La vergogna e lo stigma

La vergogna e lo stigma
La condizione detentiva segna per sempre la vita del condannato
…in cammino per il ritorno a Itaca …
La forma più deleteria di rabbia è senza dubbio quella basata sull’idea di «restituzione», cioè nell’infliggere dolore a chi ci ha causato un danno. (Martha Nussbaum “Rabbia e perdono” edito in Italia nel 2017 dalle edizioni il Mulino)
C’è poi una rabbia tesa a squalificare e ad umiliare l’altro, ma va da sé che questa forma di rabbia e quella prima citata non prospettano nessuna forma di progresso, di trasformazione dei contenuti di partenza, in quanto si alimentano di se stesse e vivono nel rancore, nel desiderio mai appagato di risarcimento.
C’è una diversa forma di rabbia che però fa intravedere una soluzione diversa, ed è la «rabbia di transizione», quella che trasforma le situazioni e le persone stesse e non si autoalimenta
Di per sé la carcerazione può essere rispettosa della dignità? Difficile dirlo, vista la distanza fra le pratiche correnti e pratiche veramente rispettose…
La prof. Nussbaum è molto attenta nella disamina dei diritti fondamentali dei carcerati, in Europa e in America (quali votare, lavorare fuori dal carcere, recarsi in visita alla famiglia), perché vuole superare l’idea, ancora presente nella società, che una pena adeguata dovrebbe essere basata anche sull’umiliazione pubblica. Questo per un motivo coerente con una visione welfarista della società e della persona umana, che ha nella tutela della dignità e del rispetto di sé un valore intrinseco.
Ecco dunque i principali motivi che dovrebbero evitare la degradazione e l’umiliazione pubblica “a persone che commettono reati generalmente non-violenti :
- Infliggere uno stigma aggredisce la dignità della persona in modo molto pesante.
Ciò non è rispettoso dell’essere umano in quanto tale, anche nei casi in cui l’umiliazione riuscisse efficacissima contro il crimine, cosa che, tra l’altro, non si verifica .
- Infliggere vergogna alimenta l’odio di massa.
Le punizioni basate su questo sentimento rende esecutrice la massa che deride ed infligge vergogna ai/al reo, alimentando il desiderio della maggioranza di umiliare alcune categorie di individui impopolari. È certamente problematico per l’imparzialità della legge delegare la punizione a forze parziali e diverse da essa.
La vergogna è sembrata a me il filo conduttore di tutta la mia esistenza: mia madre è allontanata dal paese d’origine e dalla propria famiglia perché rimasta incinta di “una vergona” (io appunto); io piccolo preadolescente vengo abusato dal marito di mia madre, mio patrigno, e mi allontano da casa per entrare in collegio, come spesso accade dovendo portare il peso della vergogna di un evento ove l’unico a pagare è l’infante; successivamente la commissione del reato è volta a proteggermi dalla vergogna della “sconfitta”, dall’aver deluso l’aspettativa di clienti e referenti. Infine in seguito alla condanna il tentativo/simulazione di suicidio avviene perché la vergogna è troppa e insostenibile.
L’elaborazione di questo sentimento/emozione richiede di imparare a trovare nuove forme di gestione di questa difficile emozione. Occorre imparare a riconoscere i propri limiti invece di cercare con un tentativo onnipotente di provare ad evitarla, imparare a chiedere aiuto affidarsi a chi veramente può darti una mano, guardare in faccia il limite per accettarlo imparando ad accettare ciò che si è, lavorando sulle competenze per migliorare, senza mai ingannare sé e gli altri sulle proprie possibilità. In ultima analisi: volersi bene.
Senza questo passaggio sarà difficile ritornare tra i liberi, senza la consapevolezza del proprio sé con i limiti, sarà difficile mettere la propria faccia autenticamente difronte agli altri, sarà impossibile gestire lo stigma della carcerazione che ci accompagnerà.
Prima il reato ci ha separato dalla società, il rischio sarà sfuggire allo stigma e per farlo mentire a sé. Ciascuno è ciò che la storia del suo cammino rivela, lo stigma si attenua si supera se non lo si evita, lo si porta trasformandolo da disvalore a valore, il valore della rinascita.
Lo stigma costituisce un’identità sociale che non è più intatta: verso chi ne è oggetto non abbiamo più un atteggiamento e delle aspettative neutri, come quelli che riserviamo a chiunque altro. «Si tratta di qualcosa che subito rimanda a degli stereotipi e la detenzione, anche se finita, è un’etichetta che rimane nel tempo, oltre che nella memoria del singolo, anche nella società», dice Francesca Vianello, Professoressa associata di Sociologia del Diritto, della Devianza e del Mutamento sociale all’Università di Padova, «tanto più che adesso chiunque può navigare su internet e vedere cosa ha fatto una persona anche dieci, venti o trent’anni prima. Per questo ci sono state campagne per il diritto all’oblio, a non confrontarsi continuamente con il proprio passato».
L’arma più potente contro stereotipi e pregiudizi è la conoscenza, quindi l’apertura. «Bisognerebbe che le persone detenute ed ex detenute avessero più occasioni per raccontarsi nella loro totalità». Il percorso di reinserimento dovrebbe iniziare prima del termine della pena, con un accompagnamento all’esterno che consenta di costruire una situazione dignitosa e una capacità di vivere all’esterno. «Così si aumenta anche la sicurezza, diminuendo le recidive», conclude la sociologa. «Sembra che il carcere abbia però un valore più simbolico che reale, pare che pochi siano interessati a dare un futuro a queste persone».
E’ con queste valutazioni che guardo ad Itaca che mi ha dato l’opportunità del viaggio, senza di Lei mai mi sarei messo in cammino. Non so come la troverò, ma anche se la troverò povera e diffidente, non per questo Itaca mi avrà deluso …so cosa Itaca vuole significare …