Affettività in carcere dopo la sentenza della Consulta n. 10/2024

I Giudici di Sorveglianza pungolano l’inerzia legislativa
affettività in carcere
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Affettività in carcere dopo la sentenza della Consulta n. 10/2024

I Giudici di Sorveglianza pungolano l’inerzia legislativa

Questioni aperte e problemi pratici ma è questa la strada giusta?

 

A distanza di più di un anno da quella decisione – Sentenza Corte Costituzionale n. 10/2024 -  due magistrati di sorveglianza hanno autorizzato altrettanti colloqui privati: uno nel carcere di Parma e uno in quello di Terni.

In entrambi i casi l’istituto penitenziario aveva negato la richiesta, prima perché in attesa di specifiche da parte degli uffici superiori sulle modalità per far concretizzare i colloqui intimi, e poi per mancanza di spazi.

Dopo mesi di tira e molla, il magistrato di sorveglianza competente di Reggio Emilia, Elena Bianchi dopo aver esaminato la vicenda e stabilito che il detenuto non intenderebbe usare il tempo degli incontri intimi per scopi illeciti, ha accolto il richiamo presentato dall’avvocata Pina Di Credico, che segue altri due casi simili, «contro la negazione del diritto all’affettività», e dato il nullaosta.

Il provvedimento, datato 7 febbraio, stabilisce che entro 60 giorni il carcere debba allestire spazi idonei dove il detenuto e la moglie possano appartarsi, nel rispetto della loro privacy.

Una questione quella dell’individuazione di stanze destinate ai colloqui intimi, piuttosto spinosa, che ha generato diversi rigetti di autorizzazione simili nei mesi scorsi in molte altre carceri italiane, a causa della mancata specifica su chi dovesse occuparsene. Originariamente sembrava toccasse agli stessi istituti di pena, poi al DAP (dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) mentre ora la palla pare essere tornata definitivamente alle strutture.

Come a Parma, anche a Terni le cose sono andate un po’ per le lunghe, anche per questo motivo. Il detenuto, infatti, in carcere per cumulo di pene per reati come tentato omicidio, furto aggravato, evasione e altro, aveva chiesto già alcuni mesi fa di incontrare la compagna in modo riservato.

Se nell’autunno 2024 il permesso gli era stato negato, a gennaio 2025 dopo il reclamo,  che ha portato tra le motivazioni della richiesta anche il desiderio di paternità, il magistrato di sorveglianza di Spoleto, Fabio Gianfilippi, ha ordinato al carcere di consentire l’incontro e di attrezzarsi entro due mesi per fare in modo che avvenga in spazi adeguati.

La sentenza di oltre un anno fa ha rappresentato dunque una svolta epocale, riconoscendo come la privazione della libertà personale non possa comportare anche la negazione di altri diritti fondamentali, tra i quali quello di mantenere relazioni affettive e intime.

«Finalmente l'affettività e la sessualità non sono più un tabù» aveva dichiarato il presidente dell’associazione Antigone che si occupa dei diritti dei carcerati, Patrizio Gonnella. «Così ci si avvicina ad altri Paesi che da tempo hanno previsto tale opportunità nei loro ordinamenti».

Circa un anno fa, con una storica decisione (sentenza n. 10 del 2024, rel. Petitti),  la Corte costituzionale aveva riconosciuto e tutelato il diritto all’affettività in carcere dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 ord. penit. “nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa, nei termini di cui in motivazione, a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del comportamento della persona detenuta in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie”.

La Corte si era mostrata “consapevole dell’impatto che l’odierna sentenza è destinata a produrre sulla gestione degli istituti penitenziari, come anche dello sforzo organizzativo che sarà necessario per adeguare ad una nuova esigenza relazionale strutture già gravate da persistenti problemi di sovraffollamento”. A fine ottobre il Coordinamento Nazionale dei Magistrati di Sorveglianza (CONAMS) chiedeva l’attuazione della sentenza della Corte: “il tempo, non breve, ormai decorso dal 31.1.2024 senza che in alcun istituto penitenziario del Paese sia stata data esecuzione alla decisione della Consulta, di per sé dotata di immediata efficacia dalla data della sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, ci impone, dunque, di porre all’attenzione dell’Amministrazione penitenziaria tale tema, auspicando un pronto adeguamento della stessa ai dettami costituzionali”.

Sul tema e sul problema interviene ora anche la Cassazione, con la sentenza Cass. Sez. I, ud. 11.12.2024 (dep. 2.1.2025), n. 8, Pres. Mogini, Rel. Masi, ric. Sbordone. La Casa di reclusione di Asti aveva negato a un detenuto di avere un colloquio in intimità con la propria moglie, motivando sic et simpliciter in ragione del dato di fatto che “la struttura non lo consente”.

Il Magistrato di Sorveglianza di Torino aveva ritenuto inammissibile il reclamo del detenuto con una motivazione che, di fatto, sterilizzava la decisione della Consulta relegandola sulla carta: la richiesta del detenuto non configurerebbe un vero e proprio diritto, ma una mera aspettativa, non tutelabile in via giurisdizionale.

Di diverso avviso è la Cassazione, che ha riaffermato la forza e la portata dei principi affermati dalla Consulta: “non può ritenersi che la richiesta di poter svolgere colloqui con la propria moglie in condizioni di intimità, avanzata dal detenuto ricorrente, costituisca una mera aspettativa, essendo stato affermato che tali colloqui costituiscono una legittima espressione del diritto all'affettività e alla coltivazione dei rapporti familiari, e possono essere negati, secondo l'esplicito dettato della sentenza citata, solo per «ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell'ordine e della disciplina», ovvero per il comportamento non corretto dello stesso detenuto o per ragioni giudiziarie, in caso di soggetto ancora imputato. Il reclamo proposto dal detenuto ricorrente, pertanto, non doveva essere dichiarato inammissibile ma, essendo relativo all'esercizio di un diritto che il detenuto riteneva illegittimamente pregiudicato dal comportamento dell'istituto penitenziario di appartenenza, doveva essere valutato dal magistrato di sorveglianza ai sensi dell'art. 35-bis Ord. pen. Il provvedimento impugnato, pertanto, deve essere annullato, con rinvio al magistrato di sorveglianza di Torino, perché provveda sul reclamo proposto”.

Per altro verso, nonostante i principi sanciti dalla legge, l’applicazione del diritto all’affettività è ostacolata dalla situazione critica delle carceri italiane. Il sovraffollamento è una delle principali problematiche: molte strutture ospitano un numero di detenuti di gran lunga superiore alla loro capacità, rendendo difficile, se non impossibile, destinare spazi specifici per incontri privati. In carceri come Poggioreale, dove i detenuti superano le duemila unità, ogni possibile soluzione appare logisticamente inapplicabile.

Un altro aspetto delicato riguarda l’estensione del diritto all’affettività a partner non coniugati o dello stesso sesso. Sebbene la Corte costituzionale abbia incluso queste categorie nel riconoscimento del diritto ai colloqui privati, emergono perplessità sulla verifica della stabilità del rapporto. La mancanza di criteri chiari potrebbe rendere difficile distinguere tra relazioni autentiche e situazioni fittizie, aprendo potenziali margini di abuso.
 

Le prospettive per il futuro

Indubbiamente, il riconoscimento del diritto all’affettività rappresenta un passo avanti per i diritti umani in ambito penitenziario. Tuttavia, la sua realizzazione pratica richiede interventi strutturali e organizzativi significativi, che tengano conto delle condizioni attuali delle carceri italiane. La realizzazione di ambienti adeguati e l’introduzione di permessi speciali potrebbero rappresentare soluzioni complementari, ma è fondamentale che ogni iniziativa venga attuata in modo uniforme e sostenibile.

In Europa, le modalità con cui i detenuti possono mantenere relazioni affettive variano significativamente da paese a paese. Alcuni Stati membri dell’Unione Europea prevedono permessi speciali che consentono ai detenuti di trascorrere periodi di tempo con i propri coniugi o partner nelle rispettive abitazioni, altri hanno realizzato spazi dedicati all’interno dei penitenziari e altri, infine, non prevedono specifiche misure per l’affettività.

L’Ocf (Organismo congressuale forense) esprime «profonda preoccupazione per il mancato adeguamento delle strutture penitenziarie italiane alla storica sentenza della Corte costituzionale numero 10/ 2024 sul diritto all'affettività dei detenuti, nonostante sia trascorso oltre un anno dalla sua pubblicazione». Lo si legge in una nota diffusa dall’Organismo congressuale forense, in cui si ricorda come la Cassazione, a propria volta, abbia «ribadito che il diritto all’affettività e alla coltivazione dei rapporti familiari costituisce un diritto fondamentale, non una mera aspettativa, e come tale deve essere tutelato in via giurisdizionale». L’Ocf ha segnalato come «ad oggi, in nessun istituto penitenziario italiano sia stata data concreta attuazione al diritto riconosciuto dalla Consulta». E «questa inaccettabile inerzia non solo crea una disparità di trattamento tra detenuti, in palese violazione dell’articolo 3 della Costituzione, ma vanifica anche la portata rivoluzionaria della sentenza della Corte», dichiara in particolare Elisabetta Brusa, componente del dipartimento Detenzione e carceri di Ocf.

L’Organismo congressuale forense ha chiesto dunque al ministero della Giustizia e al DAP di «adottare con urgenza misure concrete per garantire l’effettività del diritto all’affettività in tutti gli istituti penitenziari, individuando e predisponendo spazi adeguati per i colloqui intimi. L’inerzia istituzionale non può più essere tollerata: si tratta di un diritto che non può rimanere sulla carta, ma deve trovare una concreta attuazione». Non è accettabile, per Ocf, che «un diritto fondamentale, riconosciuto dalla Corte costituzionale, resti lettera morta per mere difficoltà organizzative o strutturali».

È tempo dunque  che «l’amministrazione penitenziaria si assuma le proprie responsabilità e si adoperi concretamente per garantire l’esercizio di questo diritto, senza più alcun indugio. L’Ocf monitora la situazione e sosterrà ogni iniziativa volta a garantire l’effettiva tutela del diritto all’affettività delle persone detenute».

Una battaglia serrata per difendere l'intimità in carcere: da un lato, le garanzie costituzionali; dall'altro, l'ostinata resistenza del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria. Nonostante le sentenze della Corte costituzionale e della Cassazione, insieme alle ordinanze della magistratura di sorveglianza, l'amministrazione penitenziaria si oppone invano a un diritto riconosciuto. È il caso di un detenuto in alta sicurezza nel carcere di Parma che, grazie al ricorso dell'avvocata Pina Di Credico, ha costretto la direzione penitenziaria ad accettare, entro 60 giorni, il diritto a colloqui intimi con la moglie, per decreto del magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia. Tutto sembra finire per il meglio? No: il Dap ha presentato istanza di opposizione, ma il magistrato ha respinto con fermezza la richiesta di sospensiva.

La vicenda risale alla sentenza n.10/2024 della Corte costituzionale, che ha dichiarato incostituzionale il divieto di colloqui intimi senza controllo a vista per i detenuti, riconoscendo tale diritto come espressione del diritto fondamentale all'affettività e alla vita familiare. Nonostante ciò, la Direzione della Casa di reclusione di Parma aveva inizialmente negato al detenuto la possibilità di incontrare la moglie in condizioni di intimità, motivando il diniego con presunti “profili di pericolosità sociale”.

Il magistrato di Sorveglianza Elena Bianchi con l'ordinanza del 7 febbraio scorso, che imponeva all'istituto di consentire i colloqui entro 60 giorni. Il Dap ha però reagito chiedendo una sospensione, sostenendo che il recluso – pur essendo in regime di alta sicurezza – rappresenta ancora un rischio. Una richiesta che il magistrato ha definito “infondata”, rigettandola in tutte le sue parti.

Il magistrato sottolinea che la richiesta di sospensiva non soddisfa i requisiti legali: né la fondatezza del diritto ( fumus boni iuris ) né il pericolo di un danno irreparabile ( periculum in mora ). Il Dap ha basato la sua opposizione su una nota della Dda di Napoli del 2022, che “non escludeva” legami del detenuto con la criminalità organizzata. Tuttavia, tale documento – non aggiornato e non incluso negli atti – viene smentito dalla relazione del 22 gennaio scorso, che descrive un detenuto profondamente cambiato: condotta esemplare, percorso di riflessione e pentimento sincero. Il magistrato evidenzia un paradosso: mentre il Dap definisce il detenuto “pericoloso” per i colloqui intimi all'interno del carcere, allo stesso tempo proponeva di avviarlo alla sperimentazione premiale all'esterno, un regime che comporta rischi oggettivamente maggiori. Una contraddizione logica che mina la credibilità delle argomentazioni dell'amministrazione.

Il Dap aveva sollevato anche questioni procedurali, sostenendo che, in assenza di una “cornice normativa” specifica dopo la sentenza della Consulta, le direzioni carcerarie non possono autonomamente regolare i colloqui. Il magistrato ribatte citando la stessa Corte costituzionale: in attesa di un intervento legislativo, spetta alle autorità garantire subito il diritto all'affettività, adottando soluzioni temporanee (come locali adattati) senza ulteriori ritardi. L'ordinanza stessa ricorda che la richiesta di del detenuto risale ad aprile 2024: oltre 10 mesi fa. I 60 giorni concessi nel febbraio 2025 sono già un compromesso, considerando che l'istituto avrebbe dovuto attivarsi tempestivamente per adeguare gli spazi.

Se la sentenza della Corte Costituzionale n. 10/2024 nella la limpidezza della motivazione, appare come  una pronuncia che esprime un reale controcanto ai quadri mentali dominanti, nell’opinione pubblica generale e anche in quella specializzata. Nel collegare direttamente l’esercizio dell’affettività con il finalismo rieducativo della pena, la sentenza scolpisce il valore indiscutibilmente relazionale della risocializzazione. Un’opera tesa a favorirla, dunque, non può cominciare a sottrarre i due baluardi fondamentali della relazione: affettività e sessualità. Ricomporli, restituirli ai detenuti, sarà proficuo per la società intera, che dopo il tempo della pena potrà accogliere persone integre e più responsabili.

La possibilità di godere di un’affettività piena con i propri cari finisce tuttavia per dipendere dalle condizioni e dalle caratteristiche strutturali del carcere in cui si è reclusi, con evidente discriminazione di alcune persone detenute e dei loro cari, che potrebbero vedersi negata per lungo tempo la possibilità di incontrarsi nonostante la sentenza in commento. Persone che andrebbero ad aggiungersi a quelle escluse dal godimento di un diritto – pur ritenuto fondamentale! – per scelta espressa della stessa Corte (i ristretti in regime di carcere duro o di sorveglianza particolare).

Il pervicace tentativo di dilazione attuativa, tuttavia, non si annida unicamente nei ben noti deficit strutturali dei penitenziari italiani, ma anche nella strumentalizzazione di tali carenze per evitare di dare seguito al principio affermato dai giudici costituzionali, specie se si considera che ad essere gravati dalle richieste di questo nuovo tipo di colloqui saranno i direttori delle carceri e, soltanto in seconda battuta, i magistrati di

sorveglianza. Nonostante la clausola inserita in sentenza che valorizzava la gradualità dell’attuazione del principio e la compatibilità con lo stato degli istituti, si è verificato e si verifica che la predisposizione di locali dedicati ai colloqui intimi, anche laddove disponibili, è posticipata il più possibile per allontanare le complicazioni che certamente derivano dalla gestione delle visite nella quotidianità del penitenziario.

Senza contare che, anche una volta garantiti degli spazi idonei all’interno del carcere, risulterebbe opportuno riservare la decisione circa la possibilità di fruire in concreto dell’affettività inframuraria al magistrato di sorveglianza. Se la stessa Corte evidenziava che la questione di legittimità non potesse essere risolta mediante il ricorso ai permessi premio, non potendosi condizionare l’esercizio di un diritto fondamentale ai requisiti della premialità, nella pars construens della pronuncia si afferma che possono ostare alla concessione del colloquio intimo anche «irregolarità di condotta e precedenti disciplinari».  E’ dunque, preferibile evitare che a decidere sull’accesso a tale tipo di visite sia il direttore dell’istituto, lo stesso soggetto, cioè, che delibera le sanzioni disciplinari o che presiede il consiglio di disciplina che le irroga, per evidenti ragioni di garanzia e per evitare che questa novità si trasformi in uno strumento di disciplinamento.

Un intervento del legislatore risulta, allora, necessario e non più procastinabile. Non solo per emendare questa o quella disarmonia derivante dall’attuazione del principio contenuto nella sentenza in commento, ma anche e soprattutto per confrontarsi con l’insufficienza cronica di spazi all’interno delle carceri. La questione, più volte citata dalla Corte, non può essere ignorata se si vuole assicurare davvero alle persone recluse la possibilità di esercitare il diritto all’affettività, come pure le altre libertà loro negate.
 

Le questioni aperte  e non trascurabili

L’esercizio del diritto all’affettività nella sua accezione più profonda e completa, quindi alla sessualità della coppia, apre scenari e diritti ulteriori che, l’angusto spazio, per quanto garantito da riservatezza, di luoghi opportunamente approntati all’interno del carcere, non possono garantire e che comunque pongono ulteriori questioni.

Nel caso di detenute donne, che incontrano partner dell’altro sesso, possono inevitabilmente decidere di addivenire alla procreazione che una volta determinatasi apre il problema delle detenute gravide, a  cui sarebbe garantita la facoltà di uscire dalla detenzione intramuraria. In stretto collegamento a tale libera determinazione si apre il tema del diritto del concepito, a non vedere la luce all’interno di un istituto penitenziario subendo la condizione detentiva da incolpevole.

La recente norma voluta dal Governo che limita se non inibisce definitivamente la scarcerazione delle donne gestanti, è di segno oggettivamente opposto a quanto si auspica e la Corte ha inteso tutelare con la pronuncia n. 10/2024.

Il tema apre quindi ad una ulteriore riflessione che non può essere sorvolata ma che di contro richiede ed investe la più complessa riflessione circa la effettiva costituzionalità della struttura carceraria così come la conosciamo nei suoi connotati di privazione / limitazione della libertà.

L’analisi concentrica del diritto alla affettività che riconosciuto amplia i soggetti coinvolti portatori a loro volta di loro propri diritti, financo quelli dei soggetti non ancora concreti ma che dalla manifestazione di questa affettività possono prendere vita, travolge la struttura carcere entro al quale tale diritto deve trovare rispetto e rispondenza evidenziando tutta l’inadeguatezza della struttura stessa che alla fine si dimostra per se stessa illegittima ed incostituzionale.

E’ per l'appunto in fondo a questo clinale che si deve riconoscere come la pena detentiva, oggi unica e dominante, non sia e non possa essere la pena adeguata in attuazione all’art. 27 della Costituzione, ma è divenuto non più procrastinabile il tempo per affrontare e risolvere una volta per tutte il tema della diversificazione delle pene, non già nella declinazione delle pene alternative, bensì nella nuova e costituzionalmente ispirata declinazione di diversificazione delle pene tali da rendersi differente e sempre più attenuate nel coso stesso della espiazione, essere differenti rispetti alla tipologia di reato, insomma individuarsi soluzioni rispetto alle violazione differenti ed appropriate rispetto alle violazioni stesse, evitando di curare “diversi mali con la stessa medicina”