Sull'indipendenza della magistratura. Nota II

Sull'indipendenza della magistratura. Nota II
Con la Nota pubblicata nella presente Rubrica «Osservatorio tre Bio» il 22 gennaio 2025 è stata introdotta la questione; meglio, è stata avviata un'introduzione all'attuale grave problema dell'indipendenza della magistratura. Ora, intendiamo proseguire la riflessione che, in futuro, riteniamo opportuno continuare e possibilmente completare. Vedremo che l'indipendenza del magistrato è innanzitutto uno status intellettuale e morale difficile da conseguire e ancora più difficile da mantenere. Porteremo a prova dell'affermazione alcuni casi. Non quelli eclatanti, quelli cioè che «fanno notizia» e di fronte ai quali reagiscono un po' tutti: i politici, la stampa, i poteri economici e persino l'uomo della strada. Vedremo, poi, di approfondire la questione, sviluppando un'enunciazione fatta nella citata Nota del 22 gennaio 2025: l'attuale formazione del «giurista» (e, conseguentemente, dei magistrati) appare inadeguata e, perciò, sbagliata. Le vecchie Facoltà di Giurisprudenza e, ora, i Dipartimenti giuridici delle Università «oscillano» tra una formazione impropriamente definita «scientifica» (orientata al solo commento delle norme positive e, nell'ipotesi migliore, alla conoscenza dogmatica e teorica dell'ordinamento, ma non necessariamente del diritto) e una formazione «aperta», vale a dire orientata a «leggere» l'ordinamento in prospettiva ultraordinamentale. Ciò è segno – quando l'opzione non è altrimenti esclusivamente dettata da un impegno ideologico – dell'insufficienza della chiusura dell'ordinamento per la conoscenza del diritto e, talvolta, è denuncia del suo errore.
Di ciò parleremo in altra occasione.
Ora è opportuno portare l'attenzione, sia pure brevemente, sulle «reazioni» che le dichiarazioni di alcuni magistrati hanno sollevato, accentuate dalle prese di posizione delle loro associazioni, dall'evidente strumentalizzazione con la quale sono state redatte molte sentenze.
Recentemente (primi giorni di aprile del corrente anno 2025) ci sono stati pronunciamenti che intendevano (e intendono) «censurare» molti aspetti di una linea di pensiero e di azione che appare quasi «ufficiale» della magistratura italiana (il problema, in verità, non è solo italiano come appare evidente considerando talune recenti sentenze della, per esempio, magistratura francese).
Che cosa, in realtà, si è rilevato o si è detto?
È stato rilevato che il magistrato è e deve essere indipendente. Cosa, sotto un certo profilo, ovvia. L'indipendenza, però, riguarda il suo giudizio subordinatamente alle positive prescrizioni normative. Il magistrato non è indipendente rispetto alla legge: esso, infatti, è tenuto all'applicazione della norma, interpretandola secondo il suo significato reso palese dalle parole e secondo la loro connessione, nonché tenendo presente l'intenzione del legislatore. Così prescrive il I comma dell'art. 12 delle preleggi premesse al Codice civile italiano in vigore. Questa prescrizione – è bene sottolinearlo – non è valida semplicemente perché prescritta ma è prescritta perché valida[1].
La questione che, a prima lettura, sembra ovvia, si complica appena viene avviata una riflessione sull'ordinamento giuridico, non validamente fondato e non sempre caratterizzato dalla coerenza. Difettando della coerenza, esso, secondo alcuni autori – anche autori assolutamente positivistici[2] – non sarebbe, propriamente parlando, un vero ordinamento. Quello che qui rileva è il fatto che se la sua coerenza è difettosa, essa va «costruita». Nel processo costruttivo della coerenza ordinamentale giuocano, però, diversi fattori, che la giurisprudenza creativa – al di là delle intenzioni – utilizza e sulla base della quale si elabora la prescrizione[3]. Così, talvolta, si va «oltre» la norma posta e vigente; talvolta si va addirittura «contro» la norma posta e vigente. Ciò – non possiamo nascondercelo – è innanzitutto una delle conseguenze dell'incapacità o della superficialità o della tendenziosità del legislatore: comunque, dei suoi errori. Quindi la giurisprudenza creativa può trovare la sua genesi e le sue ragioni a monte dell'ordinamento, rectius a causa dell'ordinamento mal posto dal legislatore. L'ermeneutica giuridica da una parte supplisce, quindi, alle deficienze o alle contraddizioni legislative e, dall'altra, accentua l'incertezza giuridica, arrivando spesso all'introduzione dell'«anarchia giuridica» (che è una contradictio in adiecto).
Per richiedere al giudice la subordinazione assoluta alla legge, quindi, sono necessari almeno tre requisiti: a) che il dettato delle norme sia chiaro e inequivocabile (e, quindi, in sé e per sé prescrittivo); b) che esso sia coerente rispetto all'intero ordinamento giuridico (positivo); c) che esso non sia una palese iniuria al diritto.
Quello, però, che è stato osservato – e a queste osservazioni intendiamo far riferimento – è che: a) l'attuale «precarietà» dell'equilibrio dei poteri, delineati dalle Costituzioni contemporanee (le quali hanno recepito – com'è noto -, a questo proposito, la teoria di Montesquieu), facilita lo «squilibrio» dei poteri medesimi; b) il superamento della statualità del diritto consente, talvolta impone, di andare «oltre» la «chiusura» fino a poco tempo fa imposta dall'ordinamento: il diritto attualmente va oltre i confini dello Stato, talvolta per decisione dello stesso Stato (si pensi, per fare un solo esempio, a taluni reati sessuali commessi all'estero). L'internazionalizzazione del diritto è, comunque, un fatto e comporta (o rischia di seriamente comportare), almeno de facto, il superamento parziale persino dell'ordinamento costituzionale (la Corte costituzionale ha imposto la «difesa» dell’ordinamento costituzionale. Ha sentenziato, infatti, che anche il diritto internazionale incontra i limiti derivanti dalla Costituzione[4]); c) il baipassamento del potere della sovranità, soprattutto della sovranità popolare, sia essa esercitata per rappresentanza (Parlamento) sia essa esercitata direttamente (referendum), è un dato di fatto; d) la sostituzione del potere giudiziario al potere legislativo, accentuato dalla giurisprudenza creativa che, rifacendosi alle fonti internazionali del diritto (positivo), può sovvertire qualsiasi norma statale vigente (escluse – lo si è appena detto – le norme costituzionali che tutelano diritti definiti fondamentali). La «sovversione» denunciata ne è, pertanto, una conseguenza.
Andiamo, comunque, per gradi. È opportuno, infatti, soffermarsi sulle singole questioni elencate, considerare i problemi che esse hanno posto e che pongono, registrare sia l'evoluzione ordinamentale sia la nuova funzione assegnata al giudice o autoassegnatasi dal giudice, prendere atto della normativa costituzionale che evidenzia l'impossibilità di «rispondere» alle più profonde e vive esigenze della giustizia.
Incominciamo dalla sovranità. Bodin definì sovrano colui che dipende unicamente dal potere della propria spada. In altre parole sovrano è colui che non riconosce né superiori né leggi – di nessun genere – limitatrici della propria volontà. È, questa, la definizione di sovranità come supremazia, accolta nell’art. 1 della Costituzione italiana. La sovranità è, pertanto, la premessa dell’arbitrio. Tanto che da molte parti si ripete acriticamente che il «popolo ha sempre ragione»[5], ovvero che esso non sbaglia mai. Questa sentenza riguarda ogni regime e ogni ordinamento. Anche quello nazista le cui rationes riemergono costantemente anche in contesti diversi rispetto a quello del Terzo Reich[6].
Appellarsi alla sovranità significa, quindi, invocare come fonte del diritto l’irrazionalità. Rousseau, soprattutto, pose le premesse per considerare l’effettività come razionalità (stat pro ratione voluntas) ed Hegel ha (erroneamente) affermato che l’effettività – l’effettività sociologica – è razionalità[7]. Chi, come Alfredo Mantovano, attuale Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, intende (come, del resto, anche il Ministro Carlo Nordio) porre rimedio alla deriva giurisdizionale dell’attuale magistratura, invocando la sovranità popolare, commette - a nostro avviso – un grave errore: la sovranità popolare, infatti, eretta a base del rispetto del pubblico potere[8] non equivale all’invocazione del diritto (nell’ipotesi migliore può essere invocazione della contingente legalità). La sovranità, infatti, segna il ricorso a un potere volubile e non consente di trovare né il canone del rispetto dei cittadini né la legittimità delle regole. La sua invocazione significa, pertanto, trasformare il pubblico potere e il potere giudiziario in occasionale strumento subordinato alla cieca volontà, cioè a una volontà non guidata dalla ragione se non sotto l’aspetto operativo, quella che già Hobbes definì lapidariamente razionalità come calcolo.
Anche la giurisdizione diventa, così, arbitraria, esercizio di un pubblico potere conforme alle prescrizioni di un ordinamento contingentemente ispirato alla provvisoria volontà del sovrano, sia esso lo Stato sia esso il popolo, rectius la maggioranza degli elettori. La giustizia postula altre premesse e altre scelte. I magistrati non possono e non debbono essere considerati «enzimi» del potere (l’osservazione/rilievo è di Marino Gentile). In altre parole non possono diventare perfetti e ciechi esecutori (e, in quanto tali, particolarmente apprezzati: Togliatti – l’aneddoto è significativo – allorché fu Ministro di Grazia e Giustizia, scelse come Capo di Gabinetto il «giurista» Gaetano Azzariti, già Presidente del Tribunale della razza al tempo del fascismo e, successivamente giudice e presidente della Corte costituzionale di area democristiana, proprio per questo). L’indipendenza della magistratura richiede esecuzioni ragionevoli, applicazione di regole legittime (vale a dire di una legalità legittimata dalla razionalità, intesa come contemplazione del diritto, non dal potere).
Per quel che riguarda la sovranità c’è da aggiungere almeno un’ulteriore osservazione. L’on. Mantovano dichiara che essa non è (almeno «per noi», cioè per lui) un concetto superato ma la base del rispetto che il potere pubblico deve ai cittadini. A parte che ciò potrebbe (forse) valere per chi accetta presupposti e dogmi della Modernità giuridica, si deve osservare che la sovranità popolare di cui all’art. 1 Cost. ha valore formalistico, di facciata. Non è reale. Ciò sin dai tempi della Costituente. Basterebbe leggere per rendersene conto (e, quindi, convincersi della validità dell’affermazione) il Trattato di pace di Parigi del 1947. La prova, poi, era data dal fatto che i cittadini degli U. S. A. potevano entrare in Italia senza passaporto mentre i cittadini italiani che andavano negli U. S. A. dovevano esibirlo. Forse anche le «basi» militari americane su suolo italiano dicono qualcosa a questo proposito.
Nel tempo anche il residuo di sovranità apparente ha subito una sostanziale evoluzione, per non dire la sua evizione[9]. La volontà del popolo quanto conta effettivamente in presenza delle «Raccomandazioni» dell’Unione Europea? Le deliberazioni della Commissione trovano forse formale e sostanziale approvazione da parte dei popoli «sovrani» degli Stati membri dell’Unione?
Il «concetto» di sovranità, nei fatti, non è più quello condiviso nell’immediato secondo dopoguerra. Le procedure previste e gli artifici elaborati hanno svuotato sostanzialmente anche quello che Mantovano chiama «concetto» di sovranità ancora tralaticiamente insegnato nelle (ex) Facoltà di Giurisprudenza e di Scienze Politiche.
Non è il caso di soffermarsi ulteriormente sulla questione. Basta aver accennato al problema; a un problema che è simultaneamente politico e giuridico e che rileva sia per l’ermeneutica della Legge fondamentale della Repubblica sia per il superamento dei conflitti istituzionali in atto.
La seconda questione alla quale è opportuno accennare è quella del cosiddetto «equilibrio dei poteri», che dovrebbe essere conseguenza della loro divisione. È un problema posto e astrattamente (propriamente parlando si dovrebbe dire «illusoriamente») risolto da Montesquieu. Certamente ogni potere ha un proprio ruolo che deriva dalla sua funzione. La divisione dei ruoli, però, non è divisione dei poteri. Il potere, se è potere, è indivisibile. La teoria di Montesquieu, che risponde a una necessità del pensiero politico protestante, serve a e cerca di legittimare ciò che dovrebbe trovare legittimazione altrove. L’astratta divisione, infatti, non legittima l’esercizio del potere, Le teorie politiche protestanti fanno ricorso a tal fine alla divisione perché non riescono ad andare «oltre» il potere come mero dominio effettivo. Esse non riescono a cogliere la distinzione reale fra potere e potestas (potere intrinsecamente ordinato al proprio fine e il cui esercizio è legittimato dalla sua qualificazione). Ci può essere, pertanto, una pluralità di poteri, ognuno dei quali esercita la propria funzione. Essi, però, debbono essere orientati, in virtù della loro stessa funzione, al conseguimento del bene comune, il quale è il bene proprio di ogni uomo in quanto uomo e, perciò, bene comune a tutti gli uomini.
Anche in presenza della divisione dei poteri, teorizzata da Montesquieu ma non riconducibile alle premesse del suo pensiero, si deve osservare che il potere legislativo è chiamato a legiferare nel rispetto del diritto, inteso come determinazione della giustizia. La legge, infatti, è partecipazione del diritto, non fonte di esso. Il potere esecutivo è chiamato a far rispettare innanzitutto l’ordinamento giuridico e, perciò, esercita una funzione che è condizione per il conseguimento del bene comune. Il potere giudiziario è chiamato a giudicare se e in quale misura chi non rispetta l’ordine della giustizia, essendone tenuto anche sulla base di una norma positiva, è colpevole e, in caso di controversie civili, se è tenuto a rispettare le obbligazioni naturali e contrattuali contratte.
I tre poteri, pur nella loro distinzione dei ruoli, convergono verso un unico fine, che è il fine naturale della comunità politica.
Non si tratta, quindi, di bilanciamenti o di equilibri. Si tratta piuttosto di funzioni distinte ma convergenti verso lo stesso fine.
Non si risolve, pertanto, il problema, attualmente posto sul tavolo dalla magistratura, invocando un equilibrio saltato da tempo (si pensi, per esempio, al potere legislativo usato, si pure in maniera condizionata, dall’esecutivo o al potere esercitato dal potere giudiziario nella stagione di «Mani pulite»). Il problema va affrontato e possibilmente risolto abbandonando una teoria che si è rivelata inadeguata: errare humanum est, perseverare diabolicum. Ciò vale anche per le questioni ordinamentali relative alle istituzioni e al diritto pubblico.
La terza questione riguarda la statualità del diritto e il suo rilievo per quel che concerne l’indipendenza della magistratura. La statualità è ritenuta caratteristica essenziale del diritto. Quasi tutti i Manuali di Diritto civile «insegnano» sin dalle prime pagine che accanto all’alterità e all’obbligatorietà il diritto è caratterizzato, ancor prima, dalla statualità. Il che significa che «padre» del diritto è lo Stato. Da ciò è derivata, fra l’altro, l’esigenza dell’insegnamento di Dottrina dello Stato nelle Università per comprendere – si dice - nelle sue premesse l’ordinamento giuridico. È la conseguenza della dottrina politica contrattualistica, la quale – coerentemente anche se assurdamente – ha portato a ritenere che dallo Stato tutto derivi e che la sua volontà (che si «legge» nelle norme) sia la fonte della legittimazione del suo ordinamento; anzi, si è sostenuto che lo Stato sarebbe il suo ordinamento: è l’applicazione, in ultima analisi, della dottrina della sovranità come supremazia. Ne deriverebbe che il magistrato sarebbe un servitore dello Stato. Esso, per essere tale, dovrebbe condividere ed applicare tutte le norme poste, anche quelle in sé inique e tali successivamente considerate anche positivisticamente, la cui applicazione potrebbe portare (come in taluni casi ha portato) all’incriminazione per crimini contro l’umanità[10].
La teoria politica contrattualistica è considerata attualmente insostenibile, come l’assoluta statualità del diritto. Ciò, se si resta entro la cultura della Modernità giuridica benché applicata nella sua forma debole (cioè come Postmodernità), rende incerta la collocazione del magistrato: da una parte, infatti, lo priva dei vecchi punti di riferimento e, dall’altra, gli consente l’esercizio di poteri che potrebbero sfociare persino nell’arbitrarietà. La «scelta» delle fonti per costruire la disposizione normativa, innanzitutto, gli consente talvolta una «lettura» ideologica del diritto e dei diritti (si pensi, per esempio, a quanto avvenuto e tuttora avviene in materia di fine vita, in particolare a quanto è avvenuto nel caso di Eluana Englaro). La funzione del magistrato subisce una trasformazione: il potere giudiziario si fa, così, di fatto e necessariamente potere politico. E questo è il nocciolo dell’attuale questione riguardante l’indipendenza (erroneamente interpretata) della magistratura.
Su queste questioni, come anticipato all’inizio, riprenderemo il discorso. È necessaria, infatti, l’analisi di altri aspetti del problema. Quello, comunque, che si può e si deve dire è che l’attuale sistema della divisione dei poteri è in crisi, in crisi profonda. La conflittualità tra essi instauratasi è, sotto taluni aspetti, provvidenziale. Essa, infatti, costringe a riflettere e a ripensare l’intero sistema. Essa, quindi, impone considerazioni approfondite e scelte radicalmente diverse rispetto a quelle attuali per evitare, da una parte, di ridurre il magistrato a cieco strumento (passivo di decisioni irrazionali) e, dall’altra, per impedirgli di ergersi a sovrano (nel senso sopra precisato) del diritto che, invece, è chiamato a servire applicandolo.
[1] La sua validità è resa maggiormente evidente se la legge positiva è, come dovrebbe essere, giusta, vale a dire se essa partecipa effettivamente del diritto, inteso a sua volta quale determinazione della giustizia. Si debbono nutrire dubbi sul fatto che il legislatore italiano del 1942 abbia inteso, con l’art. 12 delle preleggi premesse al Codice civile, prescrivere quanto ha prescritto ritenendo che la legge positiva debba essere giusta. Si deve propendere, al contrario, per una sua scelta positivistica. Tuttavia, il Codice civile italiano del 1942 non ha ignorato il fondamento metaordinamentale di molte sue norme. Ciò, nonostante che abbia eretto, equivocamente, la legge (positiva) a fonte del diritto unitamente ai regolamenti, alle norme corporative e agli usi.
[2] Basterà citare un solo nome: quello di Norberto Bobbio che affermò che l’ordinamento giuridico è un insieme coerente di norme.
[3] Gustavo Zagrebelsky, per esempio, sostenne che la norma posta è il materiale per costruire la prescrizione, non è la prescrizione in sé. La prescrizione, pertanto, è il prodotto dell’ermeneutica, spesso dell’ermeneutica del singolo giudice e/o del particolare Collegio giudicante.
[4] Cfr., per esempio, Sentenza n. 73/2001.
[5] L’on. Matteo Salvini, come molti altri, continua a ripetere questo slogan.
[6] Riemergono anche in regimi definiti formalmente democratici. Basterebbe pensare, per esempio, a quanto avvenuto in diversi Paesi, soprattutto però in Italia, in presenza della pandemia da Covid-19.
[7] Nell’opera della sua maturità Lineamenti di filosofia del diritto Hegel lo afferma apertis verbis sin dalla Premessa.
[8] L’on. Alfredo Mantovano, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario del Consiglio Nazionale Forense, ha usato le seguenti parole: «Ma la nostra Repubblica deve continuare a preservare il suo fondamento. Per noi la sovranità popolare non è un concetto superato, è la base del rispetto che il potere pubblico deve ai cittadini. Ed è anche il fondamento della vincolabilità delle regole che ai cittadini viene chiesto di rispettare» (cfr. «La Verità», Milano, 8 aprile 2025).
[9] L’annullamento dei risultati elettorali, avvenuto recentemente in alcuni Paesi aderenti all’Unione Europea per decisione dell’Unione Europea, ne è la prova.
[10] L’istituzione e l’operato del Tribunale di Norimberga rende evidente e prova quanto si è affermato.