Giustizia Riparativa: un viaggio nel dolere per il perdono

La cicatrice del reato testimone di un dolore che si ricompone
carcere
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Giustizia Riparativa: un viaggio nel dolere per il perdono

 

Il carcere non è solo privazione della libertà, è soprattutto spogliazione di una dimensione sociale,  il carcere toglie qualsiasi dimensione relazionale del condannato con la società per la quale progressivamente  questi non esiste più .

Il condannato in carcere deve necessariamente fare i conti con il suo errore, soprattutto se si tratta di soggetto in possesso di strumenti culturali ed umani. L’errore diventa nella solitudine del carcere interrogativo, domanda ossessiva del perché e del come possa essere accaduto. Non c’è distinzione tra reato e reato, l’interrogativo è li forte insistente come un tarlo… nella solitudine del carcere, il detenuto prima o poi deve fare i conti con il suo errore. Questo confronto a seconda dei soggetti e dei momenti tende alla autoassoluzione, alla flagellazione, alla commiserazione …

Occorre volgere questa indagine in termini positivi, e non può essere un lavoro autonomo, deve essere accompagnato, esplorato in diverse direzioni, analizzato simultaneamente da tutte le diverse angolature di cui un fatto/reato è composto. Occorre analizzare le precondizioni, le condizioni e le conseguenze del reato senza sconti e senza ritrosie, senza paura del dolore interiore che questo percorso provoca.

La giustizia riparativa cerca di esplorare il dolore provocato dal reato, un dolore che non sta da una sola parte, il dolore appartiene in modo diverso a tutti i soggetti coinvolti/travolti dal reato... questa esplorazione porta ad incontrare il dolore dell'altro, dell'altra parte: quindi il dolore della vittima ed il dolore del responsabile del reato...ma anche il dolore di altri soggetti vittime indirette del reato ...

L'accettazione del dolore altrui pone in una dimensione nuova, una dimensione che supera il fatto/reato ... arrivati lì non c'è spazio per la vendetta...non c'è spazio per volere il male altri... se vuoi c'è lo spazio per un passo oltre ...per l'accettazione che anche il reo soffre della sua azione, del rimorso di aver provocato dolore ... in questo terreno neutrale del dolore le parti si incontrano ... ancora una volta senza obbligo...se vuoi puoi perdonare...

In questo territorio inesplorato si può ricomporre la frattura tra responsabile del fatto/reato e società che  riaccoglie per un rinnovato patto di solidarietà...

La vendetta è arida, non produce ricomposizione ... il dolore, la comprensione del dolore reciproco induce alla comprensione...capire insieme come un fatto possa determinare sofferenza per evitare che la sofferenza si ripeta...

E' questo terreno  il luogo dove si ripara la frattura tra individui, tra individui e società... riparare questa frattura è fare giustizia rispetto al dolore che la frattura ha provocato...

In un reato non c'è solo la vittima (anzi spesso nei reati violenti la vittima non c'è più è morta, nei reati finanziari non c'è una vittima diretta perchè la vittima è un sistema, uno stato, un popolo ...) allora si comprende come la pena, quella inflitta dalla sentenza non può che essere lo strumento perché il responsabile del fatto/reato (qualsiasi esso sia) si metta in viaggio ...per capire...accettare ... guardare in faccia il dolore patito dagli altri che a loro volta sappiano guardare al dolore patito dal responsabile del fatto, un dolore che può essere anche più grande di quello patito dalla vittima...vittima diretta  o vittima  indiretta, non possono pensare che il loro dolore si plachi solo volendo il male del colpevole... non si può gioire per il male... occorre ricomporre la frattura ...

La professoressa Cartabia, quando era Presidente della Corte costituzionale ebbe a pronunciare una significativa lectio magistralis all'Università di Roma3; in questa prolusione tracciò le origini della Giustizia riparativa, commentando la trilogia dell’Oresta di Eschilo  con una lettura ermeneutica che percorre due direttive: da un lato le modalità di manifestazione della giustizia: dalla maledizione al logos;  dall’altra guardando alle implicazioni della singola vicenda giudiziaria sulla intera polis.

Concentrandosi sulle Eumenidi, il processo ad Oreste, si evidenzia come il processo si svolga in modo da manifestare la trasformazione della parola – il logos - .

La giustizia delle Erinni è intessuta di giuramenti e maledizioni. La loro parola è afasica, frammentata, inanemente reiterativa, è una formula che nella ripetizione quasi magica e rituale trova la forza del suo inveramento e della realizzazione della giustizia; è una parola che non è in grado di argomentare, ma porta al limite estremo il suo potere performativo (J. L. Austin). Le Erinni sono figlie della notte. Il loro nome, giù sotto terra, è maledizioni. Questa è l’unica parola che sono in grado di proferire.

Alle Erinni e al loro dire si contrappone Atena, che fonda tutta la sua azione sulla persuasione, Peithó, dea evocata esplicitamente alla fine del processo (vv. 970-975) quando la dea della sapienza – ma insieme delle arti e della guerra – celebra il trionfo di Zeus agoraios, epiteto che viene tradotto spesso in riferimento alla “parola”: «dio della parola», «patrono della parola», «ispiratore della parola». La “nuova” giustizia di Atena è tutta basata sul dire, sull’argomentare, sul dialogare.  E nel nostro oggi non è difficile ritracciare l’eredità di quell’iniziale istituzione umana, fondata con la pretesa di rimanere per sempre (v. 484) e di venire regolata da norme eterne nel tempo (v. 572), proprio in quei tratti del processo ove si coglie che il cuore del giudizio è la parola, l’argomentare razionale, la persuasione, la motivazione.

È solo dopo che «si è dibattuto abbastanza» – come dice ancora Atena – (v. 675), al termine di un lungo confronto dialettico tra le parti in causa, che la dea invita i giudici a deporre il loro voto.

Audiatur et altera pars: le regole processuali fondamentali del giusto processo basate sul contraddittorio, sono perfettamente ritracciabili in questo primo, mitologico, processo della civiltà occidentale. Qui, Eschilo mette plasticamente in scena l’atteggiamento dell’ascolto, la prima tra le virtù richieste a un giudice: ascoltare l’accusa, ascoltare la difesa, ascoltare  le parti, ascoltare i terzi interessati laddove è possibile, e infine, i componenti del collegio. Ascoltare, prima di tutto.

Il pensiero del costituzionalista non può non correre con la mente all’art. 111 della Costituzione italiana, introdotto, peraltro, nella sua formulazione attuale solo nel 1999:  «La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale».

Con la votazione, finita alla pari, Oreste è assolto, secondo le regole preannunciate in anticipo da Atena.

E’ interessante notare che nell’ultima parte delle Eumenidi viene suggerito che il destino dell’intera città è dello stesso segno del destino individuale del singolo reo. L’assoluzione di Oreste, che pure è reo confesso, non determina il disordine in città, come le Erinni sembrano minacciare, ma suscita una giustizia rinnovata, garanti le Eumenidi, buona per l’intera città.

Il percorso dentro se stessi, un viaggio alla ricerca di cause ed effetti delle proprie azioni, soprattutto quelle negative che hanno portato al fatto/reato

E allora l’indagine coinvolge gli affetti, il modo di essere, il modo di essere difronte  agli altri, questo voler essere migliori ma non riuscirci perché si deve stare al passo di quello che chiede la società e le persone che la vivono, e così si finisce con  lo scegliere scorciatoie, compromessi … cose assai rischiose che in taluni casi portano all’errore.

Dentro questo commino che  a dirsi sembra possibile, financo facile, ma che in realtà è doloroso e difficile perché carico di autoassoluzioni, tentativi di spostare le responsabilità di trovare giustificazioni… quando si riesce a togliere di mezzo tutto questo, quando si riesce a  mettere da parte l’ingombro delle giustificazioni, si comprende come ciascuno è responsabile di sé stesso e delle proprie azioni.

Questo percorso è rappresentato dalla Giustizia Riparativa

La Giustizia Riparativa non è un'altra (diversa ) giustizia, altra rispetto alla giustizia punitiva, nè sostitutiva o surrogato di una giustizia risarcitoria; è altro, casomai complementare alla Giustizia dei Giudici, qualcosa che sta su un piano differente, non antagonista ma capace di portarti oltre il reato…la sentenza …tendendo ad una ricucitura con l’altro e quindi con la società.

Nella giustizia riparativa, accompagnati da mediatori,  si cerca di esplorare il dolore provocato dal reato, un dolore che non sta da una sola parte, il dolore appartiene in modo trasversale e diverso a tutti i soggetti coinvolti/travolti dal reato... questa esplorazione porta ad incontrare il dolore dell'altro, dell'altra parte: quindi il dolore della vittima ed il dolore del responsabile del reato...ma anche il dolore di altri soggetti vittime indirette del reato ...

L'accettazione del dolore altrui pone in una dimensione nuova, una dimensione che supera il fatto/reato ... arrivati lì non c'è spazio per la vendetta...non c'è spazio per volere il male altrui... se volete c'è lo spazio per un passo oltre ...per l'accettazione che anche il reo soffre della sua azione, del rimorso di aver provocato dolore ... in questo terreno neutrale del dolore le parti si incontrano ... ancora una volta senza obbligo...semmai per perdonare...

In questo territorio inesplorato si può ricomporre la frattura tra responsabile del fatto/reato e società che  riaccoglie per un rinnovato patto di solidarietà...

La vendetta è arida, non produce ricomposizione ... il dolore, la comprensione del dolore reciproco induce alla comprensione...capire insieme come un fatto possa determinare sofferenza per evitare che la sofferenza si ripeta...

E' questo terreno,  il luogo dove si ripara la frattura tra individui, tra individui e società... riparare questa frattura è fare giustizia rispetto al dolore che la frattura ha provocato...

Per dare ricomposizione di questa frattura, il responsabile del reato deve poter tornare a misurarsi con la società, ed è qui che ci vuole una società disposta ad accogliere, una società disposta a farsi carico di un pezzo di viaggio, il pezzo più impegnativo…quello verso l’uscita.

Se la società non si rende compartecipe dell’azione ri-educativa, accogliendo ed offrendo la seconda opportunità… non ci sarà mai compimento del dettato costituzionale  sancito nell’art. 27 della Costituzione.

Con il decreto legislativo in attuazione della legge delega 27 settembre 2021 n. 134 è stata definitivamente approvata la "disciplina organica" della giustizia riparativa.

L’idea di una giustizia della riparazione, nella sua contrapposizione alla tradizionale giustizia punitiva, ha un che di indubitabilmente rivoluzionario, in quanto modello di giustizia fondato essenzialmente sull’ascolto e sul riconoscimento dell’altro. Il tempo era ormai maturo per sviluppare e mettere a sistema le esperienze di giustizia riparativa, già presenti nell’ordinamento in forma sperimentale e che stavano mostrando esiti fecondi. La giustizia della riparazione introduce nel sistema una dialettica "tripolare": non c’è più solo lo Stato che punisce e l’autore del reato che subisce la pena, c’è anche la vittima

che è sparita dal processo a causa della tradizione del garantismo, ispirato allo scopo di impedire la vendetta privata e che vede la vittima sostituita dallo Stato ma neutralizzata nel processo, spettatrice e spesso vittima due volte. Il paradigma riparativo permette  alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, se entrambi vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l’aiuto di un terzo imparziale.

La scelta italiana è stata quella di un percorso "parallelo" volto alla ricomposizione del conflitto: non una giustizia alternativa alla giustizia tradizionale (con superamento del paradigma punitivo), e nemmeno un modello sussidiario, bensì complementare, volto alla ricomposizione del conflitto poiché compito dello Stato è anche quello di promuovere la pacificazione sociale.

Anche il ruolo del Giudice muta: egli si mette non sopra il conflitto ma dentro di esso per risolverlo, non si limita ad assolvere o a  condannare e, senza perdere la sua neutralità, compie il difficile cammino verso una ricomposizione che riqualifica sia il senso di un processo giusto che il senso stesso della pena inflitta.

 

Veniamo dunque alla “grande” idea di giustizia riparativa che, grazie a questo intervento normativo, riprende fiato e consistenza riaffiorando da un antico passato sempre presente. Perché quello che dobbiamo dire prima di tutto è che la giustizia riparativa esiste già, è un fatto sociale, non la si può sopprimere (ed anzi disseminati qua e là vi sono già nei codici e nelle leggi degli istituti che in senso lato sono ascrivibili alla restorative justice) e dunque si tratta solo di regolamentarne gli (eventuali) effetti giuridici nel processo (anche e soprattutto a garanzia dell’imputato, del condannato e della vittima), darvi insomma una regolamentazione, in qualche modo “istituzionalizzare”. Compito dello Stato è anche quello di promuovere la pacificazione sociale richiedendo a tutti, come recita l’art. 2 Cost., l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà («politica, economica e sociale») e pacificare i conflitti rientra certamente tra i doveri inderogabili di solidarietà.

L’idea di una giustizia della riparazione, nella sua contrapposizione sostanziale alla tradizionale giustizia punitiva ha un che di indubitabilmente rivoluzionario, in quanto modello di giustizia fondato essenzialmente sull’ascolto e sul riconoscimento dell’altro. Sappiamo invece quanto la giustizia tradizionale sia spersonalizzata perché molto lontana - pensiamo proprio alla vittima, marginalizzata nel processo in quanto costretta nel ruolo unico di testimone o di parte civile richiedente un risarcimento in denaro (che ancora non significa riparazione) – da quel groviglio di sentimenti, emozioni, paure e angosce originate dal reato.

Se la giustizia riparativa è un modello compiutamente articolato per la trattazione e la soluzione di conflitti sociali, la giustizia punitiva invece quasi mai risolve il conflitto, anzi lo alimenta con quel perverso meccanismo che conosciamo del “raddoppio del male”. In questo il modello riparativo è rivoluzionario perché non “restituisce il colpo” come la giustizia tradizionale che è dura, punitiva (raffigurata, come sappiamo, con la spada) - una giustizia dalla quale bisogna in qualche modo difendersi - ma offre uno spazio di dialogo, rigorosamente volontario che non toglie il reo dallo sguardo delle vittime. Pensiamo alla pena di morte, l’espressione più estrema di giustizia punitiva: essa toglie del tutto il colpevole dallo sguardo delle vittime e impedisce l’incontro, il contrario della giustizia riparativa.

Ve detto che la giustizia riparativa va oltre sia il modello riparatorio in senso stretto (forme di condotte riparative successive al reato che portano già degli effetti sostanziali anche nel modello di giustizia tradizionale: D.Lgs. 231/01, oblazione nelle contravvenzioni, indulto tributario, art. 163 c.p., indulto urbanistico, sanatorie, etc.). Nel paradigma riparatorio si parla di condotte ‘prestazionali’ in cui hanno un ruolo fondamentale il Giudice, il Pm e il difensore.

Nella giustizia riparativa invece, che attiene ad una riparazione “interpersonale” (cioè senza giudice, senza PM, senza difensore) non è richiesta l’integrale riparazione (nel decreto vi è la definizione di “esito riparativo”), non è una prestazione definita e determinata, è solo l’esito di un percorso. E’ il passaggio da una pena classica ad una “pena interrelazionale” e così anche il paradigma rieducativo dell’art. 27 Cost. è rinnovato perché il giudice deve capire che solo la pena agìta rieduca veramente.