La giudice. A sessant’anni dall’ammissione delle donne in magistratura

La giudice
La giudice

La giudice. A sessant’anni dall’ammissione delle donne in magistratura

 

È importante aumentare

la presenza delle magistrate

in tutti i luoghi

in cui le donne  non hanno diritti.

Giudice Anisa Rasooli

 

La giustizia

Una donna bendata che regge una bilancia con una mano e impugna una spada con l’altra. Così la giustizia è tradizionalmente rappresentata: la giustizia è donna. Sembra paradossale, però, se si pensa che le donne sono state ammesse ad amministrare la giustizia solo poche decine di anni fa, sessanta in Italia. Nonostante già nella mitologia greca fosse una donna – la dea Dike – ad impersonare la giustizia, essa è stata a lungo una questione da uomini in cui le donne non potevano entrare perché non considerate adatte. Oggi le ragazze che si iscrivono a giurisprudenza non sanno quanto sia stato difficile ottenere questo diritto; e spesso neanche le donne che si iscrivono al concorso in magistratura sanno che per quindici anni dopo l’approvazione della Costituzione e del principio di uguaglianza questo diritto era loro negato in quanto donne.

È una storia interessante quella dell’ingresso delle donne nelle professioni legali e nella magistratura, che merita di essere raccontata e ricordata.

 

La naturale inadeguatezza delle donne

In Italia, il primo concorso in magistratura aperto alle donne fu quello del 1965. Com’è possibile, vi dovreste chiedere, visto che la Costituzione nel 1948 aveva affermato l’uguaglianza dei cittadini senza distinzione di sesso (art. 3) e che tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive (art. 51)? Tutto è possibile quando i pregiudizi sono più forti della legge. Insigni giuristi e membri dell’assemblea costituente ritenevano che le donne fossero naturalmente inadatte alla funzione giurisdizionale perché difettavano “per ragioni anche fisiologiche” dell’equilibrio necessario (parole di Antonio Romano, costituente e presidente di Tribunale). È sempre interessante notare quanto l’effetto più perverso della cultura sia quello di mimetizzarsi in natura. Lunga e accesa fu la discussione in assemblea costituente su questo punto, e vale la pena oggi ricordarne alcuni passaggi [1].

Nella sua costituzione psichica la donna non ha le attitudini per far bene il magistrato, come dimostra l’esperienza pratica in un campo affine, cioè nella professione dell’avvocato. Tutti avranno notato quale scarsa tendenza e adattabilità abbia la donna per questa professione perché le manca, proprio per costituzione, quel potere di sintesi e di equilibrio assoluto che è necessario per sottrarsi agli stati emotivi” (on. Mannironi). D’altra parte era noto “già nel diritto romano che la donna, in determinati periodi della sua vita, non ha la piena capacità di lavoro” (on. Molé). “In udienza alle volte la discussione si protrae per ore ed ore e richiede la massima attenzione da parte di tutti. È evidente che per un lavoro simile sono più indicati gli uomini che le donne” (on. Codacci Pisanelli). “Il giorno in cui avrete affidato l’amministrazione della giustizia ad un corpo giudicante misto, che cosa avrete ottenuto? Avrete portato nel sacro tempio della giustizia un elemento di più di confusione, di dissonanza, di contrasto; avrete creato, in sostanza, una giustizia bilingue, una giustizia che parlerà due linguaggi diversi. […] Se tutto questo possa giovare al prestigio, alla serietà della giustizia, alla certezza nell’applicazione della legge, lo lascio giudicare a voi” (on. Villabruna). Chiosava l’onorevole Bettiol: “San Paolo diceva: «Tacciano le donne nella Chiesa». Se San Paolo fosse vivo direbbe: «Facciano silenzio le donne anche nei tribunali»”. “La donna deve rimanere la regina della casa, più la si allontana dalla famiglia, più questa si sgretola. Con tutto il rispetto per le capacità intellettuali della donna, ho l’impressione che essa non sia indicata per la difficile arte del giudicare. Questa richiede grande equilibrio e alle volte l’equilibrio difetta per ragioni anche fisiologiche” (on. Romano).

“Il vero posto della donna nella società moderna è attualmente come in passato nella casa” aveva sentenziato Mussolini nel 1932. Sembra che la democrazia non avesse più di tanto intaccato questa millenaria certezza.

Rispondendo ai suoi colleghi, l’onorevole Maria Federici pretendeva invece la possibilità di dar prova delle capacità femminili: “Facciamo la prova, vediamo se la donna è veramente in grado di coprire le cariche che sono inerenti all’alto esercizio della magistratura. A tutto quanto è stato detto, io potrei rispondere che una raffinata sensibilità, una pronta intuizione, un cuore più sensibile alle sofferenze umane e un’esperienza maggiore del dolore non sono requisiti che possano nuocere, sono requisiti preziosi che possono agevolare l’amministrazione della giustizia. Potrei rispondere che le donne avranno la possibilità di fare rilevare attraverso un lungo tirocinio la loro capacità; saranno sottomesse e sottoposte ai concorsi e a una rigida selezione. Le donne che si presenteranno a chiedere di salire i gradi della magistratura devono avere in partenza (e li avranno) i requisiti che possono dare loro una certa garanzia di successo.” D’altra parte nessun uomo ha mai dovuto provare le proprie capacità lavorative in quanto uomo. E proseguiva: “Se qualcuno che siede qui ha la propria moglie che in casa fa la calza, non ritengo questo un argomento valido per invogliare una donna che chiede una toga ad accettare anziché una toga una calza. […] Se voi, onorevoli colleghi, stabilirete una norma limitativa nella nostra Costituzione per quanto riguarda il diritto della donna di accedere alla magistratura, commetterete molti errori. Rileggete, onorevoli colleghi, quanto siete andati dicendo nel corso di questi nostri lavori, contate quante volte avete parlato di libertà civili, di parità di diritti, di uguaglianza di diritti, senz’altra discriminazione all’infuori di quella stabilita dalla legge e limitata alla incapacità naturale o legale. […] Quale fondamento hanno dunque i vostri timori? Le esperienze passate non sono contro la donna. In quei Paesi dove la donna è stata ammessa nella magistratura, essa ha fatto eccellentemente la sua prova. Di che cosa avete paura? Ricordatevi che tutte le moderne Costituzioni non fanno più restrizioni in questo senso. Ricordate che la Francia ha detto chiaramente che alla donna sono accordati in tutti i campi gli stessi diritti che sono accordati agli uomini. Volete forse voi che la patria del diritto sia al di sotto degli altri Paesi, anche di minore civiltà di quella italiana?

Le donne costituenti ebbero un ruolo fondamentale in quell’assemblea: fu Angela Merlin a promuovere l’introduzione nel primo comma dell’articolo 3 dell’inciso “senza distinzione di sesso”, e fu Teresa Mattei a voler aggiungere la precisazione “di fatto” imponendo alla Repubblica il dovere di rimuovere gli ostacoli che in concreto impediscono l’uguaglianza sostanziale. Quanto alla magistratura, però, alla fine prevalse una linea tipicamente italiana: si scelse di non decidere, prendendo tempo e lasciando al legislatore successivo la scelta. Interpretando, quindi, la Costituzione come norma programmatica e priva del potere di abrogare direttamente normative precedenti con essa incompatibili, rimasero in vigore la legge n.1176/1919 che ammetteva le donne all’esercizio delle professioni, escludendole però espressamente dalla giurisdizione, dall’attività politica e dall’esercito (art. 7), e la legge sull’ordinamento giudiziario del 1941 che poneva come requisiti per l’accesso alla magistratura “essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al partito nazionale fascista” (art. 8). Sarebbe proprio ora di domandarsi se sia il caso di eliminare del tutto dal nostro ordinamento leggi pensate e approvate da un regime di cui la Costituzione repubblicana è la più palese contraddizione.

 

“La grazia contro la giustizia”

Non solo molti costituenti erano contrari all’ingresso delle donne in magistratura, ma esimi intellettuali, giuristi e giudici. Merita decisamente di essere ricordato un libro di grande successo del 1957: “La donna giudice, ovverosia la grazia contro la giustizia”. Vi si legge che il giudicare è una “funzione, che richiede intelligenza, serietà, serenità, equilibrio; che va intesa come ‘missione’, non come ‘professione’; e vuole fermezza di carattere, alta coscienza, capace di resistere ad ogni influenza e pressione, da qualunque parte essa venga, dall’alto o dal basso; approfondito esame dei fatti, senso del diritto, conoscenza della legge e della ragione di essa, cioè del rapporto – nel campo penale – fra il diritto e la sicurezza sociale; ed, ancora, animo aperto ai sentimenti di umanità e di umana comprensione, ed equa valutazione delle circostanze e delle ragioni che hanno spinto al delitto, e della psiche dell’autore di esso; coscienza della gravità del giudizio, e della gravissima responsabilità del ‘giudicare’. Elementi tutti, che mancano – in generale – nella donna, che – in generale – ‘absit injuria verbis’ – è fatua, è leggera, è superficiale, emotiva, passionale, impulsiva, testardetta anzichenò, approssimativa sempre, negata quasi sempre alla logica, dominata dal ‘pietismo’, che non è la ‘pietà’; e quindi inadatta a valutare obbiettivamente, serenamente, saggiamente, nella loro giusta portata, i delitti e i delinquenti […] Le ottocento laureate in giurisprudenza si sono audacemente auto-qualificate ‘donne giuriste’, come se a formare il ‘giurista’ bastasse un povero diploma di laurea. […] Non si può non tener conto, nel supremo interesse della società civile, giuridicamente organizzata, e della stessa donna, – sia delle differenze organiche della costituzione fisica e psichica della donna, sia delle particolari funzioni e mansioni ad essa affidate, soprattutto nella famiglia. […] Dio creò la donna quale collaboratrice dell’uomo; e diede ad essi organi, e costituzione, e psicologia diverse, appunto perché diverse sono le mansioni e funzioni a cui ciascuno è chiamato. La donna è chiamata a collaborare con l’uomo al raggiungimento dei fini spirituali e materiali della nostra povera vita terrena, specialmente nella creazione e nel governo della famiglia, e non perché diventi la concorrente, l’antagonista, o il doppione dell’uomo, che ne usurpi le funzioni ed i lavori, diventi cioè la sabotatrice di lui” [2].

È indispensabile evidenziare che l’autore di queste interessantissime riflessioni non era il macellaio del paesino di mia nonna sperduto tra le montagne abruzzesi che con ogni probabilità nulla sapeva di Costituzione e di diritti, bensì Eutimio Ranelletti, presidente onorario della Corte di Cassazione. Cioè una delle più alte cariche della magistratura si è permessa – con grande apprezzamento e seguito – di pubblicare un testo che palesemente violava i più basilari principi di eguaglianza e di pari dignità sociale espressi dalla Costituzione repubblicana.

“Ed allora domandiamo: che cosa sarà della ‘Giustizia’ in Italia, la ‘Patria del Diritto’, se domani – come sarà fatale (chè le donne elettrici sono ahimè! la maggioranza del corpo elettorale) – il cinquanta per cento dei posti di giudice sarà occupato – che Dio ce ne scampi e liberi! – da ‘giudici’ in gonnella, che non hanno il senso del diritto?” Per fortuna sua, Ranelletti è morto prima di vedere realizzato il suo peggiore incubo: oggi numericamente le donne superano gli uomini nella magistratura italiana. Qualcuno comunque vive oggi e vede tutto questo: un avvocato sulla sessantina, qualche tempo fa, mi ha detto che la fine della professione forense è arrivata nel momento in cui le donne sono entrate massicciamente a far parte dell’avvocatura dopo aver scoperto che la libera professione forense è ben conciliabile con gli impegni familiari, perché non è possibile che ci sia lavoro per tutti; tradotto, il lavoro delle donne toglie clienti e denaro agli uomini.

Il problema del testo di Ranelletti non è solo che con esso un uomo ha reso pubblico il suo pensiero ignorante e discriminatorio, ma che, da un lato, quel pensiero denota la profondità del pregiudizio, talmente forte da non vedere la palese contraddizione con la norma fondamentale che la sua professione gli imponeva di conoscere, e, dall’altro lato, fomenta con il prestigio della sua posizione sociale e culturale lo stesso pregiudizio in tutta quella parte amplissima di popolazione che non ha alcuna formazione in tema di diritti. È lo stesso tipo di problema che si ripropone oggi, per esempio, nel momento in cui giudici di questo Stato firmano sentenze in nome del popolo italiano in cui affermano che Tizio ha ucciso Caia in preda ad “una tempesta emotiva” o ad uno “scompenso emozionale” provocato da qualche comportamento ambiguo o disonesto della donna, e che per questo, poverino, merita uno sconto di pena che gli consenta ancora di avere una futura vita libera; nel momento in cui giudici di questo Stato definiscono “goliardata” una violenza sessuale interrogandosi sulle abitudini sessuali e alcoliche della vittima anziché sulle responsabilità degli imputati; nel momento in cui Procuratori di questo Stato archiviano denunce per maltrattamenti e atti persecutori perché “sono cose che capitano in tutte le separazioni conflittuali”. Il problema è il messaggio che viene veicolato da queste affermazioni e l’effetto fomentante che esso ha sui pregiudizi già diffusissimi nella popolazione. A nulla valgono in questo senso le ripetute condanne della Corte europea dei diritti umani che nessun effetto hanno su chi ha scritto quelle bestialità, e nulla spostano nel pregiudizio comune molto più interessato ai risultati del campionato di calcio che alle inadempienze del proprio Stato in materia di diritti umani.

Mi sembrano quanto mai adatte le parole della professoressa Eva Cantarella: “Come sempre accade quando le donne escono dai confini tradizionalmente loro assegnati, invadendo campi considerati dominio maschile e appropriandosi di strumenti intellettuali o di potere, vi è chi reagisce con i luoghi comuni del più facile antifemminismo. […] È la misoginia più spicciola di chi vede vacillare le proprie certezze e si difende traducendo gli antichi pregiudizi in una sorta di ‘saggezza popolare’, in una serie di banalità e di precetti di preteso buon senso, che riproducono luoghi comuni ormai anacronistici” [3].

Ad un convegno nel 2017 il magistrato Aniello Nappi affermava che oggi non sarebbe più possibile udire parole come quelle di Ranelletti sulla supposta inferiorità o inadeguatezza delle donne al ruolo di magistrato, e sicuramente molti/e concorderanno con questa previsione. Spiace dire che vi sbagliate. E ancora una volta non serve andare a chiedere il parere del macellaio del paese di mia nonna.

A novembre del 2020, presso l’università di Bari – facoltà di medicina - si svolge una lezione di bioetica tenuta da Donato Mitola, cultore della materia: questo signore, nei panni di docente universitario, spiega a studenti e studentesse che le donne non dovrebbero rivestire il ruolo di giudici perché “sono emotivamente più sensibili degli uomini e il loro processo decisionale è condizionato anche se incoscientemente [sic] dall’emotività”. Dopo più di mezzo secolo l’argomentazione discriminatoria e misogina è ancora la stessa. Per la cronaca, qualche studente ha registrato la spiegazione del docente, il video è stato pubblicato online da un giornale locale, il rettore ha sospeso Mitola, che tuttavia in una lettera pubblicata il 25 novembre (sì, purtroppo proprio il 25 novembre, giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne) ha rivendicato la scientificità delle affermazioni fatte sulla base dei più recenti studi delle neuroscienze (e sulle problematicità di questa materia si aprirebbe un interessantissimo capitolo di discussione che però rimandiamo) e ha affermato di essere “vittima” degli studenti che hanno approfittato “della mia modalità di insegnamento e di approccio easy”. Sempre per la cronaca, non sono riuscita a trovare ulteriori notizie sulla collocazione lavorativa del signor Mitola, ma ciò che conta è che quelle affermazioni sono state fatte nella veste di docente in un ateneo universitario nel 2020, non nel medioevo.

In Afghanistan, dopo la ripresa del potere da parte dei talebani nell’agosto 2021, le donne sono state escluse dall’avvocatura e dalla giurisdizione. Anisa Rasooli - prima donna giudice nominata nel 2018 alla Corte Suprema afghana, oggi rifugiata negli USA -, chiarisce che la magistratura femminile in Afghanistan non esiste più: la maggior parte delle giudici (300 in totale) è riuscita a fuggire grazie all’aiuto delle organizzazioni umanitarie e dell’International Association of Women Judges, mentre quelle rimaste sono in costante pericolo di vita, vivono nascoste rinunciando quindi non solo alla propria formazione professionale ma anche alla propria libertà che era stata con fatica acquisita nei vent’anni precedenti. “Le donne sono state cancellate dall’esercizio della giurisdizione e da tutto ciò che essa poteva significare: garanzia di dignità, maggior accesso delle donne alla giustizia, valore aggiunto in termini di rispetto dei diritti umani, tra questi del valore della parità di genere” [4]. Nel dicembre 2022 alle donne afghane è stato infine vietato di studiare all’università. Tale realtà ci ricorda che i diritti non sono mai acquisiti per sempre, vanno costantemente difesi, sorvegliati, perché se ci distraiamo dandoli per scontati li perderemo.

Sintetizzava Valerio Onida: “Il tema dell’eguaglianza dei sessi è un tema appassionante perché ha molti fronti: è un problema culturale ed è un problema istituzionale. […] Dietro al diritto c’è una cultura e un costume. Quindi, non si può immaginare che difetti e storture che ci vengono dal passato siano davvero superati se non c’è un avanzamento culturale. Come peraltro non si può immaginare che difetti e storture vengano superati se le istituzioni non seguono, anzi non promuovono l’avanzamento della cultura e del costume” [5].

 

Avvocata nostra. Lidia Poët versus Corte d’appello di Torino

Cambiamo per un momento professione forense e scopriamo che, se l’ingresso delle donne nella magistratura non è stato facile, non da meno è stato quello nell’avvocatura italiana. A ben vedere, il riconoscimento di qualunque diritto delle donne è arrivato solo a prezzo di grande fatica e di grandi battaglie; il problema è che oggi le ragazze e le donne che non hanno vissuto quelle battaglie non sanno quanto è stato difficile ottenere ciò che per loro è scontato; ed è proprio approfittando di questa ignoranza e di questo senso di scontatezza che diritti acquisiti ci possono essere tolti.

Lidia Poët fu tra le prime donne in Italia a laurearsi in giurisprudenza nel 1881 a Torino, discutendo una tesi sul diritto di voto femminile [6]. «Ero nata per studiare e non ho mai fatto altro, in un secolo nel quale le ragazze si occupavano esclusivamente di trine all’ago e di budini di riso. Fu un male o un bene? Non so, ma sento che se rinascessi tornerei daccapo.»[7] Dopo la laurea lavorò presso lo studio di un avvocato e quindi superò l’esame di abilitazione alla professione; dato che nessuna norma vietava espressamente alle donne di iscriversi all’Ordine degli avvocati, Lidia chiese di esservi ammessa (fu la prima donna in Europa ad avanzare questa richiesta) e - con 8 voti a favore e 4 contrari - il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Torino la ammise, prima donna in Italia ad entrare nell’Ordine forense nel 1883. Il Procuratore del re impugnò tuttavia quel provvedimento e la Corte d’appello di Torino annullò l’iscrizione di Lidia con questa motivazione: “La questione sta tutta in vedere se le donne possano o non possano essere ammesse all’esercizio dell’avvocheria. […] Ponderando attentamente la lettera e lo spirito di tutte quelle [leggi] che possono aver rapporto con la questione in esame, ne risulta evidente esser stato sempre nel concetto del legislatore che l’avvocheria fosse un ufficio esercibile soltanto da maschi e nel quale non dovevano punto immischiarsi le femmine. […]Oggi del pari sarebbe disdicevole e brutto veder le donne discendere nella forense palestra, agitarsi in mezzo allo strepito dei pubblici giudizi, accalorarsi in discussioni che facilmente trasmodano, e nelle quali anche, loro malgrado, potrebbero esser tratte oltre ai limiti che al sesso più gentile si conviene di osservare: costrette talvolta a trattare ex professo argomenti dei quali le buone regole della vita civile interdicono agli stessi uomini di fare motto alla presenza di donne oneste. Considerato che dopo il fin qui detto non occorre nemmeno di accennare al rischio cui andrebbero incontro la serietà dei giudizi se, per non dir d’altro, si vedessero talvolta la toga o il tocco dell’avvocato sovrapposti ad abbigliamenti strani e bizzarri, che non di rado la moda impone alle donne, e ad acconciature non meno bizzarre. come non occorre neppure far cenno del pericolo gravissimo a cui rimarrebbe esposta la magistratura di essere fatta più che mai segno agli strali del sospetto e della calunnia ogni qualvolta la bilancia della giustizia piegasse in favore della parte per la quale ha perorata un’avvocatessa leggiadra. […] Non è questo il momento, né il luogo di impegnarsi in discussioni accademiche, di esaminare se e quanto il progresso dei tempi possa reclamare che la donna sia in tutto eguagliata all’uomo, sicché a lei si dischiuda l’adito a tutte le carriere, a tutti gli uffici che finora sono stati propri soltanto dell’uomo. Di ciò potranno occuparsi i legislatori, di ciò potranno occuparsi le donne, le quali avranno pure a riflettere se sarebbe veramente un progresso e una conquista per loro quello di poter mettersi in concorrenza con gli uomini, di andarsene confuse fra essi, di divenirne le uguali anziché le compagne, siccome la provvidenza le ha destinate[8]. Anche la Corte di Cassazione confermò la sentenza.

L’iscrizione di Lidia all’Ordine forense, quindi, venne annullata non perché la legge la vietasse, ma sulla base del pregiudizio culturale in base al quale il posto delle donne è a casa, accanto al camino a fare la calza. Per ogni giurista questo dovrebbe provocare una seria riflessione: i pregiudizi di genere sono talmente forti che vanno contra legem, perché, da che mondo è mondo – anzi da che diritto è diritto – ciò che non è vietato è consentito. Cercando solo un altro esempio, nessuna legge in Italia ha mai previsto esplicitamente che i figli di coniugati dovessero prendere solo ed esclusivamente il cognome del padre, ma una serie di altre norme lo dava per implicito, per scontato; e così fino ai recenti interventi della Corte costituzionale è stata perpetuata una palese violazione del principio di pari dignità dei coniugi-genitori in virtù di una millenaria discriminazione mai codificata in legge [9]. È evidente che certe cose non vengono codificate (oggi come nel diritto romano) solo perché a chi scrive la legge non viene in mente che ci possa essere qualcuno/a che consideri non scontata quella discriminazione. Tutte le cose appaiono assurde fin quando non vengono compiute: dal lavoro femminile allo sbarco sulla luna.

È molto interessante anche un passaggio della sentenza della Cassazione che, alla ricerca di ragioni per negare l’iscrizione a Lidia Poët, osservò che la legge relativa all’accesso alla professione forense parla di “avvocato” e non di “avvocata”, nonostante questa parola al femminile “pur esiste nella lingua italiana, e si usa nel comune parlare[10]! Il punto esclamativo è dovuto al mio sconcerto nell’apprendere che già nel lontano 1884 un tribunale italiano constatava che la parola “avvocata” esiste ed è in uso nella nostra lingua, quando nel 2023 sono ormai quasi vent’anni che frequento il mondo legale e i tribunali e continuo a constatare un rifiuto pressoché assoluto e a tratti veemente della declinazione femminile di questa e di altre professioni.  La parola esiste! Che scoperta strabiliante per la giurisprudenza italiana! Una semplice “a” al posto della “o” fa apparire la presenza delle donne storicamente occultate.

Dopo aver pubblicato il mio primo saggio “Se questo è amore” (Ed. LuoghInteriori, 2019), una zia abitante in quel paesino sperduto dell’Abruzzo di cui dicevamo prima mi telefonò per farmi i complimenti, e mi disse che leggendolo era rimasta colpita in particolare dalle riflessioni sul linguaggio e sull’importanza della declinazione di genere delle professioni: «D’altra parte perché negarlo?», mi disse, «Nel Salve regina l’abbiamo sempre detto: Avvocata nostra salve.» Quest’ovvietà mi fulminò, e che quest’ovvietà mi provenisse da una signora non più giovane nata e vissuta in uno sperduto paesino tra le montagne mi fulminò ancora di più. Perché io nel libro ho evidenziato che il femminile è una regola grammaticale basilare della lingua italiana (così come dello spagnolo, per esempio) e che il rifiuto di declinare al femminile le professioni è solo un rifiuto culturale che non ha base né giustificazione linguistica; il lungo tempo trascorso dal mio catechismo mi aveva fatto dimenticare che la Chiesta cattolica – pur essendo stata artefice di un colossale ginocidio con la caccia alle streghe – da sempre riconosce l’esistenza del femminile di avvocato, e che in quanto italiani/e cresciuti/e per lo più con il catechismo cattolico quella parola, “avvocata”, l’abbiamo sempre ripetuta, fin quando da adulti l’abbiamo dimenticata iniziando a rifiutarla. Questo aneddoto fa forse un po’ sorridere, ma dovrebbe dimostrare – se mai ce ne fosse ancora bisogno - che negare la declinazione femminile delle professioni è una scelta culturale e politica, che viola senza giustificazione alcuna la grammatica della nostra lingua al solo scopo di occultare la presenza femminile nelle professioni e di legittimare quello maschile come unico modello professionale.

Tornando alla nostra aspirante avvocata Lidia Poët, la Corte annullò quindi la sua iscrizione all’Ordine. Lidia non abbandonò però la professione, continuò sempre a lavorare nello studio del fratello senza poter patrocinare in tribunale, partecipò a molti convegni e si impegnò nella battaglia per ottenere il diritto di voto per le donne e in quella per il miglioramento delle condizioni carcerarie e del fine rieducativo della pena. Nel 1920, all’età di 65 anni, riuscì finalmente a iscriversi all’Albo degli avvocati di Torino, dopo che nel 1919 la legge “Sacchi” (n. 1176) abrogò l’autorizzazione maritale e permise alle donne di accedere a tutte le professioni tranne quelle giurisdizionali, politiche e militari. Lidia morì nel 1949, dopo aver ottenuto anche il diritto di voto [11]. Pochi mesi prima di morire assisté all’udienza in cui Lina Furlan fu la prima avvocata penalista a patrocinare in Corte d’assise: dopo la lettura del dispositivo che assolveva la cliente di Lina, Lidia andò da lei per abbracciarla.

Alla notizia della sua morte il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Torino la omaggiò con queste parole: “Con reverente rimpianto il Collegio ricorda la sua decana avvocatessa Lidia Poët, insigne interprete della rivendicazione della donna nella missione professionale e nelle riforme politiche e sociali”. Due di quelle parole hanno per me un peso particolare: “reverente rimpianto”.

 

“Compresa la magistratura”

Ostinarsi a negare i diritti crea anche situazioni imbarazzanti. Nel 1957 a Perugia si riunì il Centro internazionale magistrati “Luigi Severini”: l’unica giudice donna presente proveniva da Varsavia, si chiamava Krystina Olejniczak, e rimase scandalizzata quando constatò che proprio i suoi colleghi italiani padroni di casa erano i più accaniti contrari alla presenza delle donne nella magistratura [12]. Per la cronaca nel resto d’Europa le magistrate erano già numerose. Perché l’Italia arriva sempre per ultima? Mi correggo: a quel punto solo la Spagna franchista e il Portogallo salazarista, oltre all’Italia, non ammettevano le donne alla magistratura, quindi avevamo un’invidiabile compagnia.

Nel 1960, con la sentenza n.33, la Corte costituzionale dichiarò illegittimo l’articolo 7 della legge 1176/1919 nella parte in cui “esclude le donne da tutti gli uffici pubblici che implicano l’esercizio di diritti e di potestà politiche”, spiegando che “la diversità di sesso, in sé e per sé considerata, non può essere mai ragione di discriminazione legislativa”. Il ricorso era stato promosso da Rosa Oliva, che si era vista escludere in quanto donna dalla carriera prefettizia.

Sulla scia di questa decisione, il 9 febbraio 1963, dopo ben quindici anni dall’entrata in vigore della Costituzione, il Parlamento approvò la legge n.66 con cui finalmente le donne venivano ammesse “a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura, nei vari ruoli, carriere e categorie, senza limitazione di mansioni e di svolgimento della carriera, salvi i requisiti stabiliti dalla legge”. La norma proseguiva con un’eccezione: “L’arruolamento della donna nelle forze armate e nei corpi speciali è regolato da leggi particolari”. Quest’eccezione è stata abolita solo nel 2000!

Perciò quindici anni e sedici concorsi dopo l’entrata in vigore della Costituzione fu finalmente consentito l’accesso delle donne alla magistratura. Al concorso “le donne sono poche, quasi invisibili nella massa di candidati, macchie di colore sperdute in un universo maschile tendente al grigio” [13]. Furono otto le prime donne a vincere il concorso: Letizia De Martino, Ada Lepore, Maria Gabriella Luccioli, Graziana Calcagno Pini, Raffaella D’Antonio, Annunziata Izzo, Giulia De Marco, Emilia Capelli entrarono in servizio il 5 aprile 1965.

È interessante evidenziare quell’inciso nella nuova legge: “compresa la magistratura”. Bisognava proprio specificarlo perché altrimenti l’Italia non era in grado di leggere nel principio costituzionale di uguaglianza il diritto delle donne ad accedere a tutte le professioni. Che Paese è un Paese che ha bisogno di queste specificazioni? Lo stesso Paese che nel 2021 ha approvato una legge che sancisce la parità salariale, laddove questo principio basilare è stato sancito dall’articolo 37 della Costituzione sempre nel 1948.

È infine amaramente ironico evidenziare che fino al 1963 una donna poteva essere eletta Presidente della Repubblica e quindi essere a capo del Consiglio superiore della magistratura, ma non far parte della magistratura stessa! In queste ambigue ridicolaggini sta la mancanza di coerenza di un sistema in cui i pregiudizi sono più forti dei diritti. Eppure già nell’antica Grecia Sofocle era dell’opinione che una donna – Antigone – esprimesse la voce della vera giustizia che si opponeva alle leggi dei tiranni, uomini.

Si sa però che il cambiamento della legge non è in grado di determinare automaticamente il cambiamento della cultura. E le donne che quotidianamente vengono uccise dai propri compagni dopo aver rivendicato la propria libertà lo sanno bene. Nicoletta Gandus raccontò che quando gli avvocati entravano nella sua stanza, si sentiva chiedere: «Scusi signorina, quando posso trovare il giudice?»[14]

Gabriella Luccioli – una di quelle prime otto magistrate entrate in servizio nel 1965 – ricorda così la cerimonia di benvenuto per i nuovi magistrati presso il Tribunale di Roma: «Dopo il saluto del presidente della Corte prende la parola il procuratore generale della stessa Corte, Luigi Giannantonio, magistrato molto noto e autorevole, che nel rivolgere ai giovani uditori il suo messaggio di benvenuto inizia a leggere un lungo brano di Francesco Filomusi Guelfi, filosofo del diritto della seconda metà dell’Ottocento, nel quale si delinea il profilo antropologico delle donne e si illustrano le loro specifiche ed esclusive attitudini per il ricamo e il cucito. Terminata la lettura e chiuso il libro, il procuratore generale non prende le distanze dal pensiero del filosofo, come mi aspettavo, ma osserva che da quel brano si trae autorevole conferma del gravissimo errore commesso dal legislatore nell’ammettere le donne in magistratura e aggiunge che l’unico modo possibile per limitare il danno è quello di assegnarle tutte ai tribunali minorili. Lo sconcerto dei presenti è tangibile: le parole del procuratore generale sono in evidente contrasto con i principi costituzionali ed esprimono un’assurda contestazione di una legge dello Stato; esse inoltre rivelano in modo eclatante arroganza e maleducazione.»[15]

L’idea di limitazione del danno proposta da questo procuratore fu tutt’altro che isolata. Francesca Morvillo – nota ai più solo come moglie di Giovanni Falcone – entrò in magistratura nel 1968 e trascorse gran parte della sua carriera presso il Tribunale per i minorenni [16].

Scriveva l’indimenticata giudice Ruth Bader Ginsburg: “Per le donne che  vogliono esercitare opzioni che non rientrano negli stereotipi di cosa è appropriato per il femminile, per le donne che non vogliono essere protette ma vogliono sviluppare le loro potenzialità senza limiti artificiali, le classificazioni che rinforzano i ruoli maschili e femminili tradizionali non hanno nulla di benigno” [17].

 

Pari opportunità e funambolismo

La questione di genere è stata a lungo assente nella magistratura. Come in tutte le professioni storicamente maschili, per far accettare la propria presenza le donne hanno sentito la necessità di dimostrare non solo di essere brave e capaci quanto gli uomini, ma il più possibile simili agli uomini, cioè hanno spesso preferito rinunciare alla propria identità di donne per impersonare quel ruolo da sempre maschile nella storia e nel linguaggio. Quest’assurda discriminazione si traduce nel luogo comune che per fare un complimento ad una donna le attribuisce “le palle”. Ricorda Paola Di Nicola Travaglini: “Per diventare un magistrato dovevo diventare, tentare di diventare, un uomo con il corpo di una donna. Non ritenevo percorribile un’altra strada” [18].

Nel 1990 nacque l’ADMI – Associazione donne magistrato italiane -, indipendente e priva di connotazione politica, che si pone come obiettivi: approfondire i problemi giuridici, etici e sociali riguardanti la condizione della donna nella società; promuovere la professionalità della donna giudice a garanzia dei cittadini e per il miglior funzionamento della giustizia; proporre modifiche legislative volte alla piena attuazione della parità; istituire uno stabile collegamento tra le donne che esercitano funzioni giudiziarie  per il confronto delle rispettive esperienze professionali e per la ricerca dei contributi apportati dalle donne magistrato nell’interpretazione ed applicazione della legge, nonché realizzare incontri con donne giudici di altri Paesi. Nel 1991 l’ADMI ratificò l’atto costitutivo e lo statuto dell’IAWJ - International Association Women Judges - diventandone socia cofondatrice. Tra parentesi, nel 1994 si tenne a Roma la seconda conferenza mondiale dell’IAWJ sulla violenza domestica, tema considerato negli USA una grave questione sociale e ancora ignorato in Italia: i vertici dell’associazione nazionale magistrati si rifiutarono di partecipare [19].

Nel 1992 fu istituito il primo Comitato pari opportunità presso il CSM al fine di monitorare e rimuovere le discriminazioni indirette causate dall’appartenenza ad un genere: ci sono voluti, cioè, trent’anni per capire che esisteva una problematica di genere all’interno della magistratura. Nel 2008 sono stati istituiti Comitati pari opportunità presso i vari consigli giudiziari e presso il Consiglio direttivo della Corte di cassazione.

Oggi, su un totale di 9576 magistrati, le donne sono 5283, il 55% (dati aggiornati a marzo 2022). Il sorpasso nella vittoria al concorso c’è stato per la prima volta nel 1987, e poi dal 1996 il numero delle donne vincitrici è rimasto sempre superiore a quello degli uomini; dal 2015 il numero totale di donne presenti in magistratura ha superato quello degli uomini. “In sessant’anni si è consumata una rivoluzione silenziosa dentro la magistratura, di cui nessuno prende atto, che resta ai margini perché le sue protagoniste non la vivono come tale e gli uomini la rimuovono. Me sempre rivoluzione resta” [20]. Tuttavia, negli uffici con competenza nazionale il numero di donne scende al 36%. Tra i 420 magistrati che rivestono incarichi direttivi il 73% sono uomini; tra i 722 con incarichi semidirettivi il 55% sono uomini [21]. Ad oggi, nessuna donna ha rivestito il ruolo di primo presidente della Corte di cassazione, procuratore generale presso la Corte di cassazione e procuratore nazionale antimafia. In Francia, dove l’ingresso delle donne in magistratura è avvenuto nel 1946, già nel 1983 una magistrata diventò presidente della Cour de Cassation. Per ora in Italia abbiamo avuto solo due donne al vertice della Corte Costituzionale: Marta Cartabia (2019-2020) e attualmente Silvana Sciarra.

Nonostante quindi le donne superino numericamente gli uomini all’interno della magistratura, nei ruoli di vertice e di potere prevalgono ancora gli uomini. In altre parole, dove conta il merito – cioè nel concorso – prevalgono le donne evidentemente più preparate; dove contano invece visibilità e amicizie prevalgono gli uomini. Constatiamo così che il soffitto di cristallo è ben posizionato e ben visibile anche in magistratura. La parità esisterà davvero nel momento in cui non costituirà più notizia l’arrivo di una donna ad una posizione di potere pubblico o politico.

Questa scarsa presenza di donne nei ruoli direttivi e semidirettivi si spiega in modo simile a quanto accade in tutti gli altri settori lavorativi: oltre al pregiudizio che discrimina di per sé le donne in ogni posizione apicale, continuano ad essere soprattutto le donne a dover conciliare la vita professionale e quella familiare, e visto che la giornata è di sole 24 ore diventa difficile inserire in queste ore anche tutte le attività che il sistema richiede per raggiungere la visibilità necessaria ad essere scelte per ruoli direttivi. E si sa che “la vita delle donne magistrato, come di qualsiasi donna, si gioca ogni giorno nei funambolismi della gestione di situazioni, ambienti, affetti, realtà, sensibilità che sono ben più complesse di un ufficio giudiziario” [22].

La professoressa Marilisa D’Amico osserva: “Sono convinta che incrementare la presenza femminile ai vertici della magistratura significhi lanciare un messaggio importante non alle sole donne, ma a tutta la società affinché si possa davvero raggiungere quella «democrazia fatta di donne e uomini» (On. Mattei, 18 marzo 1947), che sognavano le nostre Costituenti”[23].

Per quanto riguarda la rappresentanza all’interno degli organi di autogoverno, al CSM le prime donne sono entrate nella consiliatura 1981-86, elette dal Parlamento e non dalla magistratura stessa; solo nella consiliatura 1986-90 fu eletta la prima consigliera togata. Nel 1994 Elena Paciotti divenne la prima -  e finora unica - donna presidente dell’ANM. È interessante notare che a questo punto si pone – e si porrà sempre più con l’andare degli anni - un problema di rappresentanza, dato che una rappresentanza maschile di una popolazione per lo più femminile non è di per sé rappresentativa. L’ultima riforma della giustizia approvata dal Parlamento (cosiddetta riforma Cartabia) prevede che le candidature per l’elezione del CSM dovranno rispecchiare paritariamente entrambi i generi, e qualora questa parità non venisse rispettata prevede un’estrazione a sorte delle candidature mancanti tra tutti i magistrati che sono eleggibili e che non hanno già manifestato la loro indisponibilità; quindi è stata sancita una parità di genere nelle candidature ma non nel risultato dell’elezione.

È però indispensabile ricordare che non si tratta solo di un problema di numeri: non è e non sarà sufficiente la mera presenza di donne nelle professioni e nei ruoli direttivi; è e sarà sempre necessario che quelle donne presenti siano portatrici della consapevolezza di quanto è stato difficile il percorso per arrivarci, e di quanto non sia l’omologazione al modello maschile l’obiettivo, bensì la valorizzazione del proprio punto di vista.

Rosanna Oliva de Conciliis – promotrice della sentenza costituzionale del 1963, oggi impegnata anche nella promozione del doppio cognome in Italia e fiera del suo – nel 2017 rifletteva: “Se qualcuno mi avesse detto nel 1960, durante l’udienza della Corte costituzionale, che dopo cinquantasette anni io sarei stata ancora qui a parlare di come raggiungere l’uguaglianza di genere nella magistratura e la democrazia paritaria in Italia, non so se mi sarei disperata, oppure mi sarei augurata ottimisticamente di avere una vita lunga per combattere ancora con la speranza di ottenere dei risultati” [24].

 

La giudice. Il peso di un articolo femminile.

Olympe de Gouges pubblicò la sua Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina nel 1791, in risposta alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, scritta totalmente al maschile due anni prima all’esito della rivoluzione francese. Nel Preambolo della sua Dichiarazione Olympe scriveva che “l’ignoranza, l’oblio o il disprezzo dei diritti della donna sono le sole cause del pubblico malessere e della corruzione dei governi”.  Fu ghigliottinata. La sua voce, la voce delle donne, i diritti e l’uguaglianza giuridica delle donne facevano paura perfino a chi proclamava Liberté, Égalité, Fraternité.

“La lingua, come il diritto, non è mai neutra perché racconta la storia della nostra identità e di come vediamo il mondo” ribadisce con forza Paola Di Nicola Travaglini [25], che nel libro La giudice (2012) ha raccontato quanto è stato lungo e difficoltoso il percorso personale e professionale che l’ha condotta finalmente a firmarsi con quell’articolo femminile. Già, perché l’ignoranza grammaticale dilaga nel ministero della giustizia, dove nonostante l’ormai maggioritaria presenza femminile sia nella magistratura sia, ancor di più, nel personale amministrativo, il femminile non esiste: giudici, procuratori, cancellieri, direttori, tutti uomini anche quando sono tutte donne. È il ruolo, si sente rispondere chi fa notare l’errore. Eppure Elisabetta II non ha mai pensato di farsi chiamare “king” perché “the crown” è un ruolo.

Stanislaw Lec affermò che molte cose non sono venute al mondo perché nessuno ha trovato loro un nome. Oggi sembriamo soffrire della patologia opposta: abbiamo delle realtà che esistono, ma a cui non sempre viene attribuita una corretta identità verbale. L’utilizzo del maschile anche riguardo alle donne è un errore grammaticale, che non solo pone delle difficoltà interpretative indebolendo la coesione testuale del discorso, ma ha come effetto sociale quello di oscurare la figura femminile, di far sparire le donne anche quando ci sono: quest’uso del genere maschile assume quindi un significato sessista e costituisce un’importante discriminazione nei confronti delle donne. Anche l’Accademia della Crusca ha da tempo affermato che la declinazione al femminile delle professioni è corretta in base alle regole della lingua italiana, ed è anzi auspicabile proprio per ragioni di coerenza e chiarezza. Si capisce quindi che tale resistenza non è affatto grammaticale, ma puramente culturale: nessuno mai si sognerebbe di dire che Naomi Campbell è un modello, che Federica Pellegrini è un nuotatore, che Milly Carlucci è un presentatore televisivo, o che Elisabetta II era il re di Gran Bretagna; quindi appare chiaro che il rifiuto di pronunciare “avvocata” o “ingegnera” o “ministra” è puramente un rifiuto culturale. D’altra parte un uomo non accetterebbe mai di essere definito “maestra” o “infermiera” solo perché esercita una professione tradizionalmente femminile, lo riterrebbe ridicolo, quindi perché noi donne dovremmo accettarlo? È un diritto banale e allo stesso tempo fondamentale quello di essere definite correttamente in ogni ambito lavorativo e istituzionale, e solo l’abitudine quotidiana può far accettare l’utilizzo di queste parole. È quasi incredibile quanto faccia paura riconoscere l’esistenza linguistica e quindi sociale delle donne. Davvero chi si ostina a dire che il maschile è neutro perché ciò che conta è il ruolo e non il linguaggio non si rende conto che in questo modo dimostra quanto il linguaggio sia importante, perché se non lo fosse non ci sarebbe costantemente – in ogni contesto – questa rigida levata di scudi contro la corretta grammatica italiana. Non è negando la nostra identità di donne che sfonderemo il soffitto di cristallo. Non è facendo finta di essere uomini che otterremo l’uguaglianza sostanziale. Non è occultando il nostro femminile che porremo fine alle discriminazioni.

Per dimostrare che l’Italia non è un paese per donne, il 27 luglio 2022 il Senato italiano ha bocciato l’emendamento proposto dalla senatrice Maiorino al nuovo regolamento interno che impegnava ad assicurare “il rispetto della distinzione di genere nel linguaggio attraverso l’adozione di formule e terminologie che prevedano la presenza di ambedue i generi attraverso le relative distinzioni morfologiche, ovvero evitando l’utilizzo di un unico genere nell’identificazione di funzioni e ruoli, nel rispetto del principio della parità tra uomini e donne”. La senatrice proponeva semplicemente che il Senato della Repubblica italiana utilizzasse correttamente la lingua italiana. Il Senato della Repubblica italiana ha deciso invece di rappresentare la propria nazione avallandone, promuovendone e istituzionalizzandone l’ignoranza e la malafede.

Ha commentato la senatrice Valeria Valente, presidente della Commissione parlamentare sul femminicidio: “Ciò che è avvenuto oggi al Senato è gravissimo. […] Il linguaggio è un fattore fondamentale di parità. Verbalizzare la differenza vuol dire riconoscerla, negarla vuol dire chiedere l’omologazione. Il ruolo non è neutro, è maschile. Impedire alle donne di essere riconosciute nel ruolo che svolgono significa dare per scontato che quel ruolo sia appannaggio maschile. Il tema non si è mai posto per maestra o infermiera, chiediamoci perché si pone per parlamentare o presidente. Negare questo passo di civiltà e di progresso a una delle più importanti istituzioni del Paese racconta molto dei rischi che una cultura reazionaria può innescare”.

Le raccomandazioni sull’uso non sessista della lingua italiana di Alma Sabatini risalgono ormai al 1987, eppure sono ancora inattuate in gran parte delle amministrazioni italiane. Anche la Direttiva 2006/54/CE del Parlamento e del Consiglio Europeo dispone che le amministrazioni pubbliche devono utilizzare in tutti i documenti di lavoro un linguaggio non discriminatorio. Quanto ancora dobbiamo aspettare per chiamarci col nostro nome?

 

Allez les filles, au travail!

La magistratura, negli ultimi anni, sta attraversando scandali e riforme che probabilmente, come spesso accade in Italia, nulla cambieranno. Ciò che cambia invece è la degenerazione impiegatizia e carrieristica di un lavoro che è prima di tutto un servizio pubblico, il più alto dopo quello della rappresentanza politica, e che invece oggi è misurato, come ogni altro aspetto della nostra vita professionale, solo con numeri e indici di produttività. Ma se il lavoro di giudice diventa niente più che il lavoro di un impiegato diviene difficile giustificare i privilegi che quel contratto di lavoro pubblico mai privatizzato comporta.

Gabriella Luccioli osserva che “la soluzione di ogni dilemma deve essere ispirata dalla finalità non già di far carriera, ma dall’ambizione di adempiere nel modo migliore alla funzione di garanzia della legalità e dei diritti delle persone”. Alle giovani magistrate ricorda: “mi è sempre apparso essenziale avere la memoria delle tante battaglie che hanno segnato la storia delle donne nel nostro Paese e far emergere con forza nella giurisdizione i valori, la dignità, la sensibilità e i diritti delle donne. Questa consapevolezza mi ha suggerito di non abbassare mai la guardia a presidio delle vittorie già ottenute sul piano dei diritti, perché non è vero che le conquiste raggiunte sono definitive, ma è piuttosto vero che esse esigono di essere sempre riaffermate e difese. In particolare in questi tempi difficili è percepibile un’onda lunga di ritorno che spinge all’indietro, cancellando diritti e posizioni che sembravano definitivamente acquisiti. […] Sul piano culturale vanno superate le residue discriminazioni di genere dirette e indirette che ancora esistono nella società e nella famiglia, che si sostanziano in una rigida divisione dei  ruoli nell’ambito domestico, con inevitabili ripercussioni sulla vita professionale delle donne; discriminazioni che anche al nostro interno si riproducono in  forma strisciante attraverso atteggiamenti di diffidenza o di sfiducia  o attraverso criteri di selezione per gli uffici direttivi e semidirettivi che pur apparentemente neutri finiscono per penalizzare le donne”. E conclude, ricordando che la libertà delle donne deriva da un insieme di diritti e non dal riconoscimento di uno solo: “Ci sono ancora tante cose nel nostro Paese che offendono le donne e che vanno contrastate: dalla disciplina del  cognome dei figli bloccata dagli incredibili ritardi del legislatore (a dimostrazione che il restringimento dell’area dei diritti può avvenire anche con il non fare), alla persistente violazione e reificazione del corpo femminile, alla volgarità dei messaggi pubblicitari, alla declinazione sempre al maschile di termini che ben possono essere tradotti al femminile, ad alcune infelici motivazioni di sentenze penali di cui la stampa ha avuto di recente occasione di occuparsi. Il percorso da compiere per superare archetipi culturali resistenti al cambiamento è ancora lungo ed esige una chiara consapevolezza ed un forte impegno delle magistrate, soprattutto delle più giovani” [26].

Rivendicare la parità di diritti e la pari dignità sociale di ogni essere umano, in quanto essere umano, non significa solo lottare per una parte della società storicamente discriminata, ma significa lottare per tutta la società, per renderla migliore e più libera.

Valeria Solesin, giovane italiana uccisa nel massacro del Bataclan a Parigi nel 2015, aveva intitolato un suo studio sul tema dell’occupazione delle donne in Francia e in Italia “Allez les filles, au travail!” Forza ragazze, al lavoro!

note

[1] F. Tacchi, Eva togata. Donne e professioni giuridiche in Italia dall’Unità a oggi, Torino, UTET, 2009.

[2] E. Ranelletti, La "donna-giudice" ovverosia la "grazia" contro la "giustizia", Milano, Giuffrè, 1957.

[3] E. Cantarella, L’ambiguo malanno. Condizione e immagine della donna nell’antichità greca e romana, Milano, Feltrinelli, 2021, pp. 145-146.

[4] M. T. Covatta, Per non dimenticare le donne afghane, in Giustizia Insieme, 16/05/2022, https://www.giustiziainsieme.it/it/attualita-2/2326-per-non-dimenticare-le-donne-afghane

[5] V. Onida, La parità di genere in magistratura: tra eguaglianza e differenza, in M. D’Amico, C. M. Lendaro, C. Siccardi, Eguaglianza di genere in magistratura, Milano, Franco Angeli, 2017, p. 26.

[6] L. Poët, Condizione della donna rispetto al diritto costituzionale e al diritto amministrativo nelle elezioni. Dissertazione per la laurea in leggi, Pinerolo, 1881. Conservata nella Biblioteca Arturo Graf dell’Università di Torino.

[7] Intervista pubblicata su Il popolo, marzo 1949, cfr. Clara Bounous, La toga negata, Alzani Editore, 1997, p. 43.

[8] Corte d’appello di Torino, Sentenza 11/11/1883.

[9] Sul tema ho scritto: Nel nome della madre https://www.filodiritto.com/nel-nome-della-madre; Nel nome della madre bis https://www.filodiritto.com/nel-nome-della-madre-bis

[10] Corte di Cassazione di Torino, Sentenza 18/04/1884.

[11] Su Lidia Poët: C. Ricci, Lidia Poët. Vita e battaglie della prima avvocata italiana, pioniera dell'emancipazione femminile, Torino, Graphot, 2022; C. Viale, Lidia e le altre, Milano, Guerini Next, 2022.

[12] F. Tacchi, Eva togata, cit, p. 129

[13] G. Luccioli, Diario di una giudice. I miei cinquant’anni in magistratura, Udine, Forum, 2016, p. 21.

[14] N. Gandus, Organizzazione degli uffici ed esercizio delle funzioni giurisdizionali: essere donna fa la differenza?, Relazione al convegno organizzato da MD su “Magistratura e differenza di genere”, Milano, 17/04/2004.

[15] G. Luccioli, Diario di una giudice, cit., pp. 23-24.

[16] Su Francesca Morvillo ho scritto: https://www.noidonne.org/articoli/francesca-morvillo-18764.php

[17] R. Bader Ginsburg, My own words, New York, Simon & Schuster, 2018, p.136.

[18] P. Di Nicola, La giudice. Una donna in magistratura, Roma, Ghena, 2012, p.23.

[19] G. Luccioli, Diario di una giudice, cit., p. 101.

[20] P. Di Nicola, La giudice, cit., p. 68.

[21] Dati tratti da: CSM Ufficio statistico, Distribuzione per genere del personale di magistratura (aggiorn. marzo 2022), in https://csmapp.csm.it//web/csm-internet/statistiche/analisi-e-studi/-/asset_publisher/39latxhTFMDe/content/donne-in-magistratura?inheritRedirect=false

[22] P. Di Nicola, La giudice. cit., p. 98.

[23] M. D’Amico, Introduzione a Eguaglianza di genere in magistratura, Milano, Franco Angeli, 2017, p. 16.

[24] R. Oliva de Conciliis, L’uguaglianza di genere tra Costituzione, Giudici e Parlamento, in M. D’Amico, C. M. Lendaro, C. Siccardi (a cura di), Eguaglianza di genere in magistratura, cit., p. 42.

[25] P. Di Nicola, La giudice. cit., p.130.

[26] Intervista di Paola Filippi a Gabriella Luccioli, Consigli alle giovani magistrate. in Giustizia Insieme, 24/10/2019, https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/758-consigli-alle-giovani-magistrate-intervista-di-paola-filippi-a-gabriella-luccioli?hitcount=0