduta dalla copertura di un capannone presso il quale stava lavorando senza i necessari dispositivi anti-caduta.

Tratteggiati i confini della vicenda e tenute in considerazione le peculiarità del caso concreto relative al particolare legame, non solo di sangue, tra la vittima e l’imputato, il Tribunale di Firenze sceglieva di sollevare la questione di costituzionalità ritenendo innecessaria l’applicazione di una sanzione da parte dell’ordinamento.

Prendendo le mosse dalla teorica della pena naturale, il Tribunale di Firenze rilevava come l’imputato avesse già patito una sofferenza ex se per aver causato, con il proprio comportamento negligente, la perdita del nipote e come l’applicazione della sanzione statale rischierebbe, in un caso simile, di risultare contraria ai principi di necessità, proporzionalità e umanità della pena.

Il giudice rimettente precisava che l’inflizione di una sanzione statale rischierebbe di cagionare una sofferenza ulteriore rispetto a quella già causata dall’evento infausto, tale da apparire alla stregua di un «crudele accanimento dello Stato». Così ragionando, la pena inflitta dall’ordinamento contrasterebbe sia con la funzione rieducativa, sia con le altre funzioni della pena e si sostanzierebbe in un trattamento contrario al senso di umanità.

 

Il dictum della sentenza della Corte Costituzionale

La Corte Costituzionale, con la sentenza 48/2024, ha dichiarato la questione non fondata.

Preliminarmente, la Consulta rigetta le eccezioni sollevate dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri in merito all’inammissibilità della questione per mancata considerazione della possibilità di applicare una pena sostitutiva di una pena detentiva breve e per il rischio di intromissione nella sfera del legislatore. Quanto alla prima eccezione, la Corte Costituzionale rileva la questione non verte sul quantum della sanzione, ma sull’an della stessa. Quanto alla seconda questione, la Consulta ricorda di poter intervenire sulle lacune lasciate dal legislatore nelle scelte di politica criminale qualora tali lacune appaiano manifestamente irragionevoli.

Arrivando al merito della questione, la Corte rileva che questa presenta confini talmente ampi che non si può ritenere sussistente un corrispondente vincolo costituzionale. L’eccessiva latitudine si presenta sotto tre distinti aspetti: in primo luogo, appare eccessivamente ampio il riferimento a tutti i reati colposi. L’ordinamento distingue diverse ipotesi di colpa, molto differenti tra loro sia sotto il profilo criminologico, sia sotto il profilo della tutela dei beni. Considerare la colpa in maniera unitaria ai fini della questione affrontata finirebbe per svilire la funzione preventiva delle norme penali incriminatrici che prevedono la responsabilità a titolo di colpa.

In secondo luogo, la Corte Costituzionale rileva l’eccessiva ampiezza della nozione di prossimo congiunto ai fini del diritto penale. Non vi è alcun vincolo costituzionale in grado di dare copertura ad un’ipotesi di improcedibilità fondata su un così ampio novero di soggetti.

In ultimo, la Consulta ricorda che non vi sono vincoli costituzionali sufficienti a far affermare che nel caso considerato debba trovare applicazione un causa di non punibilità ovvero di non procedibilità ovvero ancora una circostanza attenuante.

In conclusione, la Corte Costituzionale dichiara, all’esito di una motivazione piuttosto sintetica, la non fondatezza della questione sollevata dal Tribunale di Firenze.

 

Alcune considerazioni

La citata sentenza della Corte Costituzionale costituisce l’occasione per mettere in luce alcuni aspetti critici della teorica della rilevanza per l’ordinamento delle pene naturali.

3.1. Sul rispetto del principio di separazione dei poteri

In primo luogo, pare cogliere nel segno una delle eccezioni proposte dall’Avvocatura dello Stato, che rileva come la questione debba essere decisa del legislatore e non dal potere giurisdizionale. È bene ricordare, infatti, che in ogni moderno Stato di diritto deve trovare applicazione il principio di separazione dei poteri. Il potere legislativo, il potere esecutivo e quello giudiziario devono essere scissi tra loro e ciò implica non solo che non debbano essere cumulati su un’unica persona, come avveniva negli Stati assoluti, ma anche che non vi siano indebite intromissioni di un potere all’interno di un altro.

Se la Corte Costituzionale, esponente del potere giudiziario, assume decisioni che sono riservate al legislatore determina uno sconfinamento di potere, violando il principio di separazione dei poteri. Solo il Parlamento, titolare del potere legislativo, è l’organo che rappresenta il popolo, pertanto, solo il legislatore può creare norme che siano espressione della volontà popolare.

Un tema come quello della rilevanza delle pene naturali per l’ordinamento appare, a parere di chi scrive, particolarmente delicato e colmo di risvolti etici e morali e, pertanto, dovrebbe essere affrontato dal potere legislativo, non potendo il potere giudiziario sostituirsi all’organo che esprime la volontà del popolo.

La Corte Costituzionale di fronte all’eccezione dell’Avvocatura dello Stato si limita a ricordare che esiste il confine della manifesta irragionevolezza e arbitrarietà delle scelte del legislatore, che costituisce uno spazio entro il quale la Consulta stessa può intervenire per ricondurre l’ordinamento al rispetto dei principi costituzionali.

L’attribuzione o meno di rilevanza alle pene naturali rappresenta una scelta assolutamente discrezionale riservata al legislatore, non potendosi concordare con il Giudice delle Leggi laddove risolve l’eccezione semplicemente affermando che la mancata previsione del riconoscimento delle pene naturali rappresenti «una lacuna capace di determinare la torsione della pena da sanzione rieducativa a “crudele accanimento dello Stato”».

Sui ruoli del reo e della vittima

Riconoscere autonoma rilevanza giuridica alla sofferenza che il reo subisce in conseguenza del reato che egli stesso ha colposamente cagionato significa porre l’attenzione sulla figura del reo, svalutando il ruolo della vittima o di altri soggetti danneggiati dal reato.

Per meglio comprendere quanto affermato si consideri il seguente esempio: un padre uccide colposamente la figlioletta facendo retromarcia con la propria automobile. Per la teorica della pena naturale, al padre non dovrebbe essere inflitta nessuna sanzione dall’ordinamento, essendo il patimento che da tale fatto gli deriva di per sé solo sufficiente. Tuttavia, così ragionando non si tiene in considerazione la sofferenza che subiscono eventuali soggetti danneggiati dal reato. Anche la madre patisce per la morte della bambina, ma quella sofferenza non è certamente considerata una pena. Si realizza così, una svalutazione del ruolo del soggetto che subisce un danno dal reato, che non vede alcuna reazione da parte dell’ordinamento, perdendo in esso fiducia.

Sulla funzione della pena

La logica sottesa alla teorica della pena naturale si incentra sulla funzione retributiva della pena. Colui che cagiona la morte, come nel caso concreto alla base della pronuncia, di uno dei suoi più stretti familiari soffre già di per sé, senza che vi sia necessità di un’ulteriore sanzione da parte dell’ordinamento.

Il giudice rimettente ritiene che il comminare una sanzione in simili casi costituisca un ingiusto accanimento dell’ordinamento nei confronti di un soggetto che soffre già a sufficienza per il reato. Tuttavia, il nostro ordinamento riconosce la natura polifunzionale della pena e la valorizzazione della funzione retributiva deve essere compiuta tenendo conto che la condotta dell’agente offende non solo il singolo, ma anzitutto la collettività.

Sulla commisurazione della pena

La teorica della pena naturale non considera, a parere di chi scrive, un dato fondamentale, ossia la presenza nell’ordinamento di strumenti  utili a commisurare la sanzione al fatto concreto.

Anche qualora si considerasse unicamente l’art. 133 c.p., sarebbe immediatamente possibile comprendere come al giudice del caso concreto sia concessa un’ampia discrezionalità nella quantificazione della sanzione. Tale norma, infatti, attribuisce al giudicante il compito di valutare la gravità del reato, tenendo in considerazione non solo la natura, la specie, i mezzi, l’oggetto il tempo, il luogo e ogni altra modalità dell’azione, ma anche la gravità della colpa. Attraverso questa disposizione, il legislatore ha attribuito un’ampia discrezionalità al giudice del caso concreto, il quale può (e deve) valorizzare le peculiarità della fattispecie concreta anche senza fare applicazione della teoria della pena naturale.

Sul sistema della responsabilità penale colposa

In numerosi reati dei quali si risponde per colpa, l’aver commesso il fatto senza volerlo può cagionare un’acuta sofferenza all’autore dello stesso. I reati colposi si caratterizzano proprio per la mancanza di volontà dell’autore di cagionare il fatto e ben può accadere che chi lo ha commesso provi un patimento psichico ripensando a ciò che ha causato. Si immagini il caso di un automobilista che, non rallentando nei pressi di un attraversamento stradale, non si avveda di un pedone e ne cagioni, investendolo, la morte. La sua sensibilità lo potrebbe portare a soffrire per ciò che ha causato, nonostante non avesse mai conosciuto la vittima.

Ammettendo rilevanza alla pena naturale, allora in ogni caso di responsabilità colposa dovrebbe attribuirsi rilevanza al patimento del reo, con il rischio di inficiare l’intero sistema della responsabilità per colpa, la quale, anzi, è posta proprio per tutelare beni di particolare rilevanza.

Non si può tacere, tra l’altro, che anche qualora si decidesse di concedere rilevanza alla sofferenza patita dal reo nel delitto colposo, si determinerebbe un’ingiusta disparità di trattamento rispetto a fattispecie nelle quali non si ha propriamente né il dolo, né la colpa.

Si pensi alle ipotesi dell’omicidio preterintenzionale e della morte in conseguenza di altro delitto. Non si può non considerare che anche in simili ipotesi la morte della persona offesa non deriva direttamente da una volontà omicida dell’agente, pertanto si potrebbe ipotizzare di applicare la teoria della pena naturale. Applicare la teorica della pena naturale alle sole ipotesi di responsabilità colposa, come affermato dal giudice rimettente, determinerebbe un’irragionevole disparità di trattamento.

Sulla qualificazione della vittima

La teoria della pena naturale muove dall’assunto che dall’aver commesso un delitto colposo nei confronti dei più stretti familiari, il reo patisce una pena di per sé solo, senza necessità che un’altra gli sia inflitta dall’ordinamento.

Tuttavia, non si può mancare di sottolineare un dato essenziale, ossia la difficoltà nell’individuazione dei familiari più stretti. Le scelte che l’ordinamento potrebbe effettuare essere due: per un maggior rispetto del principio di tassatività, dovrebbe essere individuato ex ante il grado di parentela entro il quale potrebbe operare la pena naturale, oppure potrebbe essere lasciata al giudice del caso concreto una certa discrezionalità nel valutare se il rapporto del reo con la vittima fosse sufficientemente stretto da determinare una pena naturale.

Entrambe le scelte presentano profili critici: nella realtà dei fatti non necessariamente due persone legate da uno stretto vincolo di parentela provano sentimenti l’una per l’altra e non si potrebbe automaticamente ritenere, in forza di una sorta di “presunzione”, che la commissione del reato colposo nei confronti di un familiare comporti necessariamente una sofferenza al reo.

All’opposto, la carenza di tassatività nell’individuazione delle persone per le quali si prova una sofferenza naturale in caso di commissione di un fatto di reato potrebbe non solo essere in contrasto con il principio di legalità, fondamento del diritto penale, ma anche portare con sé il rischio di abusi. Si immagini un soggetto che, per veder diminuita la propria sanzione, dichiari falsamente di essere stato in rapporti strettissimi con la vittima. Un ulteriore rischio deriverebbe dalla carenza di tassativizzazione, ossia quello di lasciare alla sensibilità del singolo giudice la valutazione circa la rilevanza del legame invocato dal reo, con una discrezionalità che esulerebbe dai principi fondamentali del diritto penale, con buona pace del principio di legalità.

Sulla quantificazione della sofferenza

In ultimo, resta un profilo eccessivamente vago, così da risultare in evidente contrasto con il principio di legalità, ossia la quantificazione della sofferenza.

Come potrebbe essere possibile per il giudice quantificare la sofferenza subita dal reo?

La sofferenza, per sua stessa natura, appartiene al foro interno, alla psiche del soggetto ed è difficilmente valutabile in una prospettiva giuridica.

Ben si può ammettere che dal patimento determinato dal reato scaturiscano effetti concreti valutabili come vere e proprie malattie (si pensi alla depressione), ma non è detto che dalla sofferenza derivino simili conseguenze, rendendo così piuttosto difficoltoso, anche con conoscenze di natura tecnica, quantificare la sofferenza patita dal reo.

Non si esclude, inoltre, che la diversa sensibilità di una persona rispetto ad un’altra potrebbe portare alcuni soggetti ad esternare maggiormente il proprio patema d’animo e altri a non esternarlo o addirittura a subirlo in maniera minore.

Far dipendere una sanzione legale dal carattere del reo più o meno propenso alla sofferenza significherebbe determinare un’ingiusta disparità di trattamento tra soggetti semplicemente per il loro carattere, più o meno forte o resiliente.

Nel diritto civile (riferendosi al danneggiato) in giurisprudenza si è frequentemente affermato che il danno morale non è quantificabile, pertanto non si vede come tale operazione possa essere effettuata nel diritto penale, che ancor più della materia della responsabilità civile deve essere ancorato a parametri oggettivi, in ossequio ai principi di determinatezza e precisione che devono caratterizzare la pena.

 

Conclusioni

Alla luce di tutto quanto sopra illustrato non pare che possa trovare cittadinanza nel nostro ordinamento la teoria della pena naturale in assenza di un intervento del legislatore, che dovrà essere rispettoso dei principi di legalità, determinatezza e precisione.

Del resto, nullum crimen, nulla poena, sine lege previa.