Il giudizio di responsabilità disciplinare dei magistrati: inopponibilità della transazione in precedenza intervenuta tra lo Stato ed il privato

Il giudizio di responsabilità disciplinare dei magistrati: inopponibilità della transazione in precedenza intervenuta tra lo Stato ed il privato
Abstract: L’art. 7 comma 2 della Legge 117/1988 – come modificato dall’art. 4 della Legge 18/2015 – prevede che la transazione intervenuta tra il privato, che riteneva di essere stato leso illegittimamente da un provvedimento del Giudice, e lo Stato, che è chiamato dalla legge (art. 2 comma 1 della Legge 117/88) ad agire in qualità di rappresentante processuale e sostanziale del Giudice stesso, non è opponibile nel giudizio vertente sulla responsabilità disciplinare di quest’ultimo, e quindi non può essere invocata allo scopo di attenuare oppure eliminare tale responsabilità. Tuttavia, questa inopponibilità non dovrebbe operare nel caso in cui il privato abbia scelto di addivenire a transazione con lo Stato in quanto temeva che una sua eventuale domanda giudiziale di tipo risarcitorio avverso quest’ultimo potesse essere dichiarata come infondata. In tal caso, la consapevolezza, da parte del privato stesso, della (probabile) infondatezza di tale domanda, ha comportato un parziale riconoscimento, ad opera del medesimo, della correttezza e dell’imparzialità della sentenza emessa dal Giudice, e quindi dovrebbe implicare la possibilità per quest’ultimo di invocare a propria tutela, nel giudizio disciplinare che lo riguarda, la transazione sopra citata.
Article 7, paragraph 2 of Law 117/1988 – as amended by Article 4 of Law 18/2015 – provides that the transaction between the private individual, who believed he had been unlawfully harmed by a decision of the Judge, and the State, which is required by law (Article 2, paragraph 1 of Law 117/88) to act as procedural and substantial representative of the Judge himself, is not opposable in the judgment concerning the disciplinary liability of the latter, and therefore cannot be invoked for the purpose of mitigating or eliminating such liability. However, this non-opposability should not apply in the case in which the private individual chose to reach a transaction with the State because he feared that any legal claim for compensation against the latter could be declared unfounded. In this case, the awareness, on the part of the private individual himself, of the (probable) groundlessness of such a request, has led to a partial recognition, by the same, of the correctness and impartiality of the sentence issued by the Judge, and therefore should imply the possibility for the latter to invoke, for his own protection, in the disciplinary judgment concerning him, the above-mentioned transaction.
La Legge n. 117 del 13.04.1988 – Risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati – all’art. 2 comma 1 prevede che “chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali”. Quindi, chi lamenta di aver subìto un danno da una sentenza, non può agire contro il singolo magistrato: deve agire contro lo Stato.
La Legge 18 del 27.02.2015 – “Disciplina della responsabilità civile dei magistrati” (di seguito “Legge”) – nel modificare l’art. 7 della Legge n. 117/88, all’art. 4 comma stabilisce quanto segue: “in nessun caso la transazione è opponibile al magistrato … nel giudizio disciplinare”.
Ai sensi dell’art. 1965 c.c., “la transazione è il contratto col quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già incominciata”. Essa, quindi, è caratterizzata dal fatto che la parte, la quale ritiene di avere il diritto ad una determinata prestazione, rinuncia (“concessione”) ad esigere l’adempimento totale della medesima, accontentandosi di un’esecuzione parziale della stessa. Nel caso di cui all’art. 4 comma 2 della Legge, la transazione è quella che è stata conclusa tra il privato, il quale ritiene che la sentenza emessa dal Giudice abbia illegittimamente leso un proprio diritto, e lo Stato. Ebbene, in base all’art. 4 comma 2, Il Giudice, convenuto nel giudizio di responsabilità disciplinare, non può opporre al magistrato, il quale dovrà decidere in merito a tale responsabilità, il fatto che il privato, che lamentava di aver subìto ad opera dello stesso Giudice la lesione di un proprio diritto, abbia deciso, anziché di proporre un’azione giudiziale contro lo Stato, di addivenire con quest’ultimo ad una transazione, pertanto rinunciando a far valere una parte delle proprie pretese risarcitorie ed accontentandosi di ottenere un risarcimento solo parziale.
Il fatto che il privato, scegliendo di concludere con lo Stato una transazione, abbia ritenuto sufficiente, per la propria tutela, un soddisfacimento solo parziale, non elimina l’antigiuridicità della sentenza che il Giudice aveva emesso nei suoi confronti, e quindi non preclude, al CSM od agli altri organi a ciò deputati, di esercitare l’azione disciplinare. Ciò in quanto la responsabilità del Giudice sotto il profilo disciplinare prescinde dalla lesione apportata alla sfera giuridica della parte illegittimamente condannata con la sentenza da egli emessa (oppure della parte la quale si è vista, sempre illegittimamente, denegare una richiesta invece legittima), e trova, invece, la sua ragion d’essere nel semplice fatto che la pronuncia ha “violato la legge”, della cui fedele attuazione il Giudice stesso deve essere supremo garante. Se la suddetta responsabilità dipendesse dall’accertamento del danno recato alle ragioni del privato, allora dovrebbe essere previsto che la transazione conclusa con quest’ultimo sia opponibile anche nel giudizio sopra citato, cosa che invece l’art. 4 comma 2 della Legge esclude.
Ci si chiede se il principio sancito dall’art. 4 comma 2 sia legittimo.
Un motivo di legittimità potrebbe essere rinvenuto nell’art. 6 comma 2 della Legge 117/88, il quale prevede che “la decisione pronunciata nel giudizio promosso contro lo Stato … non fa stato nel procedimento disciplinare”. La sentenza con la quale il magistrato abbia condannato lo Stato a risarcire al privato il danno causato dalla decisione giudiziale, non produce effetto nel giudizio disciplinare: pertanto, quest’ultimo potrebbe anche concludersi con una “non sanzione”. Nonostante che un magistrato abbia riconosciuto l’errore commesso dal Giudice, imputando a quest’ultimo la responsabilità risarcitoria, tale imputazione non condiziona l’esito del procedimento disciplinare, il quale, quindi, potrebbe anche concludersi con un verdetto di non colpevolezza.
L’osservazione da fare è quindi la seguente: se nel giudizio disciplinare non ha efficacia la sentenza con la quale la responsabilità del Giudice sia stata riconosciuta (con conseguente condanna dello Stato a pagare), allora, per un principio di parità di trattamento, nel medesimo giudizio non dovrebbe assumere alcuna rilevanza neanche il fatto che il privato, addivenendo a transazione con lo Stato, abbia deciso di rinunciare ad una parte delle proprie pretese risarcitorie, accontentandosi di ottenere solo una parte della somma da egli teoricamente conseguibile mediante un’azione giudiziale. Se nel giudizio disciplinare è irrilevante la sentenza di condanna dello Stato (e quindi del Giudice) al risarcimento del danno in favore del privato, nello stesso giudizio dovrà considerarsi irrilevante anche l’atto di autonomia privata (transazione) con cui il privato stesso abbia deciso di rinunciare parzialmente alla pretesa risarcitoria.
Inoltre, a comprova dell’autonomia del giudizio disciplinare rispetto al giudizio promosso dal privato contro lo Stato, depone anche l’art. 9 comma 3 della sopra citata Legge, il quale stabilisce che “la disposizione di cui all'articolo 2, che circoscrive la rilevanza della colpa ai casi di colpa grave ivi previsti, non si applica nel giudizio disciplinare”. Tale giudizio, pertanto, può essere attivato anche laddove la colpa del Giudice sia stata riconosciuta, al termine del giudizio promosso dal privato, come “lieve”. Siccome, ai sensi dell’art. 2, il privato può agire contro lo Stato soltanto nel caso di colpa grave del Giudice, questo significa che il giudizio disciplinare è autonomo rispetto all’azione giudiziale esercitata dal privato e quindi all’eventuale sentenza di condanna pronunciata a carico del Giudice stesso. Di conseguenza, il giudizio disciplinare dovrebbe essere considerato come autonomo anche rispetto all’eventuale transazione che il privato abbia scelto di sottoscrivere con lo Stato in sostituzione della suddetta azione.
Tuttavia, l’art. 9 comma 1 della stessa Legge 117/88 prevede che “il procuratore generale presso la Corte di cassazione per i magistrati ordinari o il titolare dell'azione disciplinare negli altri casi devono esercitare l'azione disciplinare nei confronti del magistrato per i fatti che hanno dato causa all'azione di risarcimento…”. L’azione sopra citata deve essere obbligatoriamente esercitata nel caso in cui il privato abbia esercitato l’azione risarcitoria contro lo Stato. Quindi, da un lato (art. 6 comma 2), la sentenza di condanna al risarcimento non produce effetti nel giudizio disciplinare e pertanto non condiziona l’esito di quest’ultimo, ma, dall’altro lato (art. 9), l’azione disciplinare “deve” essere esercitata, quindi senza alcun margine di discrezionalità, quando la causa risarcitoria sia stata promossa, e cioè prima ancora che si sia arrivati ad una pronuncia di condanna.
Appare, pertanto, esservi una contraddizione tra le due norme: se si stabilisce che “la decisione pronunciata nel giudizio promosso contro lo Stato … non fa stato nel procedimento disciplinare”, allora, per coerenza, si dovrebbe prevedere che l’azione disciplinare possa essere esercitata a prescindere dal fatto che il privato abbia proposto una domanda giudiziale risarcitoria, nel senso che la proposizione di quest’ultima non dovrebbe costituire il presupposto dell’attivarsi del procedimento disciplinare.
Chiarita la contraddittorietà di fondo della disciplina dettata dalla Legge 117/88 in materia di giudizio disciplinare, appare opportuno concentrare l’attenzione sull’art. 28 Costituzione, a norma del quale “i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti”. Parrebbe dunque che la responsabilità dei dipendenti pubblici sia individuabile solo laddove l’agire di questi ultimi abbia comportato una lesione dei diritti del privato: un atto il quale, pur essendo stato adottato illegittimamente, non abbia determinato tale lesione, non può essere considerato come idoneo a fondare un giudizio di responsabilità.
Vi può essere un atto “illegittimo” il quale tuttavia non abbia determinato la lesione di alcun diritto del privato giuridicamente riconosciuto? Una fattispecie di tal genere potrebbe essere quella prevista dall’art. 21 octies della Legge 241/90, il quale stabilisce che non si può annullare un atto adottato in violazione delle norme sul procedimento o sulla forma degli atti, e quindi posto in essere illegittimamente, se viene accertato che comunque il privato non aveva alcun diritto in merito, e che quindi “il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello adottato”. Ma, nella generalità dei casi, la violazione di un diritto è sempre diretta conseguenza di un atto illegittimo: il “diritto” è un bene che la legge riconosce in capo al privato; un “atto illegittimo”, ossia adottato contro tale legge, non potrà che generare una “violazione” del diritto stesso.
Ciò premesso, le “leggi amministrative” di cui parla l’art. 28 Cost. sono non soltanto quelle che regolano il rapporto tra il dipendente pubblico ed il privato cittadino al momento in cui si instaura il procedimento amministrativo, ma anche quelle che disciplinano il rapporto tra il dipendente stesso e la PA per conto della quale egli opera. Altrimenti, non si capirebbe perché tali leggi vengano tenute distinte da quelle “civili”: un conto è la “legge civile”, che disciplina il rapporto tra il dipendente ed il privato esterno alla PA, un altro conto è la “legge amministrativa”, che disciplina (anche) il rapporto di lavoro pubblico che lega il dipendente alla stessa PA. Tale è, per eccellenza, il Codice di Comportamento dei Dipendenti Pubblici. Ma del resto, la stessa Legge 241/90, anche se detta “Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi” e quindi disciplina il rapporto tra la PA ed il privato, prevede comunque profili di responsabilità disciplinare del dipendente pubblico il quale abbia violato alcune delle disposizioni ivi previste: p.es. la mancata o tardiva emanazione del provvedimento (art. 2). Quindi, si può fondatamente ritenere che l’art. 28 Cost., quando parla di “leggi amministrative”, faccia riferimento (anche) a quelle che regolano la responsabilità disciplinare del dipendente pubblico. Di conseguenza, tale responsabilità si configura solo nel caso in cui il dipendente abbia violato dei “diritti”.
Allora la domanda è: tale responsabilità sussiste solo nel caso in cui la lesione stia ancora producendo i suoi effetti, e cioè quando il privato non è stato ancora reintegrato, neanche in parte, nei diritti lesi, oppure anche nel caso in cui sia avvenuta una reintegrazione quanto meno parziale negli stessi, il che p. es. può avvenire appunto quando, a seguito di una transazione intervenuta tra il dipendente pubblico ed il privato, quest’ultimo sia riuscito, pur rinunciando ad una parte delle proprie pretese (vedi reciprocità delle concessioni ex art. 1965 c.c.), ad ottenere un parziale ristoro del danno subìto? Questo parziale ristoro è tale da “eliminare” la violazione del diritto da egli vantato, e quindi da escludere, ex art. 28 Cost., un giudizio di responsabilità disciplinare del dipendente pubblico?
La decisione di addivenire ad una transazione è quasi sempre, verosimilmente, dettata dalla constatazione della difficoltà di conseguire, per le vie ordinarie e cioè intentando una causa, ciò che spetterebbe per legge. Questa difficoltà può essere legata o alla lunghezza dei tempi previsti per la decisione giudiziale oppure al timore che un’eventuale domanda giudiziale possa anche non essere accolta o possa essere accolta solo in parte.
Esaminiamo i due casi.
Nel primo caso, chi addiviene a transazione lo fa non perché non ritenga giuridicamente fondata la propria pretesa, ma solo perché teme che i tempi ordinariamente occorrenti per la decisione giudiziale non gli consentano di ricevere un soddisfacimento equo ed “efficace”, laddove l’efficacia nella tutela giudiziale dei diritti si misura anzitutto proprio dalla celerità con la quale la lesione degli stessi viene accertata. Ebbene, in questo caso, la transazione è stata stipulata dal privato soltanto allo scopo di “accelerare” la reintegrazione nei propri diritti, anche se ciò comporta delle rinunce (“concessioni”), ma, proprio per questo, essa non dovrebbe essere ritenuta idonea a “cancellare” la violazione del diritto subìta, la quale, al contrario, resta intatta in tutta la sua antigiuridicità. Pertanto, in tal caso, se il dipendente pubblico è il Giudice, l’operatività dell’art. 4 comma 2 – ossia il principio in base al quale la transazione che il privato abbia concluso con lo Stato non è opponibile al magistrato che dovrà decidere sull’azione disciplinare – è giustificata dal fatto che il diritto del privato deve considerarsi essere stato comunque leso dall’errore del Giudice, nonostante che il privato stesso abbia deciso di addivenire alla suddetta transazione: quest’ultima, infatti, lo si ripete, è stata conclusa non per il timore che un’ipotetica domanda giudiziale venisse respinta, ma solo ed unicamente per accelerare la tutela dei propri diritti.
Nel secondo caso, invece, il privato che addiviene a transazione, non è così “sicuro” del fatto che sia stato violato un suo “diritto”, ossia un qualcosa che gli spetta “senza se” e “senza ma”, e quindi è egli per primo a riconoscere che probabilmente tale “violazione” non si è verificata oppure che si è verificata solo marginalmente. In tale ipotesi, egli sceglie lo strumento della transazione proprio per evitare il rischio di incorrere in un (assai probabile) diniego giudiziale della pretesa da egli vantata e quindi in un “disconoscimento” della (presunta) violazione sopra citata. La responsabilità disciplinare del dipendente pubblico trova la sua ratio nell’inosservanza delle norme poste a presidio della trasparenza, correttezza ed efficacia dell’agire amministrativo (art. 1 della Legge 241/90), ossia di valori che consistono non soltanto nell’obbligo di astenersi dall’adozione di atti i quali siano illegittimamente ampliativi della sfera giuridica del privato, ma anche nel divieto di adottare atti che siano illegittimamente restrittivi della medesima in quanto lesivi di quello che è un “diritto” a tutti gli effetti riconosciuto dalla legge.
Ma l’entità della lesione di tale diritto è data anche dal modo che il privato sceglie per chiedere la rimozione della lesione stessa: l’unità di misura di tale entità è rappresentata dall’interesse ad agire giudizialmente ex art. 100 c.p.c. .
Egli, scegliendo di addivenire ad una transazione con il dipendente pubblico, non soltanto rinuncia ad esercitare l’azione giudiziale (oppure, nel caso di transazione intervenuta nel corso del giudizio, rinuncia a proseguire la medesima azione), ma compie questa scelta perché teme che un’eventuale sua domanda giudiziale (oppure, nel caso di transazione intervenuta nel corso del giudizio, la continuazione di quest’ultimo), volta ad ottenere la suddetta rimozione o quanto meno un rimedio riparatore, possa essere ritenuta infondata, con tanto di condanna alle spese, e quindi lo fa per “convenienza”. Pertanto, così facendo, implicitamente riconosce che l’operato del Giudice non ha violato un suo “diritto”, o quanto meno non lo ha violato “manifestamente”, poiché il fondamento di quest’ultimo non era poi così “certo”.
Quindi, la consapevolezza, da parte del privato, della (probabile) infondatezza della violazione del diritto da egli lamentata, dovrebbe comportare il venir meno dei presupposti per l’attivazione di un giudizio di responsabilità nei confronti del dipendente. Di conseguenza, in tale ipotesi, quando il dipendente pubblico è il Giudice, dovrebbe trovare applicazione il principio contrario a quello stabilito dall’art. 4 comma 2, e cioè dovrebbe essere previsto che la transazione possa essere opposta dal Giudice nel giudizio disciplinare che lo riguarda.
Ma come si fa a distinguere tra i due casi? Si tratterebbe di fare un’analisi psicologica del motivo per il quale il privato, pur ritenendo di essere stato leso (“violazione di un diritto”) dall’atto adottato dal dipendente pubblico, abbia deciso, anziché di tutelarsi giudizialmente, di fare una transazione con lo stesso dipendente, accontentandosi di ricevere una reintegrazione solo parziale (reciprocità delle concessioni) nei propri diritti. Per esempio, un criterio potrebbe essere quello di esaminare quella che è stata “tutta” la vicenda relativa al rapporto instauratosi tra il privato ed il dipendente pubblico, e vedere se, nell’ambito del procedimento amministrativo, vi sia stata, da parte del primo, una “ammissione di responsabilità” o comunque un “parziale riconoscimento” della fondatezza delle ragioni addotte dal dipendente nella comunicazione del preavviso di rigetto dell’istanza, disciplinato dall’art. 10 bis della Legge 241/90. In tali casi, anche se poi il provvedimento finale è stato ritenuto dal privato quale lesivo di un suo “diritto”, la transazione successivamente intervenuta potrebbe essere qualificata come idonea ad eliminare la violazione del diritto stesso, e quindi ad escludere un giudizio di responsabilità disciplinare del dipendente.
Il problema, però, è che, quando il dipendente pubblico è un Giudice, non c’è un “preavviso di rigetto dell’istanza”: la responsabilità del Giudice è stata originata da una sentenza, e quindi da un procedimento, quello giudiziale, che non conosce l’istituto del “preavviso di rigetto”. Allora, in questo caso, per poter escludere la responsabilità disciplinare del Giudice, bisognerebbe che il privato, prima di addivenire alla transazione con lo Stato, abbia assunto, nel procedimento giudiziale poi conclusosi con la sentenza asseritamente lesiva di un proprio “diritto”, un comportamento talvolta remissivo o comunque non improntato ad una difesa “decisa” delle proprie ragioni: p. es. il fatto che egli non abbia replicato punto per punto a tutte le difese articolate dalla controparte, incentrando la propria tesi difensiva solo su un determinato motivo, oppure che abbia omesso di depositare un documento che si sarebbe rivelato utile al fine di ottenere una pronuncia favorevole. In questo caso, la consapevolezza, da parte del privato, del deficit di strategia difensiva da egli adottata nel procedimento giudiziale, lo ha spinto a concludere con lo Stato una transazione, anziché ad intraprendere contro il medesimo un’azione giudiziale mirante alla condanna al risarcimento del danno. Ebbene, in questo caso, la suddetta transazione, contrariamente a quanto previsto dall’art. 4 comma 2, dovrebbe poter essere opposta dal Giudice nel giudizio disciplinare che lo riguarda.