Ergastolo si ergastolo no

Ergastolo pro e contro il carcere a vita
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Ergastolo si ergastolo no

Ergastolo per i fratelli Bianchi per l'omicidio di Willy. Alla lettura della sentenza c'è chi esulta ed esprime soddisfazione e chi esprime dubbi e discetta sull'inutilità della pena del carcere a vita. 

Filodiritto propone due letture contrapposte sull'utilità o inutilità dell'ergastolo, per farsi un’idea su un istituto da tempo messo in discussione.
 

Ergastolo: la riflessione di Gian Carlo Caselli, presidente onorario di Libera sul Corriere della Sera: oerché l'ergastolo ostativo serve

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«Perinde ac cadaver»: così i Gesuiti esprimono sottomissione assoluta ai superiori. Questa formula ispira chi dà per scontato che la Corte Costituzionale ammetterà i mafiosi ergastolani che non collaborano con lo Stato al beneficio della liberazione condizionale (scelta che di fatto cancella l’ergastolo ostativo).

Il pronostico si basa sul fatto che la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) l’ergastolo ostativo lo ha già demolito con una sentenza del 2019. Ma siamo sicuri che la suprema istanza della giurisdizione italiana debba — sempre e comunque — prestare incondizionato e pedissequo ossequio alla Giustizia europea? Oppure, tale ossequio (pur ammissibile in linea di principio nel quadro di una «leale collaborazione con le Corti sovrazionali») deve essere calibrato sulla specificità dei casi concreti che la Consulta deve volta a volta esaminare? Quando si tratta di questioni legate alla mafia, questa prospettazione è semplicemente razionale e risponde ad un elementare principio di realtà.

Realtà della quale il nostro Paese è purtroppo depositario quasi esclusivo, mentre oltre i nostri confini non la si conosce o la si sottovaluta. Tantè che solo noi abbiamo il reato associativo (art. 416 bis). Solo noi: nonostante la Convenzione Onu di Palermo del 2000 faccia obbligo agli aderenti (quasi tutti gli Stati del mondo) di inserirlo nella legislazione nazionale. Che almeno da noi (a partire dalla Consulta) si tenga conto della reale specificità della mafia. Riconoscendo innanzitutto che le mafie dominano ancora parti consistenti del territorio e della vita politico economica del Paese.

Esse sono quindi la negazione assoluta dei valori di libertà e uguaglianza che della Costituzione sono la linfa. Rimuoverle è compito che l’articolo 3 cpv affida ad ogni organo della Repubblica, nessuno escluso. Oltre al 416 bis e alla legge sui pentiti, nel nostro ordinamento penitenziario abbiamo il 4 bis (ergastolo ostativo) e il 41 bisUn «pacchetto» ispirato da Falcone, definito dopo le stragi del 1992, che ha consentito imponenti risultati. Ma la mafia, pur avendo ricevuto duri colpi, è viva e vegeta e non cè motivo di smantellare quel che funziona, con un incomprensibile distacco dalla realtà. Ecco un elenco di realtà da non «ignorare». 

Primo: l’ossessione dei mafiosi per la condizione dei compagni detenuti è storica. Salvatore Riina la esprimeva dicendo che si sarebbe giocato anche i denti pur di ottenere qualcosa. Toccare l’ostatività dell’ergastolo equivale a disincentivare i pentimenti: Riina sarebbe due volte contento. 

Secondo: l’articolo 27 della Costituzione (la pena deve tendere alla rieducazione del condannato) ha un incontestabile valore di civiltà; ma in concreto può funzionare solo per i condannati che mostrano di volersi reinserire o almeno fanno sperare che prima o poi ci proveranno davvero. Non è assolutamente il caso dei mafiosi «irriducibili» che non si sono pentiti

Terzo: i mafiosi infatti giurano fedeltà perpetua all’organizzazione; lo status di «uomo d’onore» è per sempre; la collaborazione con lo Stato è l’unico modo per «disertare»; lo provano l’esperienza e gli studi sull’identità mafiosa. 

Quarto: nessun automatismo se la Consulta «apre», ma un bell’azzardo. A decidere caso per caso sulla persistenza della pericolosità del mafioso sarebbe pur sempre il giudice di sorveglianza; che però si troverebbe allo sbaraglio, in quanto—senza il decisivo requisito del pentimento — manca ogni fattore obiettivo cui ricollegare il distacco dal clan; le relazioni (carcere, Cosp, procure antimafia) che dovrebbero aiutare il giudice in pratica servono a poco, afflitte come sono, di solito, da formalismo burocratico. In sostanza, senza «ancoraggio» al pentimento, la decisione del giudice si riduce appunto ad un pericoloso azzardo. 

Quinto. Di più: agli occhi del mafioso — poco propenso ai «distinguo» — il giudice che nega un beneficio consentito dalla Consulta, automaticamente diventa un «nemico»: anche quest’automatismo dovrebbe preoccupare, in quanto foriero di possibili nefaste conseguenze di cui la storia di Cosa nostra è maestra. 

Infine, nella denegata ipotesi (un po’ di giuridichese...) che la Consulta assuma un orientamento diverso da quello qui auspicato, resterebbe il fatto che le sue pronunce sono molto spesso «più che il punto conclusivo di una certa vicenda, il punto intermedio di uno sviluppo normativo che trova compimento solo quando il Legislatore lo conclude» (Marta Cartabia).

Ma intanto la credibilità che le vittime di mafia hanno restituito allo Stato con il loro sacrificio rischia di svanire.

Non possiamo assolutamente consentirci altri Antonio Gallea: condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio Livatino, di recente egli ha approfittato dei benefici penitenziari ottenuti per rientrare in posizioni di rilievo nella sua organizzazione criminale (Stidda), facendo valere proprio i suoi 25 anni di carcere senza aver mai collaborato davvero.

Gian Carlo Caselli, articolo tratto da “Corriere della Sera”, 6 aprile 2021
 

Un’opinione a favore dell’ergastolo, dunque, quella di Giancarlo Caselli.

Vediamo, adesso, un’opinione opposta, contro l’ergastolo, attraverso un articolo a firma Maria Luisa Boccia comparso su “Il Manifesto” dell’8 dicembre 2017
 

Ergastolo, perché va abolita la pena che "non esiste"

"Abbiamo un sogno: l’abolizione dell’ergastolo in Italia. Con l’ergastolo, la vita diventa una malattia, e gli ergastolani non vengono uccisi, peggio, sono lasciati morire. Molte persone pensano che la pena dell’ergastolo non esista, quindi è inutile toglierla. Ma se non esiste, perché c’è? Molti non sanno che con questa terribile condanna si raggiunge il confine dell’inesistenza perché la vita non vale più nulla e viene resa peggiore della morte".

Con queste parole si apre l’appello “Una campagna digiuna per la vita”, di cui il Manifesto ha dato notizia martedì 5 dicembre nella rubrica delle lettere.

A me hanno ricordato la campagna «Mai dire mai», promossa da ergastolani nell’autunno 2007.

Consisteva in una lettera al Presidente della Repubblica, di poche righe. «Io – seguiva il nome- chiedo che la mia condanna sia tramutata in pena di morte, perché sono stanco di morire un poco ogni giorno».

Il presidente Napolitano rispose, rinviando al Parlamento di intervenire nel merito. Senza alcun seguito, non certo per la rapida fine della legislatura.

Oggi come allora sono gli ergastolani a porre con forza ed intelligenza la questione dell’abolizione dell’ergastolo. Ed oggi, come allora, dobbiamo innanzitutto sconfiggere un fantasma: quello che l’ergastolo non esiste.

Che il «fine pena mai» è soltanto una condanna simbolica, ma di fatto, non la patisce nessuno. È il principale argomento contro l’abolizione dell’ergastolo.

Del tutto falso, serve ad alimentare l’allarme sociale: la richiesta di pene certe, sempre più alte e severe, necessarie per contrastare i crimini, per la sicurezza di tutti e tutte.

Insomma le leggi devono prescrivere più reati e più carcere, anche più ergastolo; i giudici devono emettere sentenze più severe; le condanne devono essere applicate senza sconti. Come scrisse Patrizio Gonnella anni fa, su queste pagine, si vorrebbe trasformare tutti i detenuti in ergastolani.

Oggi questo messaggio, di allarme è diventato martellante. Incapace di governare la crisi sociale, rimuovendone le cause, ricreando legami e convivenza e garantendo qualità della vita, la politica si aggrappa al nocciolo duro dello Stato minimo, quello del monopolio della forza. Riduce il patto tra governanti e governati allo scambio tra libertà e sicurezza. Si rinuncia alla prima, in porzione più o meno grande, in cambio della promessa di sicurezza.

Non importa se la paura e l’insicurezza invece di ridursi si dilatano. Quello che conta è orientarle verso la minaccia rappresentata dall’altro.

Da chi è «straniero», il e la migrante, o da chi è «estraneo», il diverso , l’ anormale. Da chi ha commesso un reato, e di conseguenza è portato al crimine.

Non si tratta, ovviamente, di negare responsabilità e gravità dei reati, per i quali è adottata la pena dell’ergastolo. Ma di chiedersi se è la giusta pena.

Se vi è reato, per quanto efferato, che possa motivare la reclusione a vita. Quel “mai” che annulla il corso del tempo, lo congela. E con esso, l’esistenza di uno – più raramente di una – di noi. È una domanda che a molti e molte appare astratta, per non dire priva di senso.

Il primo ostacolo, per farne una domanda sociale, è l’isolamento del carcere.

Per lo più, infatti, si ignora cosa avviene dentro il carcere, come si vive la pena. È sufficiente sapere che il colpevole è recluso, che quella porta non si aprirà.

Semmai interessa la macabra contabilità dei costi e benefici. Quanto ci costano le carceri piene, e quanto spendiamo per ogni ergastolano. Quanti sono gli ergastolani e quanti di loro scontano per intero la pena.

Né interessa ai più che l’ergastolo contrasta con il fine della pena, scritto nella Costituzione italiana, di riabilitazione e reinserimento sociale del condannato/a.

Più in radice, la pena non dovrebbe mai essere lesiva della dignità della persona. Dovrebbe essere proporzionata, per quantità e qualità. Diversamente dal reato, che può essere disumano nella sua efferatezza, la pena non può essere né crudele né disumana.

In quanto privazione illimitata di libertà l’ergastolo è una pena più crudele della pena di morte. È una condizione di vita disumana. Si può vivere per sempre reclusi, senza essere privati di umanità?

Come si vive senza nessuna possibilità di ritrovare i rapporti, gli affetti, la comunicazione e gli scambi con gli altri esseri umani, non reclusi, e con il mondo?

Le parole degli ergastolani, raccolte nell’appello per la Campagna digiuna per la vita, descrivono cos’è , nella quotidianità, la pena senza fine.

Quanto sia privo di senso vivere, se non si può neppure immaginare un domani.

Di questo dovremmo parlare, per porre, in concreto, il problema dell’abolizione dell’ergastolo.

Dovremmo guardare alle singole vite deprivate per sempre di dignità umana. Se anche fossero poche, pochissime, sarebbe comunque un costo troppo alto.

Se anche una sola vita patisce una pena disumana, questo è in contrasto ad ogni principio di giustizia e deve interessarci. Perché è colpito un bene indivisibile qual è la libertà personale.

Dovremmo parlare all’amore per la libertà che è in ogni essere umano. Trovare il modo di parlare dell’ergastolo non con il linguaggio del diritto ma con quello della vita. Perché di vite concrete, di persone incarnate si tratta.