La morte di Papa Francesco porta via il Postulante della dignità nella speranza di libertà per ciascun detenuto

La morte di Papa Francesco porta via il Postulante della dignità nella speranza di libertà per ciascun detenuto
Si è speso sino all’ultimo …ha levato alto il grido per la dignità di ogni detenuto… è stato vicino … prossimo …a ciascuno sino al giovedì santo prima della morte … coerente con tutto il suo vissuto evangelico di misericordia, speranza e dignità !
La crociata di Bergoglio contro quell’indifferenza che trasforma le carceri in depositi di umanità dimenticata e il diritto penale in uno strumento di esclusione. «Ero carcerato e siete venuti a trovarmi»: il monito del Vangelo di Matteo ha trovato in papa Francesco non un semplice eco, ma un “programma di governo”. Egli non si è limitato a citare le parole di Cristo – che, nel capitolo 25 del Vangelo secondo Matteo, condanna senza appello chi volta le spalle ai reietti – le ha fatte vibrare nelle celle di tutto il mondo.
Era l’11 luglio 2013, quando il nuovo Papa varava una riforma penale senza precedenti. Nel cuore dello Stato più piccolo del mondo, aboliva l’ergastolo, introduceva il reato di tortura e sanciva il “giusto processo”. Un atto simbolico potentissimo: la Santa Sede diventava così un faro di civiltà giuridica, superando persino l’Italia – allora ancora priva di una legge sulla tortura e oggi, come ieri, inchiodata al dibattito sull’ergastolo.
Papa Francesco ha plasmato la sua riflessione sulla giustizia attorno a due principi :
la cautela in poenam e il primatum principii pro homine. Davanti all’Associazione Internazionale di Diritto Penale, nel 2014, li enunciò con la chiarezza di chi sa che il diritto può essere strumento di redenzione o di oppressione.
Il primo principio – la cautela in poenam – ribalta la logica delle legislazioni moderne: la pena non deve essere la risposta automatica ai mali sociali, bensì l’ultimo baluardo quando ogni altra soluzione è fallita. Una verità scomoda in un mondo in cui il carcere diventa sempre più una “soluzione preventiva”, un luogo dove rinchiudere non solo corpi, ma speranze.
Il secondo – il primatum principii pro homine – è un monito a non dimenticare che dietro ogni reato c’è una persona, che non va confuso il reo con il reato, l’uomo con l’errore.
Il diritto penale, per Francesco, deve chinarsi su quell’umanità ferita, non schiacciarla con il peso della punizione. Il messaggio postulante di papa Francesco è la traduzione perseverante dell’immagine di Papa Wojtyla chinato sul suo attentatore Ali Ağca e gli stringe le mani in un gesto di infinito perdono.
Papa Bergoglio ha condannato senza ambiguità la pena di morte, le esecuzioni extragiudiziali e quelle condizioni di sovraffollamento carcerario che la Corte Europea dei Diritti Umani – in due sentenze storiche contro l’Italia (2009 e 2013) – non ha esitato a definire “trattamenti degradanti”.
Ma Bergoglio è andato oltre, con la denuncia del populismo penale ha scavato più a fondo, squarciando l’ipocrisia di chi trasforma il diritto in una clava.
Nel 2019 il Papa pronunciò parole vibrate contro la deriva perversa di chi vede nella pena «l’unica medicina per ogni male sociale» – una ricetta velenosa, che sostituisce alle politiche di inclusione la comodità del castigo. «Negli ultimi decenni», spiegò con amarezza profetica, «si è creduto di curare malattie diverse con lo stesso farmaco: il carcere. Non è giustizia, è pigrizia. È la resa di chi preferisce fabbricare capri espiatori anziché costruire comunità».
«Non si tratta più solo di sacrificare vittime agli dei della paura, come nelle società primitive. Oggi si scolpiscono nemici di cartapesta – figure disumane, cariche di ogni minaccia – per giustificare leggi sempre più spietate». Un meccanismo, denunciò Papa Francesco, che trasforma «il diritto penale in un’arma per dividere», e che «rinnega la sua anima: proteggere l’umano, non cancellarlo». Ha smascherato, quindi, il populismo penale: è un inganno antico, ha ricordato il Pontefice, simile a quel meccanismo stereotipato che ha favorito, nel passato, l’espansione delle ideologie razziste.
Papa Francesco è stato non solo un pastore ma anche il Capo di Stato più attento allo Stato di diritto e al rispetto dei diritti umani, soprattutto nei confronti degli ultimi, i carcerati, che ha difeso e visitato fino all’ultimo respiro in quell’opera cristiana di misericordia corporale, “visitare i carcerati”,.
Rivolgendosi ai detenuti, amava ripetere: «Nessuno può toccarvi la dignità». E quando nel 2016 lavò i piedi a 12 carcerati – tra cui una donna musulmana – quel gesto diventò un manifesto: lo Stato non deve spegnere la scintilla divina in ogni essere umano, neppure dietro le sbarre. Il 26 dicembre del 2024 ha aperto la Porta Santa del carcere di Rebibbia, nel corso del Giubileo della Speranza 2025.
L’ultimo suo atto, quattro giorni prima di morire, è stato quello di far visita al carcere di Regina Coeli.
Papa Francesco ha lasciato una sfida: trasformare il carcere da luogo di maledizione a spazio di redenzione. Egli ha incessantemente ammonito e chiesto il passaggio da una giustizia basata sulla retribuzione a una giustizia basata sulla riparazione, il cui modello è l’icona evangelica del Samaritano: «senza pensare a perseguitare il colpevole perché si assuma le conseguenze del suo atto, assiste colui che è rimasto ferito gravemente sul ciglio della strada e si fa carico dei suoi bisogni», e che sul Golgota che porta Cristo sulla croce, incontra il Cireneo che in silenzio si carica della croce e la conduce sino al sacrificio
Siamo alla giustizia riparativa.
Papa Francesco ha continuato negli ultimi mesi, difronte allo sterminio dei suicidi in carcere, ad invocare un gesto di clemenza . Con la Lettera di Francesco ai capi di Stato perché concedano l'indulto a coloro che "ritengano idonei a beneficiare di tale misura”, affinché "questo tempo segnato da ingiustizie e conflitti, possa aprirsi alla grazia che viene dal Signore”. Il gesto simbolico già compiuto nel 2000 da Giovanni Paolo II e poi nel 2002. Anche Bergoglio aveva lanciato lo stesso invito per il Giubileo dei carcerati del 2016.
Ora per il Giubileo della Speranza Papa Francesco ha aperto una Porta Santa a Rebibbia. È un colpo di scalpello sulla pietra, un’eco che rompe il silenzio tombale su quella che ormai è diventata una strage quotidiana: i suicidi in carcere. La politica tace, ma Francesco no. Il Papa ha fatto di quella pietra scartata una pietra angolare, proprio come dice il Vangelo. E lo ha fatto in un clima dove il vento, invece di soffiare verso la misericordia, porta con sé polvere di punitivismo, di vendetta istituzionalizzata.
Il carcere sembra essersi allontanato anni luce dallo spirito della misericordia invocata da papa Roncalli. Diciamolo senza tanti giri di parole: il carcere è ormai fuori dalla Costituzione. Non ha più nulla a che vedere con la rieducazione, con la tensione al recupero, con il reinserimento. È una landa di cemento e disperazione che risponde a una sola logica: quella della pena come vendetta.
Papa Francesco, che, con un gesto apparentemente semplice, apre una Porta Santa in un carcere e ci mostra l’unica via che ha senso: quella del perdono, della speranza, della dignità. In un mondo che ha perso la fiducia nell’uomo, il Papa è rimasto l’ultimo custode di una scintilla di umanità.
Una porta che non è solo un passaggio simbolico, ma un invito a ripensare tutto: la pena, il carcere, la giustizia. Forse è tempo di ricordare che la forza di uno Stato non si misura dai muscoli che esibisce, ma dalla capacità di credere ancora nella recupero degli ultimi. I gesti di Papa Roncalli e di Papa Francesco sono lì a ricordarcelo: c’è sempre una pietra scartata che può diventare testata d’angolo.