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Paolo Adinolfi: una presenza scomoda alla fallimentare

Casina Valadier
Casina Valadier

Paolo Adinolfi: una presenza scomoda alla fallimentare


Paolo Adinolfi l’antefatto

Sabato 2 luglio 1994 il magistrato romano Paolo Adinolfi, saluta la moglie Nicoletta ed esce di casa, dall’appartamento in zona Farnesina, dicendo che sarebbe tornato per l'ora di pranzo.

Sale sulla sua “Bmw 316” e si reca al Tribunale Civile di Roma, in viale Giulio Cesare, dove ha lavorato per molti anni prima alla sezione fallimentare, poi alla seconda civile.

Subito dopo è andato allo sportello bancario interno del Tribunale per trasferire un conto corrente all'agenzia della Corte d’Appello di via Varisco, dove era stato appena trasferito e dove si è poi recato, intorno alle 10, per lo stesso motivo.

All'ufficio postale interno ha anche pagato alcune bollette della madre, tale circostanza è stata confermata da una testimone.

Dopo una serie di altri spostamenti per alcune commissioni, verso le 11 il magistrato è andato all’ufficio postale del Villaggio Olimpico (Via Nedo Nadi), dove ha spedito alla moglie un vaglia di 500.000 lire, un gesto inspiegabile.

Poi, probabilmente, Adinolfi ha preso un autobus per raggiungere la madre al quartiere Parioli, in Via Scipio Slataper.

Nella cassetta postale della madre sono state poi ritrovate le chiavi di casa sua e della sua auto, circostanza ritenuta dagli inquirenti un depistaggio.

Alle 12,30 Adinolfi è stato visto da un avvocato sull’autobus numero 4, (IL GIUDICE SPARITO S’INDAGA A MILANO la Repubblica.it notizia del 22 luglio 1994) che da Parioli portava a piazza Zama.

Il bibliotecario del tribunale di Roma, Marcello Mosca, durante la trasmissione televisiva Chi l’ha visto del 15 novembre 1994 ha sostenuto di aver visto il magistrato la mattina della scomparsa in compagnia di un uomo di 30-35 anni, di media statura, ben vestito, nella circostanza il magistrato aveva ritirato una per una sentenza richiesta all’archivio.

Infine è emerso che Paolo Adinolfi aveva chiesto un appuntamento con il Sostituto Procuratore della Repubblica di Milano Carlo Nocerino, che si occupava del crack dell’assicurazione Ambra, per la settimana successiva a quella della scomparsa. Adinolfi voleva riferire particolari importanti legati a procedimenti che aveva seguito quale giudice delegato al Tribunale fallimentare di Roma.


Paolo Adinolfi: le inchieste giudiziarie

Le inchieste sulla sua scomparsa sono state archiviate, la prima molto frettolosamente nel 1996 mentre l’altra più approfondita nel 2003.

Nel 1996 si liquidò la scomparsa sostenendo che “L’allontanamento volontario è ipotesi più probabile delle altre”, scrissero i titolari dell’inchiesta, nel chiedere l’archiviazione.

Successivamente le indagini furono riaperte e i familiari s’illusero che fosse giunta la svolta, per quanto tragica.

Un faccendiere siciliano, tal Francesco Elmo, arrestato per riciclaggio in Campania, aveva infatti chiesto di “liberarsi da un peso” e messo a verbale che la banda della Magliana aveva ucciso Adinolfi, per evitare che affiorassero i legami tra servizi segreti deviati, società-fantasma nel settore immobiliare e grande «mala».

La procura di Perugia, titolare delle indagini sulla scomparsa di Adinolfi, fece scavare a Villa Osio, residenza del presunto cassiere della Magliana, Enrico Nicoletti (poi requisita e diventata Casa del jazz), in cerca del cadavere (non trovato), e continuò a lavorare sullo scenario di connessioni losche e insospettabili.

Pensare di rinvenire il corpo di Adinolfi in una proprietà di Nicoletti appare una mera utopia, certamente il “cassiere” della banda della Magliana non era uno sprovveduto.

Per la seconda volta la procura è costretta a richiedere l’archiviazione, ma nella richiesta si legge: “Le nuove indagini inducono a rivedere il giudizio riguardo all’origine volontaria della scomparsa del dr. Adinolfi e a escludere la morte per cause naturali o incidente, o la perdita di memoria…”.

Quasi certa “l’azione delittuosa”, insomma.

Soprattutto se si considerano «l’estrema delicatezza di alcuni affari trattati», la “notevole rilevanza degli interessi economici coinvolti», la «capacità criminale dei soggetti che subivano le procedure» e i «contrasti insorti con taluni colleghi”.


Paolo Adinolfi e l’ambiente di lavoro

Mio marito era un idealista, un cattolico osservante, legatissimo ai nostri figli e a me. Non aveva intenti suicidi né desideri di fuga. Piuttosto, mi aveva confidato seri problemi sul lavoro…”, parole di Nicoletta Grimaldi moglie del magistrato.

La signora Adinolfi non ha creduto mai, neanche per un minuto, all’allontanamento volontario. Il movente andava cercato negli affari scottanti che aveva gestito, questioni “talmente gravi da far crollare il tribunale di Roma”, come confidò a un amico.

L’amico in questione è il magistrato Giacomo De Tommaso, che avrebbe raccolto le confidenze e i timori di Adinolfi di essere seguito e spiato.

Perché Adinolfi si sentiva spiato? Chi aveva interesse a monitorare il giudice?

Per capirlo si dovrebbe scavare e leggere con attenzione le carte del fallimento della finanziaria Fiscom, che conduceva a personaggi legati alla banda della Magliana.


Paolo Adinolfi e il contesto

La sezione fallimentare di Roma è sempre stato un luogo malsano foriero di incontri poco edificanti, d’altronde la storia giudiziaria insegna. Negli anni successivi alla scomparsa di Paolo Adinolfi sono stati numerosi gli arresti di magistrati della fallimentare capitolina.

Gli inquirenti dovrebbero ricostruire con attenzione i rapporti tra Paolo Adinolfi e i suoi colleghi della fallimentare al tempo della sua permanenza all’interno degli uffici di Viale Giulio Cesare.

Come venivano gestiti i fallimenti?

Quali erano i criteri di assegnazione degli stessi?

Quando Paolo Adinolfi lavorava alla fallimentare erano 27 i magistrati assegnati alla sezione che si occupava di gestire crack miliardari. Molti di loro sono stati “protagonisti” di inchieste giudiziarie per presunti illeciti e favoritismi.

I pubblici ministeri di Perugia dovrebbero collegare la gestione disinvolta di determinati fallimenti alla scomparsa di Adinolfi, magari incrociando date e avvenimenti che oggi potrebbero assumere un rilievo diverso.

Nel maggio del 1991 il quotidiano La Repubblica in cronaca riporta la notizia che la procura di Roma, PM Leonardo Frisani, ha aperto un fascicolo su Giuseppe Ciarrapico.

Nell’articolo si legge: “La magistratura penale di Roma ha avviato un’indagine preliminare sulle vicende scaturite dal fallimento della vecchia società di gestione della Casina Valadier.

Allo stato, anche se non sono stati emessi provvedimenti giudiziari, le ipotesi di reato sul fascicolo processuale sono quelle di bancarotta e falso in atto pubblico. Al centro delle indagini: l’imprenditore Giuseppe Ciarrapico, l’amministratore unico della società Casina Valadier Romeo Lancia ed il notaio che ha redatto l’atto di acquisto della gestione dell’attività, Michele Di Ciommo.

All’inizio, il caso della Casina Valadier è di esclusiva pertinenza del tribunale fallimentare, dove il giudice Adinolfi segue una procedura fallimentare relativa alla vecchia gestione.

Nel frattempo però la società Italfin, di Ciarrapico, inizia ad interessarsi a un eventuale rilevamento di gestione, un acquisto delle azioni della società che fino a quel momento aveva gestito il locale. I giornali nel giugno ‘90 danno infatti la notizia che l’Italfin ha acquistato le quote azionarie. Ma il problema nasce a proposito dell’atto notarile con il quale viene siglata la vendita: secondo Ciarrapico ed i suoi legali tutto è in regola; il giudice avanza dubbi. Si tratta, in sostanza, di stabilire se la cessione sia avvenuta prima o dopo la dichiarazione di fallimento.

Dall’atto risulta che l’acquisto delle azioni è avvenuto prima ma nella registrazione dello stesso atto apparirebbe una data diversa, questa volta successiva al fallimento. Un errore della segretaria del notaio, ha detto una delle parti in causa. Un errore che però ha sollevato, come detto, parecchi dubbi: se i fatti fossero realmente andati come risulta nella registrazione dell’atto, la cessione della gestione non si sarebbe potuta realizzare in quanto la vecchia società, di fatto, non si poteva più considerare proprietaria della gestione della Casina Valadier”.

Ed è proprio il fascicolo che nel 1992, due anni prima della sua scomparsa, venne revocato a Paolo Adinolfi al rientro dalle vacanze estive.

Paolo, a quel punto, decise lasciare il tribunale fallimentare. Continuò però il suo impegno civile su quel fronte. Anzi, non si dava pace. Chiedeva consigli ai colleghi più anziani. Voleva testimoniare da privato cittadino, come persona informata sui fatti” così la moglie Nicoletta Grimaldi.

https://www.antimafiaduemila.com/home/mafie-news/254-focus/53924-venti-anni-prima-di-mafia-capitale-paolo-adinolfi-storia-del-giudice-scomparso.html

Altro filone è il fallimento dell’assicurazione Ambra.

Paolo Adinolfi voleva parlare al PM di Milano Carlo Nocerino, che investigava sul crac dell'Ambra assicurazioni.

Da una interrogazione alla camera dei deputati, che Filodiritto ha rinvenuto, emerge il rilievo dell’operazione relativa all’acquisto della società assicurativa “Ambra”, del tutto anomala per quanto riguarda le garanzie rilasciate e un turbinoso giro di finanziamenti che portano a operazioni immobiliari a Cortina, con acquisti di alberghi poi divenuti multiproprietà.

Casina Valadier, Ambra assicurazioni e Fiscom, un filo da seguire per fare luce sulla “scomparsa” di Paolo Adinolfi.

Insegnava Giovanni Falcone che bisogna seguire i soldi, nel caso Adinolfi mai suggerimento sembra più calzante.