La chiamano Riforma della giustizia
La chiamano Riforma della giustizia
La riforma Costituzionale proposta dal Governo e approvata in doppia votazione dal Parlamento in realtà rappresenta una riforma del sistema di amministrazione della giustizia con duplicazione dei costi gestionali che ricadranno sui cittadini ma non apporterà maggiore e più equa giustizia
La riforma della giustizia in Italia prevede la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, determinando percorsi professionali distinti e non più comunicanti. Questa modifica, approvata il 30 ottobre 2025, stabilisce che giudici e PM avranno organi di autogoverno propri e un nuovo sistema disciplinare gestito dall'Alta Corte disciplinare. Inoltre, la legge sarà sottoposta a referendum popolare, previsto per la primavera del 2026, per confermare le modifiche.
La Riforma in pillole:
Si ribadisce che la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere e si specifica che “è composta dai magistrati della carriera giudicante e della carriera requirente” (art. 3 del d.d.l., che sostituisce l’art. 104, co. 1 Cost.).
Resta fermo, nell’art. 107, co. 3 Cost., che “i magistrati si distinguono tra loro soltanto per la diversità delle funzioni”, ma si introduce il principio delle “distinte carriere dei magistrati giudicanti e requirenti”, la cui disciplina viene demandata alle norme sull’ordinamento giudiziario (art. 2 del d.d.l., di modifica dell’art. 102, co. 1 Cost.). Si noti che, in assenza di previsioni costituzionali, risulta di fatto demandata alla legge ordinaria sia la disciplina del concorso (un unico concorso o due diversi?) sia la competenza per la formazione dei magistrati (un’unica Scuola Superiore della Magistratura o due?);
Le competenze dell’unico organo di autogoverno della magistratura, il CSM, vengono ripartite in tre nuovi organi: dall’attuale unico CSM si passa a due CSM ed un’Alta Corte disciplinare; tre organi al posto di uno, quindi.
Due CSM al posto di uno:
Anzitutto si istituiscono due CSM: il Consiglio superiore della magistratura giudicante e il Consiglio superiore della magistratura requirente, presieduti entrambi dal Presidente della Repubblica (art. 3 del d.d.l., che sostituisce l’art. 104, co. 2 Cost. e art. 1 del d.d.l., di modifica dell’art. 87, co. Cost);
Composizione dei due CSM (art. 3 del d.d.l., che sostituisce l’art. 104 Cost.): sorteggio da un elenco, per i laici; sorteggio secco per i togati. In particolare:
un membro togato di diritto: rispettivamente, il primo presidente della Cassazione (CSM giudicante) e il procuratore generale della cassazione (CSM requirente).
un terzo di membri laici estratti a sorte da un elenco predisposto dal Parlamento in seduta comune: devono essere professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati con almeno quindici anni di esercizio. L’elenco è predisposto entro sei mesi dall’insediamento del Parlamento ed è compilato mediante elezione;
due terzi di membri togati estratti a sorte tra tutti i magistrati: rispettivamente, tra i magistrati giudicanti (CSM giudicante) – oltre 7.000 giudici civili e penali – e tra i magistrati requirenti (CSM requirente) – oltre 2.000 pubblici ministeri – “nel numero e secondo le procedure previsti dalla legge” ordinaria.
vicepresidente di ciascun CSM eletto dall’organo fra i componenti laici designati mediante sorteggio dall’elenco compilato dal Parlamento in seduta comune.
i componenti designati mediante sorteggio durano in carica quattro anni e non possono partecipare alla procedura di sorteggio successiva.
i componenti non possono, finché sono in carica, essere iscritti negli albi professionali né far parte del Parlamento o di un Consiglio regionale
Competenze dei due CSM (art. 4 del d.d.l., che sostituisce l’art. 105 Cost): spettano a ciascun Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme sull’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti, le valutazioni di professionalità e i conferimenti di funzioni nei riguardi dei magistrati. Rispetto ad oggi la sostanziale novità è che viene esclusa la competenza del CSM in tema di provvedimenti disciplinari.
La nuova Alta Corte disciplinare
Istituzione dell’Alta Corte disciplinare (art. 4 del d.d.l., che sostituisce l’art. 105 Cost.), che assorbe funzioni oggi svolte dal CSM e dalla Corte di Cassazione, Sezioni Unite civili (in sede di impugnazione): “la giurisdizione disciplinare nei riguardi dei magistrati ordinari, giudicanti e requirenti, è attribuita all’Alta Corte disciplinare”.
Composizione dell’Alta Corte disciplinare art. 4 del d.d.l., che sostituisce l’art. 105 Cost.): 15 giudici
tre laici, nominati dal Presidente della Repubblica tra professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati con almeno venti anni di esercizio;
tre laici estratti a sorte da un elenco di soggetti in possesso dei medesimi requisiti, che il Parlamento in seduta comune, entro sei mesi dall’insediamento, compila mediante elezione;
sei magistrati giudicanti e tre requirenti, estratti a sorte tra gli appartenenti alle rispettive categorie con almeno venti anni di esercizio delle funzioni giudiziarie e che svolgano o abbiano svolto funzioni di legittimità
presidente eletto dall’Alta Corte tra i laici, cioè tra i giudici nominati dal Presidente della Repubblica o tra quelli estratti a sorte dall’elenco compilato dal Parlamento in seduta comune.
i giudici dell’Alta Corte durano in carica quattro anni. L’incarico non può essere rinnovato.
l’ufficio di giudice dell’Alta Corte è incompatibile con quelli di membro del Parlamento, del Parlamento europeo, di un Consiglio regionale e del Governo, con l’esercizio della professione di avvocato e con ogni altra carica e ufficio indicati dalla legge.
Impugnazione delle decisioni dell’Alta Corte: contro le sentenze emesse dall’Alta Corte in prima istanza è ammessa impugnazione, anche per motivi di merito, soltanto dinanzi alla stessa Alta Corte, che giudica senza la partecipazione dei componenti che hanno concorso a pronunciare la decisione impugnata
Illeciti disciplinari e aspetti procedurali: la legge determina gli illeciti disciplinari e le relative sanzioni, indica la composizione dei collegi, stabilisce le forme del procedimento disciplinare e le norme necessarie per il funzionamento dell’Alta Corte e assicura che i magistrati giudicanti o requirenti siano rappresentati nel collegio.
Corte di Cassazione: nomina di Consiglieri per meriti insigni
Si prevede una deroga alla separazione delle carriere stabilendo che il CSM giudicante possa nominare per meriti insigni quali consiglieri di Cassazione (e, quindi, giudici) i magistrati appartenenti alla magistratura requirente con almeno quindici anni di esercizio delle funzioni. I pubblici ministeri, pertanto, potranno diventare giudici per meriti insigni, su designazione del CSM giudicante. Resta ferma la possibilità, già prevista oggi, di nominare altresì consiglieri di Cassazione per meriti insigni i professori ordinari di università in materie giuridiche e agli avvocati con almeno quindici anni di esercizio, iscritti negli albi per le giurisdizioni superiori (art. 5 del d.d.l., di modifica dell’art. 106 Cost.)
Per il Ministro della Giustizia la riforma “avrà a seguire tutta una serie di conseguenze positive per la stessa magistratura. La magistratura oggi è indipendente dal potere esecutivo, e deve esserlo e lo resterà ma non è affatto indipendente da se stessa. I magistrati dipendono oggi dalla sedimentazione correntizia che li tiene sotto tutela; in questo modo noi li svincoleremo e spezzeremo questo legame patologico che unisce elettore ed eletto e che trova la sua manifestazione più patologica nell’ambito della sezione disciplinare”. Il Ministro Nordio ha poi concluso che questo traguardo realizza “il sogno di Berlusconi, ma anche il mio”.
La riforma costituzionale è stata infatti presentata in più occasioni dai suoi fautori, anche in sedi istituzionali, come una reazione nei confronti di presunte invasioni di campo della magistratura rispetto alla politica e all’azione del Governo. Una magistratura che, quando adotta decisioni ‘non gradite’, viene con una certa nonchalance tacciata di essere politicizzata. Di conseguenza, nel dibattito pubblico la riforma è oggi rappresentata dai media ed è per lo più percepita dai cittadini esattamente in questi termini: uno scontro, che invita faziosamente a porsi da una parte o dall’altra, finendo per perdere di vista il merito delle modifiche ordinamentali che si propongono. E’ un vizio del nostro Paese, alimentato da buona parte dei media, a partire dagli house organ (basta leggere con continuità le rassegne stampa per rendersene conto).
Chi è convinto che la magistratura sia un’istituzione fondamentale, per dare risposta di giustizia (ius-dicere), per tutelare e affermare i diritti e contribuire all’ordinato vivere civile, al progresso sociale ed economico del Paese, non può non avvertire, in questo clima di tensione, l’esigenza di difendere la magistratura come res publica, come patrimonio valoriale della Repubblica. Un bene di tutti amministrato in nome del popolo italiano, un servizio pubblico fondamentale: la giustizia. Il che non significa prendere posizione pro o contro la riforma: significa assumere come presupposto indiscutibile che qualsiasi eventuale riforma non deve essere ed andare contro la magistratura, la sua autonomia, la sua indipendenza, la qualità della giurisdizione. Su queste basi, prendere posizione sulla riforma, anche per i cittadini che saranno chiamati a esprimersi in un referendum, è più agevole: non si tratta di prendere le parti dei magistrati, degli avvocati, della maggioranza o dell’opposizione, di questo o quel professore od opinionista. Si tratta di comprendere se, nel merito, le modifiche ordinamentali proposte migliorano, peggiorano o lasciano inalterato lo stato delle cose.
La lettura dei lavori preparatori della Costituzione– in particolare di quelli relativi all’art. 107, ult. co. (“Il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario”) – mostra come l’assetto costituzionale rimasto immodificato dal 1948 ad oggi sia il risultato di un’articolata discussione e di una precisa scelta volta a separare il pubblico ministero non dal giudice, ma dal potere esecutivo. E’ questo un naturale polo di attrazione del p.m., la cui forza centripeta, oltre che a essere confermata da quanto accade nella gran parte degli ordinamenti stranieri, dipende da almeno due fattori di sistema:
a) il fatto che il p.m., coordinandola, lavori con la polizia giudiziaria, cioè apparati che dipendono dal Governo;
b) la circostanza che il p.m. svolga non solo attività giurisdizionale ma anche attività quale organo dell’esecuzione in materia penale.
I costituenti vollero cambiare lo stato delle cose rispetto all’assetto pre-repubblicano: l’art. 69 della legge sull’ordinamento giudiziario del 1941, ribadendo quanto era previsto in un testo unico dal 1923, prevedeva che il pubblico ministero esercitasse le funzioni attribuitegli dalla legge “sotto la direzione del Ministro di grazia e giustizia”; formula che nel 1946, caduto il regime, sarà stemperata in “sotto la vigilanza” del Ministro stesso, per poi essere abbandonata – questo è il punto – nella Costituzione del 1948.
Sul piano delle garanzie costituzionali, l’indipendenza del pubblico ministero era ed è ancora oggi assicurata da un rafforzamento del CSM.
L’attenzione merita di essere spostata sull’ultimo comma dell’art. 107 Cost., sul quale la riforma non incide: “il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario”. La riforma costituzionale approvata e che sarà oggetto del referendum incide però sul CSM, privandolo del potere disciplinare, spacchettandolo in due e, soprattutto, prevedendo che sia composto da magistrati, rispettivamente, giudicanti e requirenti, non eletti ma sorteggiati.
Un CSM requirente così configurato, separato dal CSM giudicante, con rappresentanti laici che, a differenza di quelli togati (estratti a sorte in una platea indefinita), saranno sorteggiati in una lista di prescelti dal Parlamento, può garantire l’indipendenza dei pubblici ministeri dal potere politico? Può rappresentare, sul piatto della bilancia, un contraltare effettivo rispetto al rischio che, con una legge ordinaria, possano essere ridotte in futuro le garanzie di indipendenza e autonomia dei p.m.? Fino a che punto può essere rassicurante il mancato intervento sul principio di obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.) quando sappiamo che, in un sistema sovraccarico di procedimenti, di fatto sono decisivi i criteri di priorità nella trattazione, sui quali incideranno le scelte politiche del Parlamento e i Progetti organizzativi delle Procure, che devono passare dal CSM requirente con consiglieri togati sorteggiati?
Come esce il pubblico ministero dalla riforma costituzionale? La separazione delle carriere e la scissione del CSM, nella volontà dei proponenti e di fatto, allontana giudici e pubblici ministeri, rendendoli due corpi distinti all’interno della magistratura.
La ratio è di valorizzare la terzietà del giudice e di porre il pubblico ministero, quale rappresentante della pubblica accusa, su un piano di equidistanza dal giudice condiviso con il difensore.
In astratto, va riconosciuto, è un disegno ragionevole e coerente con i principi del processo accusatorio.
In astratto, però. Perché in concreto vi è da domandarsi se la riforma di cui parliamo, fondata sulla separazione dei CSM, sia in grado di raggiungere quegli obiettivi. Fino a che punto un P.M. magistrato come il giudice, che già oggi svolge funzioni diverse e dopo le leggi Castelli e Cartabia ha ridottissime possibilità di cambiare funzioni (i dati sono impietosi, meno dell’1% dei cambi di casacca), potrà essere considerato dal giudice alla stregua dell’avvocato, solo perché la sua carriera dipende da decisioni di un altro CSM?
Siamo sicuri che, per una eterogenesi dei fini, il CSM requirente non consolidi invece, nel medio lungo periodo, una corporazione di pubblici ministeri, che esercita, nel processo e fuori da esso, poteri ben più forti di quelli che una parte privata come l’avvocato, inevitabilmente, ha nel nostro come in altri sistemi, pure accusatori?
Ammesso che esista in qualche parte del mondo, siamo proprio sicuri che la parità delle armi tra accusa e difesa dipenda dalla separazione delle carriere e da un rafforzamento della figura del pubblico ministero e non, in ipotesi, da un rafforzamento del ruolo e della figura del difensore, magari con una unificazione delle carriere e della formazione, come avviene in altri sistemi? In fondo tutti, avvocati, giudici e pubblici ministeri, partono insieme nel loro percorso, come matricole di un corso di laurea in giurisprudenza, studiano assieme, si frequentano, si danno del tu, si laureano e preparano concorsi ed esami.
Nell’intento e negli obiettivi del riformatore vi è il perseguimento di “obiettivi di miglioramento della qualità della giurisdizione”, da raggiungere alla luce dei principi del giusto processo e di una ulteriore evoluzione del sistema verso il modello accusatorio.
Quale miglioramento, in termini di qualità della giurisdizione, può assicurare la separazione delle carriere dei magistrati e, in particolare, la separazione dei CSM e la costituzione dell’Alta Corte disciplinare?
Nei desiderata dei proponenti, e in linea con il modello del processo accusatorio, la separazione delle carriere dovrebbe assicurare:
- - l’autonomia del giudice dal pubblico ministero, rendendolo davvero terzo;
b) - la parità delle armi con il difensore.
C’è da chiedersi:
- se l’attuale assetto ordinamentale non assicuri già la terzietà del giudice;
- se, ammesso che si risponda negativamente alla prima domanda, la separazione delle carriere e dei CSM assicuri il risultato atteso;
- se la riforma promette effettivamente una parità delle armi tra accusa e difesa.
Quanto alla prima domanda, chi propone la riforma muove da una premessa che, se vera, sarebbe preoccupante (al punto da richiamare l’attenzione di organismi internazionali che vigilano sui livelli di tenuta dello stato liberale, ciò che non risulta sia mai avvenuto): la mancanza di sufficiente terzietà dei giudici italiani, influenzati nelle loro decisioni dall’appartenenza del pubblico ministero alla stessa carriera.
Sulla carriera del giudice influiscono oggi le decisioni del CSM, che per due terzi (20 membri) è composto da magistrati eletti (dai magistrati). I pubblici ministeri – che numericamente sono assai meno dei giudici (penali e civili): 8.000 giudici e 2.600 p.m. – sono oggi solo un quarto dei componenti togati del CSM: 5 su 20. Indubbiamente su questa o su quella decisione (es. la valutazione di professionalità al fine dell’avanzamento di carriera e del relativo scatto stipendiale, la nomina alla presidenza di una sezione di tribunale o di corte d’appello) pesa il voto di tutti i componenti del CSM: ogni singolo voto può fare la differenza, dei togati, ivi compresa la componente minoritaria dei pm, come dei laici (l’altro terzo, eletto dal Parlamento).
Quanto alla seconda domanda: è verosimile che l’attuale assetto – un solo CSM con una componente minoritaria di p.m. – pregiudichi in via generale la terzietà del giudice, cioè di qualsiasi giudice? E’ davvero necessario separare le carriere e i CSM oppure la terzietà del giudice dipende piuttosto dall’imparzialità essenziale per la funzione, dall’etica professionale di ciascuno e dal dovere di adempiere alla funzione con disciplina e onore (art. 54 Cost.), in linea con il giuramento prestato?
E’ difficile che la qualità della giustizia, in termini di livelli di terzietà dei giudici, possa migliorare separando le carriere. Vi sono dati empirici che mostrano già oggi, d’altra parte, l’autonomia del giudice dal p.m. Nella logica del sistema, il pubblico ministero avanza istanze (come il difensore) sulle quali decide il giudice. Orbene, in molti casi il giudice non accoglie le richieste dei pubblici ministeri, durante le indagini (es., la richiesta di applicare una misura cautelare o di archiviare un procedimento) o durante il processo (es., la richiesta di condanna a una certa pena o la richiesta di condanna tout court). Ciò è, semplicemente, fisiologico.
Se i giudici non fossero autonomi dai pubblici ministeri nei loro giudizi come si spiegherebbe la percentuale, certo non bassa, di assoluzioni in primo grado? (almeno il 20%). Non solo, se l’autonomia di valutazione del giudice dipendesse dal percorso unitario delle carriere dei magistrati e dall’unitarietà del CSM, bisognerebbe allora porsi il problema della separazione delle carriere dei giudici di primo grado da quelli di appello e di cassazione, che fisiologicamente annullano o confermano le sentenze pronunciate nei precedenti gradi di giudizio. Ciò anche nel giudizio civile, nel quale il p.m. ha funzioni e compiti marginali e del quale non si parla mai, come se la giustizia penale fosse l’unica giustizia interessata dalla riforma costituzionale.
La terza domanda - La qualità della giurisdizione, indubbiamente, migliora in corrispondenza di una valorizzazione del ruolo del difensore.
La riforma, tuttavia, non si occupa in alcun modo dei difensori ma si limita a separare i p.m. dai giudici limitatamente al profilo della carriera (non della comune appartenenza alla magistratura). In che modo ciò può meglio assicurare la parità delle armi ?
La riforma costituzionale della magistratura è spesso presentata nel dibattito pubblico come una riforma della giustizia. E’ fin troppo facile però obiettare che un miglioramento della qualità della giustizia dipende, realisticamente, non dalla separazione delle carriere (per quanto si è detto nel paragrafo precedente), ma da investimenti essenziali per un servizio pubblico così importante per il Paese. Non ci si possono attendere effetti taumaturgici da una riforma che, peraltro, non è a costo zero (passare da un CSM a due, oltre che istituire una nuova Alta Corte disciplinare non lo è.
L’efficienza della giustizia passa principalmente dalla adeguatezza degli organici: mancano ancora 1832 magistrati, pari al 17% di scopertura: 1397 giudici e 435 pubblici ministeri.
Stando ai dati del Ministero la percentuale di scopertura dell’organico del personale amministrativo della giustizia, senza il quale all’evidenza la macchina non funziona, è del 27%: mancano 11.605 dipendenti.
Si pensi ad esempio alla situazione in Italia dei liberi sospesi (condannati in via definitiva in attesa di misure alternative)– oltre 90.000, secondo dati resi noti dal Ministro Nordio due anni fa – è allarmante ed è una delle tante cartine di tornasole di una giustizia che dovrebbe essere migliorata sotto aspetti forse prioritari rispetto a quelli perseguiti dalla riforma.
Una giustizia migliore richiede organici adeguati, strumenti tecnologici adeguati (penso alla App per il processo penale telematico), ruoli di udienza non affollati e rinvii ragionevoli, non di mesi o di anni. Richiede, insomma, altro rispetto alla separazione delle carriere. Almeno prioritariamente, nell’interesse degli utenti del servizio pubblico giustizia.
Anche l’istituzione dell’Alta Corte disciplinare solo per la magistratura ordinaria e non anche per le altre magistrature (amministrativa, tributaria, contabile) è ragionevole?
E’ un altro punto critico della riforma, che sembra avvalorare il sospetto del suo carattere ‘punitivo’/revanchista nei confronti della sola magistratura ordinaria.
Sarebbe ragionevole, nel momento in cui si istituisce un’Alta Corte disciplinare (sia per i pm sia per i giudici), estenderne la competenza in rapporto non solo alla magistratura ordinaria bensì a tutte le magistrature, eventualmente prevedendo diverse sezioni al suo interno.
Diversamente, si creano nel sistema disarmonie e disparità tra magistrati e magistrature, anche sotto il profilo dei criteri di composizione dei rispettivi organi disciplinari.
L’attenzione si concentra tutta sulla separazione dei percorsi di carriera all’interno della magistratura. Esiste però una realtà, sottolineata da molti e, tra questi, da Sabino Cassese nel suo “Il governo dei giudici” (2022), oltre che da rappresentanti delle Camere Penali, che riguarda i magistrati fuori ruolo, che prestano servizio presso i ministeri o presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri: non solo in uffici tecnico-giuridici (come gli uffici legislativi), nei quali il loro apporto (seppur non esclusivo) è in una certa misura utile e raccomandabile, ma anche in uffici con compiti di natura politica. La contiguità dei magistrati con il potere esecutivo e con la politica è un tema che meriterebbe di essere affrontato con maggiore attenzione; così come quello delle porte girevoli tra politica attiva (nominati o eletti) e magistratura.