Giudice Tributario e decisione assunta in via di equità sostitutiva: tesi a confronto

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Giudice Tributario e decisione assunta in via di equità sostitutiva: tesi a confronto
 

ABSTRACT

In merito al potere del Giudice Tributario di decidere in via di equità sostitutiva, si possono delineare due orientamenti: il primo, fatto proprio dalla Cassazione Sezione Tributaria nell’ordinanza interlocutoria n. 15547 dell’11.06.2025, secondo cui tale potere, non essendo previsto da nessuna normativa tributaria, né processuale né sostanziale, deve ritenersi insussistente; il secondo, in base al quale il suddetto potere deve, invece, considerarsi sussistente alla luce di quanto previsto dall’art. 101 Costituzione e dagli artt. 12 delle Preleggi e 1418 c.c. .

With regard to the power of the Tax Judge to decide by way of substitute equity, two orientations can be outlined: the first, endorsed by the Cassation Tax Section in the interlocutory order no. 15547 of 11.06.2025, according to which such power, not being provided for by any tax legislation, neither procedural nor substantive, must be considered non-existent; the second, according to which the aforementioned power must, instead, be considered existent in light of the provisions of art. 101 of the Constitution and of arts. 12 of the Preliminary Provisions and 1418 of the Civil Code.

L’art. 17 del D.lgs. 346/1990 (di seguito “D.lgs.”), nel disciplinare la base imponibile delle rendite vitalizie, stabiliva, prima delle modifiche apportate dal D.lgs. n. 139 del 18.09.2024 (art. 1), che tale base era costituita “dal valore che si si ottiene moltiplicando l'annualità per il coefficiente indicato per il coefficiente applicabile, secondo il prospetto allegato al testo unico sull'imposta di registro, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131”. Tale prospetto prevede che il coefficiente è tanto maggiore quanto minore è l’età del beneficiario.

A seguito delle suddette modifiche, ora l’art. 17 prevede che la base imponibile venga determinata dal “valore che si ottiene moltiplicando l'annualità per il coefficiente indicato nel prospetto allegato al presente testo unico, in relazione all'età della persona alla cui morte essa deve cessare” (comma 1 lett. C), laddove, per “presente testo unico” si intende lo stesso D.lgs. .  Anche in base al prospetto allegato al D.lgs., il coefficiente è tanto maggiore quanto minore è l’età del beneficiario: la ratio è che più quest’ultimo è giovane, più la sua aspettativa di vita è lunga, maggiore sarà il tempo per il quale egli potrà fruire della rendita, e quindi, in base al principio della capacità contributiva (art. 53 Cost.), la tassazione deve essere più alta.

Lo stesso art. 17 precisa poi che il suddetto prospetto viene variatoin ragione della modificazione della misura del saggio legale degli interessi” (comma 1 bis).

La Cassazione Sezione Tributaria è stata investita di un ricorso con il quale la contribuente, beneficiaria di una rendita vitalizia costituita mortis causa, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 17 comma 1 lett. C) del D.lgs., nella versione antecedente le modifiche, per violazione dell’art. 53 Cost., questione basata sul seguente motivo: se il coefficiente indicato nel prospetto deve subire una variazione in aumento in relazione alla diminuzione del tasso di interesse, è chiaro che la capacità contributiva viene ad essere falsata, perché il beneficiario, anche se è avanti con gli anni, viene a pagare un’aliquota più alta rispetto a quella prevista per la sua fascia d’età, ossia un’aliquota simile a quella che si applica ad un beneficiario più giovane.

In precedenza, la Commissione Tributaria Regionale, in parziale accoglimento del ricorso proposto dal contribuente, aveva disapplicato il decreto MEF del 21.12.2015, che individuava, per il relativo anno, nella misura dello 0,2 per cento l’interesse legale da applicarsi per la quantificazione della base imponibile della rendita vitalizia, affermando che il sistema di adeguamento dei coefficienti basati sul saggio legale di interesse riferito all’usufrutto vitalizio, se applicato alla rendita vitalizia, produceva un effetto distorsivo ed esorbitante, e, pertanto, ne aveva rideterminato il valore attraverso l’applicazione del tasso di interesse di cui al precedente decreto Mef del 23 dicembre 2013 (tasso pari all’1%).

Avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale aveva proposto ricorso l’Agenzia delle Entrate, ricorso basato essenzialmente sul seguente motivo:

l’art. 7 comma 5 del D.lgs. attribuisce al Giudice Tributario il potere di disapplicare un regolamento o un atto generale rilevante ai fini della decisione soltanto qualora lo ritenga “illegittimo”, e non anche nel caso in cui lo reputi “iniquo”, e ciò anche perché, a norma dell’art. 113 c.p.c., il Giudice deve decidere secondo diritto, “salvo che la legge gli attribuisca il potere di decidere secondo equità”: nel caso di cui all’art. 17, questo (“la legge”), nel prevedere la variazione del coefficiente in base all’aumento del saggio legale degli interessi, non fa salva alcuna facoltà del Giudice di decidere secondo equità, e quindi in modo diverso da quanto stabilito.

Il contribuente, con ricorso incidentale, non solo insisteva nel sollevare la suddetta questione di legittimità costituzionale dell’art. 17 del D.lgs. per contrasto con l’art. 53 Cost., ma deduceva quanto segue.

Anche il DPR 131/1986 – Testo Unico Imposta di Registro – contiene un prospetto dei coefficienti, che viene utilizzato per calcolare il valore dell'usufrutto e della rendita vitalizia e viene aggiornato periodicamente in relazione alla modifica del tasso legale degli interessi. Al momento del decesso della de cuius, avvenuto nell’anno 2016, tale prospetto è variato in ragione della misura del saggio legale degli interessi fissata allo 0,2

per cento. L’Agenzia delle Entrate, in base a questa variazione, ha determinato la base imponibile in una misura pari a 120 volte il valore annuo della rendita, laddove però il coefficiente di 120 è previsto soltanto per i beneficiari con fascia di età compresa tra i 57 – 60 anni, ragion per cui il beneficiario dovrebbe vivere 180 anni per percepire interamente la somma tassata. Di conseguenza, siccome la base imponibile dell’imposta sulle successioni dovrebbe essere rappresentata dal valore dei beni e diritti trasferiti al momento della successione, come stabilito dall’art. 8 del D.lgs., e dovrebbe riflettere l’arricchimento reale del beneficiario, l’applicazione della disciplina di cui al DPR è illegittima. E’ proprio questa la ragione per la quale la Commissione Tributaria Regionale ha applicato il d.m. 23.12.2013, il quale conduce all’applicazione di “valori più equi”.

La Cassazione Sezione Tributaria, pronunciandosi con l’ordinanza interlocutoria n. 15547 dell’11.06.2025, ha affermato quanto segue:

- in merito alla (presunta) facoltà del Giudice Tributario di decidere in via equitativa, “è indirizzo consolidato di legittimità (v. Cass.n.13726/2023; n. 10875/2022; n. 16960/2019 ed altre) che il giudice tributario non sia dotato di poteri di equità sostitutiva, dovendo fondare la propria decisione su giudizi estimativi di cui deve dar conto in motivazione in rapporto al materiale istruttorio conseguito, ma sempre nell’ambito di un giudizio in diritto, il che è del resto consono alla natura gius-pubblicistica ed imperativa del rapporto giuridico tributario”.

- in merito all’ulteriore motivo di ricorso proposto dal contribuente, relativo meccanismo di determinazione della base imponibile della rendita vitalizia, il ricorso deve comunque essere considerato come fondato, in quanto l’applicazione del coefficiente di 150, quale scaturita dall’applicazione del prospetto allegato al DPR 131/86 (in vigore prima della modifica apportata dal D.lgs. n. 139 del 18.09.2024), ha determinatouna base imponibile non corrispondente ad un valore economico reale, giacchè esige una sopravvivenza di 150 anni di una donna di 77 anni”. Essa evidenzia che “la salvaguardia dell’ambito di discrezionalità del legislatore non esime questa Corte dal dubitare della razionalità del metodo di calcolo, come dimostra anche il recente intervento legislativo del 2024 che ha voluto indicare una misura fissa del tasso di interesse per la determinazione del coefficiente proprio al fine di porre un limite alla lievitazione della base imponibile su cui calcolare l’imposta di successione (e quella di registro)”.

Per tale ragione, la Cassazione ha ritenuto “non manifestamente infondata in riferimento agli articoli 3 e 53 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 17 d.lgs. n. 346/1990 (nel testo applicabile ratione temporis), nella parte in cui, per il calcolo della base imponibile dell’imposta di successione, richiama il prospetto allegato al d.P.R. n. 131/1986, completato a sua volta dall’art. 3, comma 164, legge n. 662/1996 che àncora la variazione del coefficiente al variare del tasso di interesse, così determinando una base imponibile contraria al principio di realtà e produttiva di effetti praticamente confiscatori”.

In merito al potere del Giudice Tributario di decidere in via di equità sostitutiva, va osservato quanto segue.

Effettivamente non sembra esservi nel D.lgs., ossia nella normativa che disciplina il processo tributario, un principio in base al quale lo stesso Giudice possa, pronunciando in via equitativa, disapplicare una norma impositiva da egli reputata iniqua nei confronti del contribuente, a causa degli effetti che dalla stessa discendono.

Si potrebbe, in teoria, ritenere che il potere del Giudice tributario di decidere in via di equità sostitutiva possa essere fondato sulla facoltà, attribuita ad egli come ad ogni altro Giudice, di disporre la compensazione delle spese di giudizio. 

Egli, pur avendo confermato che, in base ad una norma di legge, il contribuente deve essere destinatario dell’atto impositivo adottato dall’ Amministrazione Finanziaria (di seguito “AF”) e/o che al medesimo deve essere applicata la sanzione da quest’ultima irrogata, stabilisce, in via equitativa e quindi secondo quello che è un suo apprezzamento discrezionale, che anche la stessa AF debba pagare una parte delle suddette spese in quanto, pure se l’atto (o la sanzione) sopra citati sono stati posti in essere in modo essenzialmente conforme al dettato normativo, vi sono ragioni di equità, le quali, sebbene non siano espressamente contemplate da nessuna disposizione, non possono non essere tenute presenti nella quantificazione degli oneri conseguenti all’attivazione del ricorso. Non è forse questo un caso in cui il Giudice applica un “proprio” criterio di giustizia, favorevole al contribuente e che non è previsto da nessuna norma?

Il Giudice, addebitando anche alla parte vittoriosa (AF) una quota delle spese di giudizio, modifica, in base ad un criterio equitativo ed a favore del contribuente, gli effetti di una pronuncia la quale a sua volta è stata emessa sulla base della norma impositiva (o sanzionatoria), evidentemente riconosciuta come pienamente legittima, e pertanto fa discendere da quest’ultima un effetto (parziale condanna dell’AF) diverso da quello che conseguirebbe naturalmente all’applicazione della medesima (ossia condanna esclusivamente a carico del contribuente).

Però un conto è l’equità consistente nel ripartire tra le parti in causa gli oneri conseguenti all’instaurazione del giudizio, un altro conto è l’equità consistente nel disapplicare una norma ritenuta iniqua bypassando quello che è lo strumento appositamente previsto dall’ordinamento a tal fine, ossia la declaratoria di incostituzionalità della norma stessa, e quindi sostituire la propria valutazione a quella fatta dal legislatore.

Un altro motivo sul quale potrebbe essere basato il potere di Giudice Tributario di decidere in via di equità sostitutiva, potrebbe rinvenirsi nell’art. 11 comma 1 lett. C) Statuto, il contribuente può rivolgere all’AF un’istanza di interpello volta ad ottenere la “disapplicazione di disposizioni tributarie che, per contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d'imposta, o altre posizioni soggettive del contribuente altrimenti ammesse dall'ordinamento tributario, fornendo la dimostrazione che nella particolare fattispecie tali effetti elusivi non possono verificarsi.” La disapplicazione di norme tributarie, le quali hanno un carattere impositivo o sanzionatorio e quindi un contenuto sfavorevole al contribuente, può essere disposta dall’AF, che è una PA, ossia un’Autorità la quale, in base al principio della separazione dei poteri, dovrebbe avere come unica attribuzione quella di applicare la norma, e non di disapplicarla. Se, nonostante tale principio, la PA, che è un potere subordinato a quello legislativo, può anche disapplicare una norma, allora lo stesso potere dovrebbe essere dato, a maggior ragione, al Giudice, che è un potere “terzo” rispetto a quello legislativo.

Però, quello dell’art. 11 Statuto è un caso un po' diverso da quello in esame perché riguarda una fattispecie nella quale la disapplicazione consiste non nel fatto che alla norma tributaria sfavorevole ne viene sostituita una favorevole, ma nel fatto che l’AF si trova dinanzi ad una situazione la quale, astrattamente e cioè ad una prima analisi, sembrerebbe rientrare nel perimetro della suddetta norma, ma che, per la particolarità del fatto che ne è oggetto, non è idoneo ad integrare “tutti” i presupposti previsti per l’applicazione di quest’ultima in quanto presenta degli elementi che ne sono estranei e che quindi non possono legittimare tale applicazione. Mentre nel caso di cui all’ordinanza in commento la fattispecie (rendita vitalizia) rientra pienamente nel campo di applicazione della norma (la tassazione di cui all’art. 17 del D.lgs.) e però, malgrado ciò, la Commissione Tributaria Regionale ha sostituito la propria valutazione (applicazione del D.M. 23.12.2013) alla norma (D.M. 21.12.2015) prevista per la fattispecie stessa e quindi è andata a disapplicare la norma nonostante che questa si attagliasse perfettamente alla situazione, nel caso ex art. 11 Statuto la fattispecie non rientra pienamente nel campo di applicazione della norma e quindi, proprio per questo, l’AF può disapplicare la stessa (anzi, a dire il vero, “dovrebbe” disapplicarla, perché, se non lo fa, emette un provvedimento viziato da eccesso di potere per travisamento del fatto).

Quella che potrebbe assumere una certa rilevanza al fine di considerare come legittima la decisione emessa dal Giudice Tributario in via di equità sostitutiva, è la norma contenuta nell’art. 10 Statuto, che, nel disciplinare la tutela dell’affidamento del contribuente, così dispone: limitatamente ai tributi unionali, non sono altresi' dovuti i tributi nel caso in cui gli orientamenti interpretativi dell'amministrazione finanziaria, conformi alla giurisprudenza unionale ovvero ad atti delle istituzioni unionali e che hanno indotto un legittimo affidamento nel contribuente, vengono successivamente modificati per effetto di un mutamento della predetta giurisprudenza o dei predetti atti.”

L’AF interpreta la norma tributaria conformemente non soltanto agli atti delle istituzioni unionali – atti che possono essere anche normativi – ma anche alla “giurisprudenza”: le decisioni di quest’ultima sono posti sullo stesso identico piano degli atti (normativi) sopra citati.

Bisogna però vedere se, quando si parla di “giurisprudenza”, si intenda solo l’interpretazione, da parte di quest’ultima, di norme le quali non vengono in alcun modo “sostituite” dalla sentenza, oppure anche una vera e propria sostituzione delle stesse con una decisione assunta in via equitativa.

L’equità sostitutiva, siccome determina la sostituzione dell’apprezzamento del Giudice alla valutazione fatta dal legislatore, comporta una vera e propria “deroga” alla norma tributaria.

L’art. 1 dello Statuto stabilisce che le disposizioni ivi contenute “possono essere derogate o modificate solo espressamente e mai da leggi speciali”. Lo Statuto contiene principi che sono posti fondamentalmente a tutela del contribuente (legittimo affidamento, ne bis in idem, proporzionalità, autotutela).  Ebbene, questi principi possono essere derogati, e quindi possono non essere applicati (con conseguente svantaggio per il contribuente), solo ove sia il legislatore a stabilire ciò. Qui il Giudice non può sostituirsi, mediante decisione in via equitativa, al legislatore nel derogare ai suddetti principi, e, in modo particolare, a quello di proporzionalità, che poi altro non è che l’espressione del principio costituzionale della capacità contributiva (art. 53 Cost.).

Ma il caso di cui all’ordinanza in commento è opposto: qui si tratta di una norma (l’art. 17 del D.l.gs., nella versione antecedente alla modifica apportata dal Decreto Legislativo n. 139/2024), la quale prevedeva l’applicazione di coefficienti (quelli di cui al DPR) che davano luogo ad una tassazione sproporzionata (in danno del contribuente) rispetto all’ammontare della rendita, ossia della prestazione contrattuale, e quindi la decisione equitativa del Giudice tributario (censurata dall’ordinanza in commento) era finalizzata a “derogare” non ad una norma stabilita a favore del contribuente (come nel caso delle norme contenute nello Statuto) bensì ad una norma prevista a sfavore del medesimo. Se nel primo caso (deroga ad una norma a favore) il principio, sancito dall’art. 1 dello Statuto, è quello per cui la norma può essere derogata solo dal legislatore, nel secondo caso (deroga ad una norma a sfavore, vedi decisione equitativa), che è opposto al primo, il principio non dovrebbe essere quello per cui la norma può essere derogata solo dal legislatore, in quanto in tal caso, attraverso la decisione del Giudice Tributario assunta in via di equità sostituiva, si deroga ad una norma che, al contrario di quelle statutarie, è sfavorevole al contribuente, e quindi non dovrebbe essere più il legislatore “l’unico” titolare del potere di deroga, potendo questo essere esercitato anche dal Giudice. L’equità sostitutiva, se non è ammessa nel caso (deroga di una norma posta a favore del contribuente) in cui la legge (art. 1 Statuto) stabilisce che l’applicazione di una norma diversa da quella stabilita per il caso di specie può essere disposta solo dal legislatore, dovrebbe, invece, ritenersi invece ammessa, proprio per questo motivo, nel diverso caso (deroga di una norma posta a sfavore del contribuente) in cui questa titolarità esclusiva del potere di deroga in capo al legislatore non sia espressamente prevista.

A ciò si aggiunga un’ulteriore considerazione.

La Cassazione, nonostante che ritenga come insussistente qualsivoglia potere del Giudice tributario di decidere secondo un criterio di equità sostitutiva della norma e che reputi come inattaccabile un decreto ministeriale il quale venga applicato in piena conformità ad una norma di legge, ha riconosciuto comunque come non manifestamente infondata in riferimento agli articoli 3 e 53 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 17 d.lgs. n. 346/1990 nella parte in cui, per il calcolo della base imponibile dell’imposta di successione, richiama il prospetto allegato al d.P.R. n. 131/1986, completato a sua volta dall’art. 3, comma 164, legge n. 662/1996 che àncora la variazione del coefficiente al variare del tasso di interesse, così determinando una base imponibile contraria al principio di realtà e produttiva di effetti praticamente confiscatori”.

Cosa significa “capacità contributiva” (art. 53 Cost.)? Significa che la tassazione elevata non può essere applicata a chi ha una bassa disponibilità di denaro, ma la domanda è questa: per tale “disponibilità” si deve intendere soltanto quella derivante dalla stipula del contratto (in tal caso, rendita vitalizia) che viene tassato, oppure anche quella costituita dal valore dei restanti beni ricompresi nel patrimonio del contribuente? Se si accoglie la seconda interpretazione, il contribuente, anche se beneficia di una rendita vitalizia bassa, e però ha comunque una disponibilità di beni che gli consentono di pagare l’imposta, non dovrebbe poter lamentare la violazione del principio di capacità contributiva. Se, invece, si accoglie la prima interpretazione, siccome il contribuente beneficia di una rendita vitalizia bassa, e siccome la capacità contributiva deve essere valutata esclusivamente in base al guadagno che si ottiene dal contratto sottoposto a tassazione, egli non può pagare un’imposta il cui importo superi in misura sproporzionata l’ammontare dell’utile contrattuale.

La questione di legittimità costituzionale posta dalla Cassazione ha ad oggetto il prospetto allegato al DPR 131/1986, il quale disciplina l’imposta di registro, ossia quella che si applica ai “contratti”. Di conseguenza, il concetto di capacità contributiva dovrebbe essere interpretato dalla Corte Costituzionale alla luce di un criterio di proporzionalità tra l’importo dell’imposta e l’ammontare della prestazione negoziale ricevuta, e non tra l’importo dell’imposta ed il “reddito complessivo” del beneficiario della prestazione.

Quindi, se l’applicazione del coefficiente previsto dal DPR conduce alla fissazione di un’imposta il cui valore eccede in modo sproporzionato l’importo della rendita, il principio della capacità contributiva dovrebbe considerarsi come violato.

La domanda che ci deve porre è essenzialmente questa: l’equità sostitutiva serve a supplire ad una lacuna normativa, oppure a sostituire la valutazione del Giudice a quella fatta dal legislatore?

L’art. 1374 c.c. prevede che il contratto obbliga le parti “a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o, in mancanza, secondo gli usi e l'equità”. Il riferimento alla “mancanza della legge” induce a ritenere che l’equità sostitutiva nasca essenzialmente per riempire una lacuna normativa, e non per consentire al Giudice di emettere una decisione in sostituzione di una norma giudicata iniqua.

L’art. 1384 c.c. prevede che una delle parti possa domandare la riduzione della penale stabilita a suo carico ove questa sia “manifestamente eccessiva”, e pertanto l’intervento equitativo è finalizzato a sostituire l’apprezzamento del Giudice a quella che è stata la pattuizione negoziale e non a quello che è il contenuto di una norma: vero è che il contratto “ha forza di legge tra le parti” (art. 1372 c.c.) però un conto è la “normativa negoziale”, ossia la disciplina che le parti hanno inteso dare al contratto esercitando l’autonomia (fissazione dell’ammontare della penale) ad esse lasciata dalla legge, un altro conto è la “disciplina stabilita dal legislatore” in riferimento al medesimo contratto.

Inoltre, a norma dell’art. 1 delle Preleggi, l’equità non è espressamente catalogata tra le “fonti del diritto”, a differenza degli usi.

L’equità, in ambito tributario, trova il suo riconoscimento nel principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., principio che quindi, proprio perché sancito dalla legge fondamentale, deve essere qualificato come “generale dell’ordinamento”.

L’art. 12 delle Preleggi prevede che la legge debba essere interpretata “secondo i princìpi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato” soltanto laddove la controversia non possa essere “decisa con una precisa disposizione”. Da ciò si desume che, in ambito tributario, una decisione in via di equità sostitutiva (“principio generale dell’ordinamento”) può essere adottata solo laddove la norma (disposizione) da applicare al caso di specie non sia “l’unica” applicabile, poiché la controversia si presta ad essere inquadrata anche in altre norme. Ma da dove deriva “l’unicità” di una norma? Dal fatto che questa ha valore imperativo, e cioè è tale da doversi applicare sempre e comunque, e quindi anche con prevalenza rispetto ad altre norme potenzialmente applicabili. Di conseguenza, nell’opposto caso in cui la norma prevista per il caso di specie non sia imperativa, la fattispecie dovrà essere decisa secondo i “princìpi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato”, tra i quali rientra appunto anche quello dell’equità (art. 53 Cost.).

Quindi l’art. 12 delle Preleggi prevede che una fattispecie debba essere interpretata anzitutto in base alla “precisa” disposizione per essa prevista, e che solo nel caso in cui questa non vi sia, l’interpretazione possa essere basata sui “princìpi generali dell'ordinamento”.

Ma siamo sicuri che la disposizione “precisa” (e cioè la norma imperativa) possa prevalere anche su tali principi?

L’art. 1418 c.c. stabilisce che “il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative”, ma precisa anche salvo che la legge disponga diversamente”. Una norma può essere anche imperativa, ma se la legge – e cioè una norma di rango superiore, come è quella costituzionale – stabilisce un principio contrario, il contratto non è più nullo, e pertanto esso, in forza del principio sancito dalla suddetta legge, può derogare alla norma imperativa.

Ma allora, se la sussistenza di un “principio generale dell’ordinamento” è tale da consentire persino agli accordi contrattuali, e cioè a patti conclusi tra soggetti di diritto privato i quali non sono investiti dall’ordinamento di alcuna funzione di “tutori” del principio stesso, di derogare ad una norma imperativa, il medesimo potere di deroga dovrebbe, a maggior ragione, essere riconosciuto al Giudice, poiché questo, ai sensi dell’art. 101 Cost., è soggetto “solo alla legge”, e per quest’ultima non può che intendersi in primo luogo, in base al principio di gerarchia delle fonti del diritto, la Costituzione. Egli, quindi, nonostante quanto possa prevedere una norma, sia pur imperativa, emessa dal legislatore ordinario, non soltanto “può” ma “deve” comunque decidere in conformità a quelli che sono i principi generali dell’ordinamento, i quali a loro volta derivano dalla legge fondamentale, che è appunto la Costituzione. Ciò comporta, in ambito tributario, che se una norma di legge ordinaria (art. 17 D.lgs. nella versione antecedente alle modifiche di cui al Decreto Legislativo 139/2024) determina, come accaduto nel caso di specie (vedi applicazione del D.M. del 21.12.2015) un meccanismo di tassazione lesivo del principio costituzionale di capacità contributiva, il Giudice debba decidere, malgrado l’imperatività della norma stessa, in conformità al suddetto principio, e siccome questo si basa a sua volta sul criterio sostanziale di equità, ecco che tale decisione può (anzi, deve) essere assunta attraverso il ricorso all’equità sostitutiva, perché, in mancanza di tale decisione, il principio stesso non potrà essere rispettato.