Nel nome della madre bis
Il nome è potere, esistenza,
possibilità di diventare memorabili,
degne di memoria,
degne di entrare nella storia in quanto donne.
Lidia Menapace, prefazione a Parole per giovani donne
Dove eravamo rimasti?
Nella scorsa puntata di questa storia del doppio cognome in Italia, ci eravamo lasciati chiedendoci quale sarebbe stata la prossima decisione della Corte costituzionale, che aveva sollevato avanti a sé stessa la questione di legittimità riguardante l’art. 262 del codice civile con questa domanda: “l’accordo dei genitori sul cognome da dare al figlio può rimediare alla disparità fra di loro se, in mancanza di accordo, prevale comunque quello del padre?” L’interrogativo nasceva dall’applicazione pratica della sentenza costituzionale 286 del 2016, con la quale la stessa Corte aveva dichiarato l’illegittimità delle norme sull’attribuzione del cognome nella parte in cui non consentivano ai genitori, di comune accordo, di trasmettere ai figli al momento della nascita anche il cognome materno. In base a quella pronuncia il Ministero dell’Interno, nel giugno 2017, aveva emanato una circolare con la quale chiariva agli ufficiali di stato civile che era ora possibile, in caso di concorde volontà dei genitori, attribuire ai nuovi nati «anche» il cognome materno.
Due condizioni, quindi, venivano richieste per poter dare il doppio cognome: l’accordo tra i genitori e la posposizione del cognome materno, conservando sempre in prima posizione quello paterno. È purtroppo evidente che entrambe queste condizioni costituiscono una discriminazione, perché solo una dei due genitori ha bisogno dell’accordo (o, per meglio dire, del permesso) dell’altro per poter attribuire ai suoi figli il proprio cognome, e perché l’ordine dei cognomi privilegia inderogabilmente il padre.
Un grande passo avanti, quindi, era stato compiuto dalla Corte costituzionale, un passo storico nel cammino dei diritti delle donne e dei figli, ma ancora non sufficiente ad eliminare ogni forma di discriminazione. La Corte costituzionale si era pronunciata in base a ciò che le veniva chiesto, laddove la domanda dei genitori che avevano ricorso alla giustizia per avere giustizia chiedeva appunto l’attribuzione di entrambi i cognomi; purtroppo però riconoscendo la legittimità della loro richiesta aveva finito per introdurre una nuova forma di discriminazione, perché in assenza dell’accordo dei genitori lasciava prevalere l’attribuzione del cognome paterno, “in attesa di un indifferibile intervento legislativo, destinato a disciplinare organicamente la materia, secondo criteri finalmente consoni al principio di parità”. “Indifferibile” e “finalmente”: due parole molto gravi, non scelte a caso, pronunciante nei confronti del Parlamento. La Corte aveva sollecitato già più volte il legislatore ad intervenire organicamente su questa materia, rinviando la pronuncia di incostituzionalità della norma che era già indicata come palesemente incostituzionale; questa scelta era determinata da quella judicial deference in virtù della quale il potere giudiziario lascerebbe al potere legislativo la facoltà e il compito di disciplinare materie complesse suscettibili di diverse soluzioni. Eppure il Parlamento, interpellato con così gravi parole, ha scelto nuovamente di non rispondere a questa sollecitazione della Corte costituzionale, e perciò, a distanza di sei anni, a seguito di due nuovi ricorsi proposti da genitori coraggiosi che non si arrendono di fronte al NO dell’amministrazione del loro Stato, la Corte costituzionale è stata nuovamente chiamata ad intervenire, per scrivere un nuovo capitolo nella storia del doppio cognome in Italia.
Davide contro Golia
La sentenza 131 del 2022 nasce da due diverse questioni di legittimità sollevate rispettivamente dal Tribunale di Bolzano e dalla Corte d’appello di Potenza. Sembra il caso di ricordare, infatti, che nel nostro Paese la Corte costituzionale non decide essa stessa su cosa pronunciarsi, né si pronuncia su tutte le leggi che vengono approvate dal Parlamento; nel nostro sistema la Corte decide su norme di legge su cui altri giudici ordinari hanno un dubbio di legittimità costituzionale, o per loro stessa iniziativa, o su iniziativa delle parti in causa. Ciò che è importante evidenziare, cioè, è che dietro ogni pronuncia della Corte costituzionale, dietro ogni sua storica decisione, ci sono sempre persone che hanno deciso di dedicare tempo, impegno e soldi convinti/e che spetti loro il riconoscimento di un diritto; ci sono persone che non si sono arrese di fronte né al primo, né al secondo, né di fronte a molti altri “no”, né di fronte a tanti “non ne vale la pena”, “chi te lo fa fare?”. È bene ricordare che dobbiamo tanti dei nostri diritti a persone come loro. Perché non è affatto facile scontrarsi contro Golia, quando si è Davide. Ci vogliono non solo coraggio e astuzia, ma soprattutto una forza di volontà che non possediamo tutti/e, oltre alla granitica consapevolezza di essere nel giusto. Per questo è a dir poco interessante scoprire da cosa e da chi nascono queste pronunce della Corte costituzionale.
La questione proveniente da Bolzano riguardava due genitori che al momento della nascita della loro figlia avevano dichiarato di volerle attribuire il solo cognome materno; la dichiarazione è stata fatta presso la direzione sanitaria dell’ospedale dove è avvenuta la nascita, ma quando l’ufficiale di stato civile del Comune di Merano ha ricevuto tale dichiarazione ha ritenuto di dover presentare istanza alla Procura per ottenere la rettifica d’ufficio dell’atto di nascita di H.M. attribuendole il doppio cognome, così come previsto dalla sentenza 286 del 2016 della Corte costituzionale; la Procura ha promosso ricorso, e davanti al Tribunale questi due genitori hanno ribadito la propria volontà di attribuire alla loro figlia il solo cognome materno, da loro preferito in combinazione col nome prescelto, con queste parole: “Riteniamo che la possibilità di attribuire il solo cognome materno debba essere riconosciuta anche in Italia, come accade nella maggior parte d’Europa”. Quanto ci perdiamo a non guardare più in là del nostro naso!
Ancora più particolare è il caso dei genitori lucani, che avevano chiesto di attribuire al loro terzo figlio il solo cognome materno: tale scelta derivava dal fatto che le loro altre due figlie, nate quando non erano sposati, erano state riconosciute prima dalla madre acquistando così solo il suo cognome, e quindi i genitori sentivano la comprensibile necessità di non creare differenze tra sorelle e fratello; l’ufficiale di stato civile, invece, aveva iscritto quest’ultimo figlio col doppio cognome, il Tribunale di Lagonegro aveva rigettato il ricorso proposto dai genitori, decisione da loro ricorsa di fronte alla Corte d’appello.
Ravvisando entrambe queste corti – il Tribunale di Bolzano [1] e la Corte d’appello di Potenza [2]– profili di illegittimità costituzionale nelle norme che non consentono ai genitori, di comune accordo, di attribuire il solo cognome materno, hanno chiesto alla Corte costituzionale di pronunciarsi.
Una questione d’identità
Il 27 aprile 2022 la Corte costituzionale, dopo aver esaminato le questioni di legittimità, pubblica un comunicato stampa con cui rende noto che “sono state dichiarate illegittime per contrasto con gli articoli 2, 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli articoli 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo” le norme che, in mancanza di accordo dei genitori, impongono il cognome del padre anziché quello di entrambi. “La Corte ha ritenuto discriminatoria e lesiva dell’identità del figlio la regola che attribuisce automaticamente il cognome del padre. Nel solco del principio di eguaglianza e nell’interesse del figlio, entrambi i genitori devono poter condividere la scelta sul suo cognome, che costituisce elemento fondamentale dell’identità personale”.
Due sono, quindi, i diritti da tutelare: l’identità dei figli e l’uguaglianza dei genitori, o meglio ancora la loro pari dignità, a cui si aggiunge la necessità di salvaguardare l’unità del nucleo familiare. Non è cioè accettabile dover rispondere alla domanda di un bambino o una bambina «Perché il mio cognome è Rossi?» con la risposta «Perché il cognome è quello del padre». Non è accettabile, non è costituzionale, non è dignitoso. Punto. Non sono ammissibili obiezioni a questa constatazione. Perché se è vero – come l’articolo 3 della nostra Costituzione dice da più di settant’anni – che non ci possono essere discriminazioni tra uomini e donne, allora non c’è nulla che giustifichi l’attribuzione del cognome del maschio padre a figli e figlie che vengono riconosciuti da entrambi i loro genitori. Volendo cercarla, esisterebbe una giustificazione biologica che consentirebbe di attribuire automaticamente il solo cognome materno perché sono le donne a partorire, ma, pensate, le donne non chiedono privilegi, chiedono solo di essere trattate con lo stesso rispetto riservato agli uomini.
La Corte deposita la sentenza il 31 maggio 2022 [3]: è una sentenza scritta da una donna, la giudice Emanuela Navarretta, che non ha timore a firmarsi proprio “la” giudice, riconoscendosi in quell’articolo femminile di cui tante altre sue colleghe invece si ostinano a non comprendere l’importanza.
La sentenza ripercorre “il lungo arco temporale che oramai ha superato il trentennio” in cui la Corte “è stata chiamata più volte a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale della norma” in esame, lungo percorso che abbiamo già raccontato nella scorsa puntata di questa nostra storia del doppio cognome. Trent’anni! Stiamo in Italia discutendo di doppio cognome da oltre trent’anni, e nonostante siano trascorsi più di settant’anni dall’affermazione del principio di uguaglianza! C’è davvero qualcosa che non va in tutto questo.
La Corte ribadisce che nome e cognome rappresentano “il nucleo dell’identità giuridica e sociale della persona”, incarnano “la rappresentazione sintetica della personalità individuale, che nel tempo si arricchisce progressivamente di significati”, perciò costituiscono un “diritto fondamentale della persona umana”. “Sono, dunque, proprio le modalità con cui il cognome testimonia l’identità familiare del figlio a dover rispecchiare e rispettare l’eguaglianza e la pari dignità dei genitori”. Selezionare la “sola linea parentale paterna, oscura unilateralmente il rapporto genitoriale con la madre”. Oscura. Un’altra parola molto potente: le donne danno la vita a figli e figlie, ma nel loro nome, nella loro identità vengono oscurate, diventano invisibili. Perché per esistere socialmente è indispensabile essere nominate. È l’essere nominate che riconosce la nostra cittadinanza in questo Paese e in questo mondo.
Scrive ancora la Corte che l’unità della famiglia e l’uguaglianza dei genitori “non possono coesistere se l’una nega l’altra, se l’unità opera come un limite che offre un velo di apparente legittimazione a sacrifici imposti in una direzione solo unilaterale. A fronte dell’evoluzione dell’ordinamento, il lascito di una visione discriminatoria, che attraverso il cognome si riverbera sull’identità di ciascuno, non è più tollerabile”. Attenzione: il fatto che la Corte dichiari incostituzionale oggi questa discriminazione non vuol dire che quella norma ieri non fosse discriminatoria, perché quella norma è discriminatoria fin dal 1948, cioè fin da quando è stata riconosciuta l’eguaglianza tra uomini e donne; ciò che cambia nel tempo è la sensibilità verso quella norma, ma non il suo essere intrinsecamente discriminatoria. Le donne e i figli, cioè, sono discriminati nella loro identità di cittadine/i italiane/i da oltre settant’anni. Come sottolinea l’avvocata Pina Rifiorati, si tratta di “una discriminazione codificata dal nostro ordinamento a danno delle madri” [4].
Ma dal 2016 è consentito, in caso di accordo dei genitori, attribuire anche il cognome materno, oppone qualcuno. Risponde la Corte: “senza eguaglianza mancano le condizioni logiche e assiologiche di un accordo”. Cioè, come si diceva, anche quella previsione è discriminatoria perché solo una dei due genitori ha bisogno dell’approvazione dell’altro per attribuire il proprio cognome. E davvero oggi tanti uomini sono disponibili a quell’accordo? Davvero sono disponibili a cedere quell’ultimo pezzo di privilegio patriarcale che li distingue come uomini? Ci rifletterò più avanti, ma tenete a mente questo punto interrogativo.
La Corte, “preso atto che delle numerose proposte di riforma legislativa, presentate a partire dalla VIII legislatura, nessuna è giunta a compimento, non può più esimersi dal rendere effettiva la legalità costituzionale. Il carattere in sé discriminatorio della disposizione censurata, il suo riverberarsi sull’identità del figlio e la sua attitudine a rendere asimmetrici, rispetto al cognome, i rapporti fra i genitori devono essere rimossi con una regola che sia il più semplice e automatico riflesso dei principi costituzionali coinvolti”. Non si può attendere oltre, afferma quindi la Corte, il tempo è ora. Veramente il tempo era settant’anni fa, ma dobbiamo accontentarci dell’ora. Il Parlamento si ostina ad ignorare i diritti delle sue cittadine? La Corte costituzionale non può più farlo.
Ed è per tutti questi motivi che “il cognome del figlio deve comporsi con i cognomi dei genitori”, salvo loro diverso accordo. Deve. Il doppio cognome è l’unica previsione che rispetta il principio di uguaglianza dei genitori, esso è “il riconoscimento più immediato e diretto del paritario rilievo di entrambe le figure genitoriali”.
Deve. È necessario evidenziare anche un altro aspetto essenziale di questo “deve”. Di fronte alle plurime istanze giuntele, non è che la Corte avesse una scelta diversa su come dirimere la questione, perché l’Italia è vincolata dalle numerose normative sovranazionali a cui ha aderito, che vanno tutte nella direzione del riconoscimento della pari dignità della donna in ogni contesto e della tutela dell’identità dei figli. Ricordiamo - se qualcuno l’ha dimenticato dalla scorsa puntata - che l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani nel 2014 per non avere una normativa che consenta l’attribuzione del doppio cognome ai figli. 2014! Qualunque sentenza della Corte e qualunque legge arriva comunque sempre tardi rispetto ai doveri internazionali dell’Italia: la Carta di Nizza, la Convenzione di New York sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti della donna, la Convenzione europea sui diritti umani. Ma forse è anche il caso di notare che lo Stato italiano non sembra gran che interessato alle condanne inflittegli dalla Corte europea, visto che continua a collezionarne per non aver protetto donne dalla violenza dei loro compagni eppure noi donne continuiamo a morire uccise dai nostri compagni senza che ciò susciti alcuno scandalo in chi è responsabile di non averci protette.
L’importanza storica di questa sentenza costituzionale – come evidenzia l’avvocata Antonella Ida Roselli – sta nell’aver riconosciuto preminenza assoluta al principio di uguaglianza e di pari dignità dei genitori, che in quanto principio fondamentale “prevale su qualsiasi norma ordinaria e regolamentare in contrasto con esso, e che non ammette vuoto normativo” [5], anzi obbliga la Corte – organo di garanzia costituzionale – ad intervenire anche nel caso di inattività del Parlamento. Spiega la giudice Emanuela Navarretta: “Il cognome ha in sé le nostre radici. Chiarisce qual è il nucleo sociale cui apparteniamo, quale famiglia ci ha accolto. La donna era resa invisibile: con lei si interrompeva la discendenza. Ecco, la Corte ha voluto dichiarare illegittima una norma che identificava l’identità della persona esclusivamente nel ramo familiare maschile. Sì, non si poteva più aspettare” [6]. Non si poteva più aspettare! Questa sentenza non elimina l’ingiustizia fin qui compiuta, ma almeno vi mette fine, la elimina dal nostro ordinamento. In altre parole, questa sentenza rende giustizia costituzionale: “Rendere giustizia costituzionale significa contribuire, anche in misura minima e marginale, a inverare la Costituzione nell’ordinamento, traendola dal rarefatto campo delle norme ‘super-primarie’, per farla diventare materia viva della convivenza sociale, presente negli accordi e nei conflitti, garanzia molecolare di libertà e di eguaglianza nella società civile e nei rapporti tra questa e l’autorità dello Stato” [7].
Dal giorno successivo al deposito della sentenza costituzionale, quindi, in Italia vige la regola del doppio cognome attribuito ai figli e alle figlie, nell’ordine scelto dai genitori. Non si può infatti prevedere l’obbligatoria preposizione né dell’uno né dell’altro, perché in entrambi i casi sarebbe una previsione discriminatoria; come negli altri Paesi che prevedono il doppio cognome sta ai genitori sceglierne l’ordine. In mancanza di accordo sull’ordine dei cognomi, la Corte non può che rimandare all’intervento del giudice, così come previsto in ogni altro caso di disaccordo sulle scelte di vita familiare. Ma io mi domando: che specie di relazione familiare hanno e soprattutto quale disgustoso esempio di genitorialità offrono ai propri figli due genitori che non sono d’accordo sul cognome da attribuire loro? È meglio non avere figli se si hanno questi dubbi.
Il diverso accordo
Eccezione alla regola del doppio cognome è prevista dalla Corte nel caso in cui i genitori decidano, appunto d’accordo, di attribuire ai figli uno solo dei loro due cognomi. E qui casca l’asino, diranno in molte. E purtroppo devo dirlo anch’io. Non è però colpa della Corte costituzionale se quest’asino casca. È colpa della cultura patriarcale che ancora ci pervade. Quanto non piace questa parola – patriarcato -, quanto la si percepisce lontana, medievale. Ma quale patriarcato, dicono gli uomini, ormai le donne sono dappertutto! Ma quale patriarcato, dicono le donne, noi siamo libere, possiamo fare tutto! È banale ricordare che tra il dire e il fare c’è di mezzo l’oceano?
Le leggi son, ma chi pon mano ad esse? Si chiedeva Dante nel Purgatorio. Cioè tra quello che dice la legge e quello che quotidianamente viviamo c’è spesso un po’ di differenza. Osserva, tra le altre, la professoressa Carla Bassu: “Di fatto allora il rischio è che affidandosi esclusivamente alla volontà dei coniugi, la trasmissione del cognome materno rimanga una prassi di nicchia riservata alle ipotesi in cui c’è appunto la volontà concorde o comunque esiste una sensibilità particolare alla tematica. Questo non è giusto! Perché la nostra priorità, il nostro obiettivo, è quello di consentire la parità nella rivendicazione identitaria di sé stessi e della dignità personale. L’identità è composta anche dal nome e questo vale tanto per le donne quanto per gli uomini” [8].
In questi mesi di riflessione sulla storia del doppio cognome in Italia una frase mi ha colpita moltissimo: “lasciateci almeno quello”. Dato che ormai avete tutto, lasciateci almeno il cognome, dicono gli uomini. Innanzitutto se l’attribuzione del cognome non è importante, come oggi sostengono in molti e tristemente molte per conservare l’attribuzione di quello paterno, perché tutta questa ostinazione? Se non è importante non dovrebbe pesare rinunciare a questo privilegio, no? Invece se è così difficile rinunciarci, se rinunciarci viene percepito come un attentato alla propria virilità, vuol dire che importante è. È fondamentale, anzi, perché è un mattone delle fondamenta della nostra personalità individuale e sociale.
“Lasciami almeno quello”. Una donna, una madre, mi ha raccontato di essersi sentita dire questo dal padre di sua figlia, poco prima che sua figlia nascesse. È molto potente questa frase, quindi vi invito davvero a rifletterci. Chiedere – o meglio, pretendere – che agli uomini venga lasciato “almeno” il privilegio di trasmettere il cognome ai figli significa che per gli uomini è indispensabile conservare qualcosa – fosse anche solo una cosa – che li distingua e garantisca loro un privilegio rispetto alle donne; significa che la piena uguaglianza è inaccettabile per loro; significa che per sentirsi uomini in questo mondo hanno la necessità di conservare almeno un elemento di distinzione e superiorità rispetto alle donne; significa che sentono la necessità di dimostrare ai propri figli chi ha più potere in questo mondo. Questo significa quella frase. Significa qualcosa di profondamente triste, oltre che palesemente ingiusto. E il fatto che molte donne aderiscano a questa pretesa maschile, per debolezza, per conformismo, per quieto vivere, o peggio per convinzione che quel privilegio sia corretto e moralmente rispettabile è ancora più triste. Davvero volete lasciare ai vostri figli e alle vostre figlie un mondo così triste? Davvero vale la pena vivere quiete con un uomo che non riconosce il nostro diritto di esistere come cittadine, come madri, come persone umane quanto lui? È davvero quieto quel vivere? Perché sono sempre le donne a dover ridimensionare i propri diritti e le proprie aspirazioni per il quieto vivere? Perché sono sempre le donne a dover stare attente a non disturbare?
Comunque, anche se cascherà l’asino, almeno non ci potremo più lamentare, perché cascherà solo per colpa di chi lo farà cascare, e non di una legge italiana patriarcale e fascista che vieta l’esercizio di diritti fondamentali: la Corte costituzionale ha restituito ai cittadini e alle cittadine italiani la libertà di scelta che la legge ci negava. Adesso sta a noi dimostrare che ce la meritiamo quella libertà. Spiega ancora la giudice Navarretta: “Questo non è solo un passaggio simbolico. La parità si costruisce a partire dalla famiglia. E, chiamati a condividere una scelta, quale che sia, ora i genitori trasmettono una testimonianza della cultura dell’eguaglianza” [9].
Da un punto di vista pratico, non sono state stabilite le modalità di manifestazione del diverso accordo. Mentre a seguito della sentenza costituzionale del 2016, il Ministero dell’Interno attese mesi prima di adottare una circolare con cui chiariva agli ufficiali di stato civile come operare di fronte a quel cambiamento così epocale che consentiva ai genitori, in accordo, di apporre ai figli il doppio cognome, quest’anno, invece, il Ministero già il 1 giugno, quindi il giorno successivo al deposito della sentenza, ha pubblicato una circolare al riguardo [10]. Tale circolare chiarisce che la sentenza deve trovare applicazione a partire dal 2 giugno 2022, giorno successivo alla pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale. Dunque se il Parlamento si permette di dormire, il Ministero dell’Interno è ben sveglio e tempestivamente fornisce le dovute indicazioni. In queste indicazioni, tuttavia, come si diceva, non sono specificate le modalità pratiche con cui l’ufficiale di stato civile deve registrare il diverso accordo dei genitori, e questo ci lascia un punto interrogativo per tutti quei casi, di fatto numerosissimi, in cui è solo il padre ad effettuare la dichiarazione di nascita per evidenti diversi impegni della madre in quel momento: l’ufficiale di stato civile registrerà il bambino con il doppio cognome, come la regola impone, o si fiderà della parola del padre che dichiarerà un diverso accordo con la sua compagna?
Per la cronaca, non molto tempo fa ad Acerra un uomo ha aggredito la sua compagna negli uffici comunali per manifestare la sua contrarietà al fatto che la figlia venisse registrata col cognome della madre [11].
Le questioni aperte
La sentenza della Corte costituzionale si conclude con un duplice invito al legislatore, perché essa non può risolvere e non risolve tutte le questioni. Innanzitutto è necessario un intervento legislativo che stabilisca il criterio di trasmissione generazionale dei cognomi, perché allo stato attuale la circolare del Ministero dell’Interno del 2017 prevede che ai figli sia sempre attribuito il cognome completo del genitore o di entrambi i genitori; è evidente che al cambio generazionale ciò determinerebbe la moltiplicazione dei cognomi, ed è proprio questo il più spaventoso spauracchio che viene paventato da chi si oppone al doppio cognome. È uno spauracchio opportunista che denota ignoranza e/o malafede, perché tale problema non sorge minimamente nei Paesi ove vige il doppio cognome, e in particolare in Spagna e nei paesi latinoamericani: ai figli viene trasmesso solo uno dei cognomi di ciascun genitore, o il primo o a scelta. Si ricorda anche che in Portogallo si possono avere fino a quattro cognomi, quindi non sarebbe fuori dal mondo neanche quello. Stabilire il criterio di trasmissione è quindi una questione politica, che deve definire il Parlamento eletto dal popolo italiano, e il fatto che il Parlamento si ostini a non adottare una legge in merito, nonostante le ripetute sollecitazioni della Corte costituzionale e nonostante la condanna ricevuta nel 2014 dalla Corte europea, vuol dire che esso stesso, rappresentante del popolo italiano, avalla quello spauracchio, cioè preferisce scoraggiare chi avrebbe interesse a scegliere il doppio cognome per la paura di condannare i propri figli e nipoti a non avere una carta d’identità abbastanza grande da contenere i loro cognomi: è una scelta anti-politica, cioè contraria all’interesse della comunità, ed è una scelta di cui il Parlamento dovrà assumersi la responsabilità. L’obbligo posto dalla circolare del Ministero dell’Interno del 2017 attualmente mette in difficoltà le coppie di origine straniera, che hanno già un doppio cognome, e che quindi dopo la registrazione anagrafica con quattro o più cognomi devono ricorrere alla Prefettura o al Tribunale per cambiare il numero dei cognomi. Accolto senza anticorpi questo spauracchio, fomentato dall’ignoranza e dal patriarcato ammantato di tradizione, all’indomani della sentenza costituzionale il web e la televisione si sono riempiti di commenti inqualificabili e disinformati a tal riguardo, con ridicole battute e vignette che paventano un appello infinito a scuola. «Raga ma tutto ok? Se ne scelgono sempre due, ma finalmente è una scelta» ha replicato Chiara Ferragni, che con suo marito aveva già scelto nel 2018 di dare il doppio cognome ai propri figli. «Patriarcale la scelta di dare solo quello del padre», ha aggiunto, permettendosi di usare una parola così mal vista. Forse, dato che sperare nel miglioramento culturale legato allo studio è oggi chiedere troppo in una società così disinformata e disinteressata, almeno si può sperare che alcune persone note arrivino ai più con mezzi comunicativi a loro accessibili.
Ma c’è di più. Chi - cittadini e parlamentari - bolla il doppio cognome come qualcosa di inaudito e mai visto, oltre a non guardare più in là dei propri confini nazionali, non guarda neanche all’interno. Perché il nostro codice civile già prima delle sentenze della Corte costituzionale prevedeva l’imposizione del doppio cognome in alcuni casi, e in due in particolare: l’art. 262 del codice civile prevede (dal 1975) che nel caso di riconoscimento inziale della sola madre e successivo del padre, il cognome paterno si può aggiungere a quello materno. Allora non è cacofonico se si tratta del cognome maschile!
Secondo caso: tutte le donne coniugate in Italia hanno un doppio cognome, perché l’articolo 143bis del codice civile (anch’esso introdotto dalla riforma del diritto di famiglia nel 1975) prevede che la moglie aggiunge al proprio il cognome del marito. Aggiunge: tempo verbale indicativo presente. Che poi nella pratica non si usi, che la giurisprudenza lo consideri una facoltà e non un obbligo e che anche la prassi amministrativa non lo faccia apparire sempre nei documenti non ha alcuna importanza, allo stesso modo in cui non ha importanza che una persona che anagraficamente si chiama Maria Chiara sceglie di presentarsi in pubblico solo come Chiara: per la legge italiana quel secondo cognome c’è, anche se non si usa. Come già detto, se la cosa fosse reciproca, cioè se entrambi i coniugi aggiungessero al proprio il cognome dell’altro non sarebbe una norma discriminatoria, ma non è questo ciò che prevede la nostra legge. La nostra legge dice che Tizia appartiene a Caio, ma non che Caio appartiene a Tizia. «Tu non ti chiami più Cerullo. Tu sei la signora Carracci e devi fare quello che dico io», intima Stefano a Lila in Storia del nuovo cognome. «Chi non ha marito non ha nome» rammenta Oliva Denaro. Ed è proprio in virtù di quel senso di proprietà che gli uomini continuano ad uccidere le “loro” donne e i “loro” figli. Può lo Stato avallare quel pregiudizio discriminatorio che contribuisce a mettere in pericolo la vita di più di metà della sua popolazione? E come mai in questi decenni in cui il Parlamento si è scagliato contro l’introduzione del doppio cognome alla nascita non ha voluto mai abrogare quel vergognoso articolo del codice civile? Se il doppio cognome in sé è inutile e cacofonico perché il Parlamento sceglie di mantenerlo per le donne sposate? Basterebbe un minuto in ogni Camera per votare l’abrogazione di quell’articolo: possibile che la Camera e il Senato non trovino un minuto per farlo? È molto interessante, a questo riguardo, notare che la legge sulle unioni civili (Legge 76/2016) non prevede l’applicazione dell’articolo 143bis alle unioni; anzi, prevede che le parti possono stabilire di assumere, per la durata dell'unione civile, un cognome comune scegliendolo tra i loro cognomi e che ciascuna parte può anteporre o posporre al cognome comune il proprio cognome, se diverso, facendone dichiarazione all'ufficiale di stato civile, così come è previsto in altri Paesi europei che prevedono anche di trasmettere quel cognome familiare ai figli della coppia. Anche questo caso dimostra che per la legge italiana, è solo la moglie ad appartenere a suo marito, tutti gli altri/le altre sono liberi/e.
La seconda esigenza che la Corte costituzionale evidenzia al legislatore nella sua sentenza è imporre l’attribuzione dello stesso cognome a tutti i figli e le figlie della coppia, per salvaguardare la loro identità di fratelli e sorelle. E francamente sull’ovvia opportunità della condivisione del cognome tra fratelli e sorelle mi sembra che non ci sia nulla da aggiungere.
Ma l’intervento del Parlamento è necessario e indispensabile anche per un altro motivo, perché è doveroso precisare che tutte le norme dichiarate illegittime dalla Corte riguardano esclusivamente il momento attributivo del cognome, cioè il momento della nascita (e dell’adozione), perché è su questo contesto che la Corte è stata chiamata a pronunciarsi. Dopo la chiusura dell’atto di nascita non c’è altro rimedio per aggiungere o modificare il cognome diverso dall’istanza al Prefetto o, nei casi più complessi, dal ricorso al Tribunale. In quasi tutti i disegni di legge giacenti in Parlamento, invece, si prevede che l’aggiunta del cognome materno sarebbe possibile con una semplice dichiarazione all’ufficiale di stato civile, ed appare il caso di ribadire l’importanza di tale norma.
Già a seguito della sentenza della Corte costituzionale del 2016, la circolare del Ministero dell’Interno invitò le Prefetture a tener conto della pronuncia di illegittimità nella valutazione e quindi nell’accoglimento delle istanze volte ad aggiungere il cognome materno; sicuramente quindi la procedura di “cambiamento del cognome” è oggi più agevole rispetto al passato e soprattutto non lascia grandi dubbi sul suo esito positivo. Tuttavia si ribadisce con forza che si tratta di una procedura volta ad ottenere un permesso dall’amministrazione pubblica: il Prefetto emette un decreto che autorizza il richiedente all’affissione dell’istanza nell’Albo Pretorio dei Comuni di nascita e residenza; chiunque crede di avervi interesse può fare opposizione entro 30 giorni; dopodiché viene emesso un secondo decreto che autorizza il cambiamento richiesto e che deve essere annotato nell’atto di nascita dell’interessato, nell’atto di matrimonio e negli atti di nascita dei suoi figli. Si tratta, quindi, di una concessione amministrativa, e non del riconoscimento e dell’esercizio di un diritto. Si tratta, come acutamente osserva la professoressa Francesca Dragotto, di un procedimento “che rende eccezione ciò che dovrebbe e facilmente potrebbe essere normale e normato” [12]. È nella stessa denominazione del procedimento “cambiamento del cognome” che sta la sua ingiustizia: se, in base alla Costituzione, e alle sentenze che in virtù di essa la Corte costituzionale ha pronunciato, i cittadini e le cittadine italiani/e hanno diritto a riconoscersi con entrambi i cognomi dei propri genitori, così come i genitori hanno diritto di trasmettere ai figli e alle figlie ciascuno il proprio cognome, allora io per avere il mio cognome completo non posso dover chiedere il permesso, anche se la risposta a quella richiesta è sicuramente sì, devo poterlo fare e basta. L’esercizio del mio diritto non deve costituire né un’eccezione né un “cambiamento” rispetto ad una regola naturale e comune.
Qui sta l’importanza dell’intervento legislativo del Parlamento: nel riconoscere, in ogni momento della vita, l’esistenza e l’importanza di questo diritto. Ostinarsi nel silenzio è evidente sintomo della contrarietà a tale diritto – perché in questo caso non decidere è anch’esso un modo di decidere - e nella volontà tipicamente italiana di complicare l’esercizio di quei diritti che non è più possibile negare ma che si continua a voler ostacolare. Lo Stato dovrebbe non solo consentire l’esercizio di questo diritto nel modo più semplice possibile, ma dovrebbe anche dargli la massima pubblicità. Così come periodicamente invitate le donne a fare figli per aumentare il tasso di natalità nazionale, periodicamente invitate quelle donne e i loro compagni ad insegnare ai loro figli e figlie il principio di eguaglianza in base al quale hanno un doppio cognome. “Un nome è sia l’incarnazione di un passato che il potenziale per il futuro” [13].
Summum ius, summa iniuria
Tra le storie raccontate da chi, da adulta/o, ha scelto di intraprendere la strada del “cambiamento del cognome” per completare la propria identità sociale, una merita davvero di essere ricordata: quella della giornalista Monica Ricci Sargentini.
“Ho ottenuto il cognome di mia madre. Ci sono voluti undici anni, una discreta quantità di marche da bollo, qualche pila di documenti e tanta determinazione. Alla fine ce l’ho fatta, a dispetto di una legge inadeguata che finalmente ora la Corte Costituzionale impone di cambiare. La mia corsa a ostacoli è iniziata nel 1985 ed è finita nel 1996 quando mi recai a ritirare il documento al ministero di Grazia e Giustizia. Poche righe scarne: «Monica Ricci è autorizzata ad aggiungere al proprio il cognome Sargentini». Nessun accenno al fatto che quel cognome appartiene a mia madre, particolare assolutamente ininfluente da un punto di vista legale. Avrei potuto chiedere il cognome di un amico, di uno zio lontano, avrei potuto addirittura inventarne uno che mi piacesse, per la legge sarebbe stato esattamente lo stesso. La motivazione affettiva, il legame di sangue, non erano contemplati nella normativa italiana. Per cambiare il cognome dovevo avere una ragione economica: voler intraprendere la carriera della famiglia materna oppure essere figlio/a di una madre conosciuta pubblicamente. O, più banalmente, è facile ottenere sentenza favorevole se si ha un cognome osceno, evidente causa di imbarazzi. Il cognome è la tua identità, le origini che ti porti dentro. Da piccola passavo molto tempo con i miei nonni materni. Eravamo una grande famiglia con le nostre piccole tradizioni. L’estate andavamo in montagna e in albergo per tutti ero Monica Sargentini. Ma a scuola, inspiegabilmente, diventavo Ricci, come mio padre. E per me, bambina di sei anni, era impossibile capire perché mi venisse negato anche l’altro cognome. Era come essere tagliati fuori da un mondo che credevi tuo. Alle mie domande insistenti rispondeva mia nonna. «Il cognome è quello del padre» sentenziava senza possibilità di appello. E a me sembrava un’ingiustizia. Quando i miei nonni morirono decisi che quel cognome mi spettava di diritto. Avevo 20 anni. Ero sicura che sarebbe stata solo una formalità. Ma l’avvocato mi disilluse: «Devi trovare un motivo economico o professionale, altrimenti è impossibile». Non mi arresi. La mia è una famiglia di collezionisti d’arte, così dissi che volevo seguire le loro orme. Dopo due anni di pratiche legali mi trovai di fronte a un sostituto procuratore della Repubblica. Mi disse che avrei potuto ottenere il doppio cognome solo se non c’era «un maschio tra i Sargentini con un figlio maschio che si opponeva al procedimento». Le donne non contavano nulla, anzi ai fini della discendenza non esistevano. Fu una grande umiliazione ma avevo la vittoria in tasca. Mancava solo il consenso di mio padre che, però, pose il veto. «È la più grande offesa che mi sia stata fatta» mi disse. Oggi mi chiamo Monica Ricci Sargentini, anche per l’anagrafe. Ho vinto ma solo grazie a un sotterfugio. Per anni ho usato il cognome di mia madre a dispetto della legge. Ho firmato articoli, riempito moduli, ritirato pacchi alla posta in modo rocambolesco. Mi sono spacciata per quello che non ero, almeno formalmente. Ho creato, insomma, una situazione di fatto che alla fine non poteva non essere riconosciuta anche legalmente. È stata una battaglia solitaria perché il cognome, mi dicevano tutti, «dopotutto è solo una formalità, una sciocchezza». In questi anni sono stati presentati tanti progetti di legge ma nessuno ha tagliato il traguardo. A dimostrazione che, esattamente come per il linguaggio sessista, la forma è sempre sostanza” [14].
Questo è il racconto di Monica fatto nel 2016, che fa riferimento ad un momento storico in cui mancava addirittura la procedura prefettizia (introdotta nel 2000). Alcuni passaggi di questa storia, anzi di questa lunga battaglia, meritano una riflessione qui.
Monica Ricci è stata autorizzata ad aggiungere al proprio il cognome Sargentini: questa è la dicitura che ancora oggi la Prefettura utilizza, si tratta quindi di un’autorizzazione che consente un’eccezione alla regola, e non del riconoscimento di un diritto. Ciò che colpì Monica fu che una ragione economica avrebbe prevalso sul legame biologico/affettivo con la madre e sul diritto all’identità; il fatto che l’identità di Monica fosse pienamente composta dalla famiglia Sargentini così come dalla famiglia Ricci non contava. «Il cognome è quello del padre» sentenziava la nonna, senza ammettere né immaginare una possibilità diversa a questa millenaria certezza. Il cognome è quello del padre anche se in tutti questi millenni i figli sono stati partoriti e cresciuti dalla madre. Ed è proprio quel padre, erede e proprietario di quel cognome che pone l’ultimo insormontabile ostacolo a sua figlia quando finalmente lei sembra essere giunta in prossimità della vittoria. Uno schianto dopo una grande ricorsa, è questo il suono che produce nella mia mente l’affermazione «È la più grande offesa che mi sia stata fatta». È offensivo, disse quel padre, che sua figlia desiderasse aver riconosciuta nel proprio nome l’eredità biologica e affettiva ricevuta da sua madre. Che le madri siano state private per millenni del proprio diritto di trasmettere il cognome e che i figli siano stati privati per millenni del proprio diritto alla piena identità non è un’offesa? No, è una tradizione. Il peggior effetto che la cultura produce è quello di riuscire a mimetizzarsi come natura. Offesa fu Monica, non suo padre. Offesa due volte, prima dal suo Stato e poi da chi l’aveva messa al mondo.
Alla fine Monica ha ottenuto il suo doppio cognome con un sotterfugio, mettendo lo Stato di fronte al fatto compiuto, obbligandolo a ratificare una situazione ormai già concretizzatasi. È una cosa tipicamente italiana questa del porre un divieto e lasciare che solo le persone più coraggiose e ostinate trovino il modo – il sotterfugio – per arrivare comunque al risultato. Lo Stato italiano conta sul fatto che le persone coraggiose e ostinate siano poche, e in effetti lo sono, ma come può chiamarsi democratico uno Stato che consapevolmente nega i diritti dei propri cittadini e delle proprie cittadine, e che quando non può più negarli cerca di limitarne e ostacolarne l’esercizio?
Il Parlamento ancora sordo e silenzioso
Come osserva l’avvocata Susanna Schivo, “la complessità della funzione legislativa non può gravare sulla vita e sulle scelte dei cittadini e le indicazioni della Corte costituzionale non possono restare lettera morta così a lungo in una società che dovrebbe porre il rispetto delle persone e delle Istituzioni al centro delle proprie scelte” [15]. Il Parlamento, evidentemente, preferisce lasciare decisioni che reputa difficili o divisive all’organo costituzionale che non ha bisogno di consenso politico, ma facendo così esso abdica al suo ruolo, abdica cioè a quel ruolo che il popolo italiano gli ha conferito settant’anni fa e gli conferisce ad ogni elezione.
Nella scorsa puntata dicevamo che giacciono in Parlamento una decina di disegni di legge tra Camera e Senato, nessuno dei quali ancora giunto alla discussione in aula. Il primo ad essere stato presentato alla Camera (n. 106/2018) è quello dell’onorevole Laura Boldrini il 23 marzo 2018, giorno della prima seduta del Parlamento neoeletto. Se non è questo un gesto politico!
Il 15 febbraio di quest’anno è iniziata presso la Commissione Giustizia del Senato la discussione congiunta di sei disegni di legge in materia di cognome dei figli. I testi – in gran parte simili tra loro – prevedono l’attribuzione di uno dei due cognomi o di entrambi a scelta, con l’apposizione del doppio cognome in ordine alfabetico in caso di disaccordo, impongono lo stesso cognome a tutti i figli della coppia, e finalmente eliminano la discriminazione dell’art. 143bis del codice civile prevedendo che col matrimonio ciascun coniuge conserva il proprio cognome; infine consentono ai maggiorenni di aggiungere il cognome materno con una semplice dichiarazione all’ufficiale di stato civile. La Commissione ha disposto di procedere ad una serie di audizioni.
La professoressa Carla Bassu, nella sua audizione, ha chiarito: “Il dato di partenza è chiaro e inequivocabile: l’imposizione esclusiva del cognome paterno alla prole è incompatibile con il sistema di democrazia paritaria stabilito dalla nostra Costituzione”. Su questo dato di fatto, insomma, non è più consentito discutere. Rosanna Oliva de Conciliis - presidente della Rete per la parità - ha aggiunto: “L’intera vicenda è emblematica dei ritardi, dell’indifferenza, dei frequenti richiami a cose più importanti e urgenti, che caratterizzano costantemente in Italia il lungo e difficile cammino verso la piena parità formale e sostanziale uomo-donna e la completa attuazione della Costituzione. […] Si tratta di eliminare uno dei più gravi esempi di “invisibilità” delle donne nella vita pubblica e privata.”. Angela Maria Tassara, presidente dell’InterClubZontaItalia, ha precisato che “l’attribuzione del cognome è oggi il primo atto giuridico di esercizio della responsabilità genitoriale, che (auspicabilmente) dovrebbe indirizzarsi naturalmente verso una scelta non pregiudizievole per la prole”.
Per contro, Massimo Gandolfini, presidente dell’Associazione Family Day “Difendiamo i nostri figli”, ha affermato che “l’ultimo dei problemi delle nostre famiglie è legiferare sul tema del cognome”, spiegando che mentre il legame con la madre si instaura naturalmente e fisicamente con la gravidanza, quello col padre no e per questo l’uomo ha bisogno di “riconoscere, nominare quel bimbo come figlio, farne il proprio erede, immetterlo in una storia di relazioni che affondano in radici lontane”. Ancora una volta: la donna è un utero, l’uomo è la storia. Gandolfini aggiunge che l’attribuzione del cognome paterno “è il modo al contempo concreto e simbolico in cui un uomo accetta e insieme dichiara di legare a sé il figlio in modo definitivo, inserendolo nella propria storia”. Quanto sono importanti le parole! “Accetta” e “dichiara”: solo l’uomo, quindi, ha la libertà di accettare o rifiutare un figlio, la donna no, la sua biologia glielo impedisce, una volta che un grumo di cellule ha attecchito nel suo utero ella non ha più diritto di decidere sul proprio corpo. Lo sguardo mi va un attimo oltreoceano… ma ci arriviamo più tardi.
Ha evidenziato l’avvocata Antonella Anselmo nella sua audizione: “Il diritto è una creazione culturale e come tale esprime i valori del tempo della sua produzione”. Quali valori vuole esprimere questo Parlamento?
Nei mesi trascorsi a documentarmi e scrivere questa puntata della nostra storia, il Parlamento è stato sciolto. Il narcisismo e l’egoismo hanno ancora una volta prevalso sull’adempimento dei doveri come servitori dello Stato e rappresentanti dei cittadini. Così tutto il lavoro fatto finora cade ancora una volta nel nulla con lo scadere della legislatura. Già nella scorsa legislatura, la Camera aveva approvato e trasmesso al Senato un disegno di legge, che però non fu mai approvato dal Senato così decadendo. Ora anche questo Parlamento, eletto dal popolo italiano, sollecitato innumerevoli volte dalla Corte costituzionale e dagli organi sovranazionali, non ha voluto compiere il lavoro che la Costituzione prima e la Corte poi gli impone approvando una legge organica che colmi i vuoti normativi lasciati dalla sentenza costituzionale e che consenta l’esercizio dei diritti nel modo più ampio e conforme a Costituzione. Questo Parlamento ha scelto di lasciar scadere anche questa legislatura senza approvare una legge. Una legge definita “indifferibile” dalla Corte costituzionale ben sei anni fa! Una legge che non doveva fare altro che decidere sulle questioni pratiche lasciate aperte dalla Corte, posto che il principio di base ormai non è più discutibile. Neanche solo su tali questioni il Parlamento ha voluto adempiere ai propri doveri politici e istituzionali. Cos’altro ha bisogno di sentirsi dire il Parlamento per convincersi? Da chi altro ha bisogno di sentirselo dire? È davvero un vanto per buona parte dei nostri rappresentanti politici rifiutarsi di approvare una dovuta riforma consentendo che per un tempo indeterminato si protragga una lesione di diritti soggettivi fondamentali e costituzionalmente garantiti? Dubito fosse questo il Parlamento che gli uomini e le donne che hanno scritto la Costituzione immaginavano.
Il disegno di legge sulla parità salariale, proposto nel 2018 dalla deputata Tiziana Caprini, è stato approvato dalla Camera il 13 ottobre 2021; tredici giorni dopo, il 26 ottobre, è stato approvato definitivamente dal Senato diventando così legge (Legge 162/2021). Questo tempo incredibilmente breve di passaggio da un’aula all’altra e con un’approvazione senza modifiche dimostra che se si vuole arrivare ad un risultato ci si può arrivare, anche in uno Stato noto per le sue lungaggini. Ma non sarà che quella legge è solo un bel pezzo di carta da mostrare all’Unione europea per dire che l’Italia sta lavorando per colmare un gap altamente problematico, ma in realtà è una legge che non servirà a cambiare nulla in pratica, perché se il cambiamento non si produce prima nella cultura nessuna legge potrà supplirvi, e allora visto che non cambierà nulla tanto vale approvarla che male non fa? Perché in che Paese viviamo se serve una legge che dica che a parità di mansioni bisogna essere pagate con lo stesso stipendio? Nello stesso Paese che si ostina a non riconoscere il diritto all’identità anche quando ormai questo è già stato riconosciuto.
Mulier sine nomine
“Nome di famiglia che si aggiunge al nome di persona”: così Garzanti Linguistica definisce il cognome. Nome di famiglia, il nome che denota l’appartenenza ad una famiglia. Ma quando la famiglia deriva biologicamente da due persone non si capisce perché il cognome debba provenire obbligatoriamente solo da una delle due. Da dove nasce allora l’automatica ed esclusiva attribuzione del cognome paterno? È una regola millenaria, si risponde di solito, che affonda le sue radici nella concezione patriarcale della famiglia. Ma è il caso di indagare meglio questa famiglia patriarcale, per capire davvero i meccanismi che ne abbiamo ereditato più o meno inconsapevolmente.
Le donne, in realtà, non hanno mai avuto un proprio cognome. Questa è una storia davvero molto interessante, quanto quella del cognome dei figli. Tra le tante cose che hanno inventato i nostri antenati romani, hanno inventato anche il modo di nominarci. Già dal I secolo a.C. i cittadini uomini romani liberi si identificavano con i tria nomina: un prenomen, cioè il nome personale, il nomen gentilizio e un cognomen, cioè il nome familiare all’interno della gens; a persone illustri si poteva aggiungere anche un agnomen. Gaius Iulius Caesar. Publio Cornelio Scipione Africano. Questo valeva per gli uomini cives liberi. Alle donne, invece, non veniva attribuito un prenomen personale, bensì venivano identificate solo il nomen della gens di appartenenza declinato al femminile o accompagnato dal patronimico (cioè il nome del padre al genitivo) o dal gamonimico (cioè il nome del marito al genitivo). Se nella famiglia c’erano più donne si distinguevano per ordine di nascita: maior e minor, o Prima, Secunda, Tertia. Cornelia – celebre madre dei Gracchi – si chiamava Cornelia perché figlia di Publio Cornelio Scipione Africano [16]. Quindi le donne, per i geniali romani, non avevano bisogno di un nome proprio perché non avevano alcun ruolo sociale, non erano altro che un’appendice dell’uomo – padre prima e marito poi - destinata alla riproduzione. Un loro oggetto, nulla di più. Con il matrimonio – altro istituto giuridico che abbiamo ereditato dai romani – le donne passavano dalla patria potestas alla manus del marito, prive del nome e di ogni diritto personale e patrimoniale. Il matrimonio è stato inventato come nient’altro che un contratto di compravendita di un essere umano di sesso femminile, e tale è rimasto in Italia fino al 1975, in altri luoghi del mondo ha ancora quel valore. Sono state la letteratura prima e hollywood poi ad associare l’amore al matrimonio, ma nella sua dimensione giuridica questo istituto non ha nulla a che vedere con i sentimenti e rimane nient’altro che un contratto regolatore di rapporti civili. Rapporti storicamente sbilanciati a favore degli uomini.
Capite quanto è importante studiare la nostra storia? Perché è da quel modo di considerare l’essere umano di sesso femminile che veniamo. Sono passati duemila anni? Bene, saranno trascorsi anche duemila anni ma se stiamo ancora qui a discutere della necessità di riconoscere la dignità delle donne nel nome dei loro figli vuol dire che duemila anni non sono poi così tanti.
È indispensabile comprendere, quindi, che il nostro cognome è quello paterno perché altro non poteva essere. Prima della riforma del diritto di famiglia del 1975, l’articolo 144 del codice civile italiano (replicando quello del codice civile del Regno d’Italia del 1865) prevedeva che «il marito è capo della famiglia: la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli crede opportuno fissare la residenza». Capo: un’altra parola che viene poco declinata al femminile, perché manca l’abitudine di usarla e non perché sia grammaticalmente scorretta. Ebbene, in quel contesto, nel contesto in cui la moglie-donna nulla valeva, il cognome familiare era solo quello dell’uomo, ed era quindi perfino superfluo specificare che era solo il suo cognome ad essere attribuito ai figli. Non poteva essere altrimenti, questo è il punto. Il cognome non ha mai raccontato chi erano le donne, ma a chi appartenevano: prima al padre, poi al marito.
Di conseguenza che cognome potevamo dare ai figli se noi stesse non ne avevamo uno proprio? Giovanna Ferrari – attivista dell’UDI, maestra elementare in pensione, che ho avuto il piacere e l’onore di conoscere per raccontare la vita e la morte di sua figlia Giulia Galiotto [17]- mi spiegava che quando lei si sposò, prima del 1975, sui suoi documenti risultava chiamarsi “Giovanna Galiotto nata Ferrari”: Giovanna esisteva, cioè, solo come figlia prima e come moglie poi. Questa è la nostra storia.
La riforma del diritto di famiglia del 1975 ha modificato l’articolo 144, sancendo che i coniugi concordano l’indirizzo della loro vita familiare e la residenza, tuttavia ha scelto di inserire l’articolo 143bis con cui si prevede ancora oggi che «la moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito». Sembra il caso di evidenziare che il legislatore del 1975, a quasi trent’anni dall’entrata in vigore della Costituzione e del principio di uguaglianza, pur adottando un’organica riforma del diritto di famiglia complessivamente orientata alla pari dignità dei coniugi, scelse comunque di introdurre una norma che creava una palese discriminazione, dimostrando così che i pregiudizi sono talmente radicati nella nostra cultura da apparire invisibili, e possono emergere perfino in una legge che con l’intenzione di eliminare ogni discriminazione tra coniugi finiva comunque per risentire del “persistente riflesso della vecchia potestà maritale” (come la Corte costituzionale ha scritto nella sentenza 131/2022).
Altrettanto interessante è il racconto della giudice Paola Di Nicola Travaglini: “Ad oltre 50 anni di età ho scoperto di essere figlia anche di madre e di essere stata derubata simbolicamente, e non solo, della mia completa identità. Un’amputazione avvenuta con il mio benestare, frutto dell’evidenza che non si vede, e richiamata non solo sul citofono di casa, ma anche nella firma delle mie sentenze, messaggio istituzionale che non mi potevo più consentire, specie a fronte della storia delle donne in magistratura, escluse dall’attività interpretativa fino al 1963 proprio per il loro sesso e per la paura che potessero disvelare la struttura discriminatoria sottesa all’impalcatura giuridica, rimasta salda per millenni soprattutto grazie alla loro assenza dal mondo del diritto. Ho quindi avviato la pratica amministrativa in Prefettura per presentarmi come essere sociale nato da un uomo e da una donna”. Qualche tempo dopo aver ottenuto l’autorizzazione prefettizia per cambiare il cognome, “uno studente ed un’insegnante, con la loro puntuta intelligenza, mi avevano fatto vedere ciò che non avevo voluto vedere: avevo aggiunto il cognome del padre di mia madre, di mio nonno, non di mia madre, perché noi donne non abbiamo un cognome, non lo abbiamo mai avuto, non trasmettiamo identità e storia se non con la nostra personalità e il nostro sangue. Oggi porto quindi un cognome maschile al quadrato”. Già, perché non avendo noi donne un nostro cognome è evidente che i cognomi al momento esistenti sono solo quelli maschili. Quindi sì, curiosamente aggiungere il proprio cognome materno in questo momento significa aggiungere il cognome del proprio nonno, questo però non toglie nulla all’importanza di tale scelta, di cui infatti la giudice Di Nicola Travaglini è oggi fiera, e altrettanto fieramente firma le sue sentenze in nome del popolo italiano. Non solo: “Nel salotto di casa dei miei genitori comunque campeggia una bella cornice lucida d’argento con la mia domanda alla Prefettura di Roma per avere un doppio cognome maschile del quale, a parte tutto, sento l’urgente valore perché disvela, ogni momento, l’orrenda verità della nostra cancellazione” [18]. Questo è, secondo me, l’aspetto più bello della storia del doppio cognome di Paola: il sentimento di fierezza di quei due genitori che mettono in mostra la scelta della loro figlia. Una fierezza, purtroppo, tutt’altro che comune.
E, a proposito di storie, se è di regola vero che aggiungere oggi il cognome materno significa aggiungere il cognome del nonno, io però ho il curioso e rarissimo privilegio di costituire un’eccezione… ma la storia del mio doppio cognome confido di raccontarvela nella prossima puntata.
Equilibriste: essere madri in Italia
Quando fai un figlio? Tutte le donne tra i trenta e i quarant’anni si sono sentite rivolgere questo punto interrogativo. Come se per una donna non avere figli significasse mancare al proprio destino biologico. Ridicole campagne di promozione della natalità vengono periodicamente lanciate dai governi di ogni colore politico. C’è un’enorme pressione sociale nei confronti della maternità, ed è spesso a causa di questa pressione che si mettono al mondo figli con scarsa convinzione e consapevolezza. Ma viviamo in un Paese in cui è facile essere madri?
Il rapporto di Save the children ci conferma che il maggior ostacolo all’occupazione femminile in Italia è la conciliazione tra la professione e il lavoro domestico-familiare non retribuito [19]. Si noti: non retribuito quando è la donna facente parte di quel nucleo familiare a svolgerlo, perché se si delega tale lavoro ad una persona esterna quella deve essere pagata, e ciò dimostra che il lavoro domestico ha un valore economico. “Dignità è non dover essere costrette a scegliere tra lavoro e maternità” ha detto il Presidente della Repubblica Mattarella nel suo discorso di insediamento il 3 febbraio. Il gap salariale tra uomini e donne inizia presto e peggiora nel caso in cui, a seguito della maternità, la donna scelga il part-time proprio per conciliarlo con gli impegni familiari, laddove la scelta del part-time ricade percentualmente più sulle madri che sui padri. E sull’uso della parola “scelta” ci sarebbe molto da discutere. È ovvio che il regime di part-time non solo riduce il reddito nella fase lavorativa ma anche nella prospettiva pensionistica; ed è forse meno ovvio ricordare che la disparità economica è un fattore di enorme pericolo che espone le donne ad una disparità di potere all’interno della coppia: la violenza economica non lascia lividi sulla pelle ma non è meno pericolosa. La larga maggioranza di dimissioni volontarie a seguito della nascita dei figli proviene dalle donne (77,2%), esponendole ad una situazione economica ancora più precaria. Il motivo principale delle dimissioni è la difficoltà di conciliare la professione con la cura dei figli, sia per l’indisponibilità dei servizi di cura (38%), sia per ragioni di carattere organizzativo nel contesto professionale (20%,). Nel primo caso a pesare è soprattutto l’assenza di parenti di supporto (27,1%), seguita dall’elevato costo dei servizi di assistenza al neonato (asilo nido o babysitter, 8,4%) e il mancato accoglimento al nido (2,1%). Si noti come il supporto familiare – delle nonne, in particolare – sia ancora il maggior strumento di welfare di cui è dotato il nostro Paese: nel momento in cui manca quello il welfare statale non è in grado di colmarne l’assenza. Da evidenziare che queste motivazioni per le dimissioni riguardano pressoché solo le donne, perché la quasi totalità degli uomini si dimette per andare a lavorare altrove. Peraltro la disparità nell’offerta di asili-nido comunali tra Nord e Sud è enorme: dal 30,4 % della Provincia autonoma di Trento al 3,1 % della Calabria, 4% della Campania e 5,8% della Sicilia. In tale contesto il congedo di paternità obbligatorio ammonta oggi a soli 10 giorni. D’altra parte c’è chi sostiene l’opportunità di assumere solo donne over40 perché “se dovevano sposarsi si son già sposate, se dovevano far figli li han già fatti, se dovevano separarsi hanno fatto anche quello… per cui io le prendo che hanno fatto tutti e quattro i giri di boa” [20].
La Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio ha pubblicato un resoconto sconfortante riguardante la vittimizzazione secondaria delle donne nei procedimenti di affidamento dei figli [21]: accusate di essere madri malevole, manipolatrici e alienanti, sulla base di consulenze che non hanno niente di scientifico e che soppiantano il lavoro di valutazione dei giudici civili, rischiano spesso di soccombere di fronte a decisioni giudiziarie che ne limitano la responsabilità genitoriale. La violenza maschile del marito/compagno/padre non entra a far parte delle valutazioni dei giudici civili sull’affidamento dei figli, ma quella sul grado di accessibilità concessa dalla madre al padre nei confronti dei figli sì, diventa un parametro di valutazione dell’idoneità genitoriale della madre. Lo sa bene Antonella Penati, che si è vista restituire dallo Stato italiano il cadavere del suo bambino, ucciso dal padre a cui lo Stato aveva consentito degli incontri protetti, contro la volontà di Antonella e di suo figlio. Lo sa bene anche Laura Massaro, che da anni lotta nelle aule dei tribunali per vedersi riconosciuto il proprio diritto ad essere madre, ad essere la buona madre che è. È grazie alla sua perseveranza che la Corte di cassazione ha ribadito anche quest’anno che la “sindrome di alienazione parentale” non ha alcun fondamento scientifico e che in nessun caso può essere posta a fondamento delle decisioni in materia di affidamento [22].
C’è una contraddizione talmente enorme tra questi due dati: lo Stato italiano poco fa per superare lo stereotipo in base al quale dei figli si occupano principalmente le madri, lascia che siano loro a dover conciliare la maternità con il resto della loro vita personale e professionale, ma nel momento in cui è chiamato a decidere sull’affidamento in caso di separazione dei genitori emerge la bigenitorialità necessaria, quella bigenitorialità in virtù della quale le donne sono obbligate ad aver a che fare con i propri ex violenti. Lo Stato italiano chiede alle donne di diventare madri, ma poi non si adopera perché quelle madri vedano riconosciute sé stesse nel nome e nell’identità dei loro figli.
A proposito di affidamento dei figli, appare ancora una volta necessario riflettere sull’importanza delle parole. Nel 2013 la legge italiana ha scelto di sostituire l’espressione “potestà genitoriale” – indicante il complesso di diritti e doveri dei genitori nei confronti dei figli – con l’espressione “responsabilità genitoriale” (Legge 2019/2013), nonostante tristemente l’espressione abrogata continui a comparire in atti giudiziari dimostrando l’ignoranza giuridica e sociale di chi scrive quegli atti. Come in ogni altro caso, non si tratta semplicemente di una parola diversa, ma di una scelta politica e culturale: i figli e le figlie non sono di proprietà dei genitori che li hanno messi al mondo, bensì quei genitori, proprio per il fatto di averli/e messi al mondo hanno la responsabilità di assicurare loro la miglior vita possibile. I figli sono soggetti di diritti e non oggetti di proprietà.
Perché sì
“C’è ben altro a cui pensare”, oppongono ancora tanti e tante, purtroppo. C’è sempre ben altro a cui pensare quando si parla dei diritti delle donne. Noi donne moriamo uccise? Sarà colpa della follia, sarà un raptus, comunque non ci riguarda. Molte donne perdono il lavoro quando rimangono incinte? Problemi loro, io ho un contratto sicuro. Molte donne vengono pagate meno dei loro colleghi? Ancora problemi loro, non sanno negoziare uno stipendio migliore. Noi donne subiamo ogni genere di violenza da uomini in larga maggioranza a noi vicini? No, si sa che le donne mentono. E su questo torniamo all’inizio: davvero ci si può ostinare a credere che mentiamo quando dopo aver denunciato una violenza veniamo uccise proprio da quell’uomo che avevamo denunciato? Ma insomma, noi abbiamo i nostri problemi personali, non è che possiamo pensare a quelle donne, mette tristezza, è meglio guardare un video idiota su TikTok. Noi donne nell’identità dei nostri figli non esistiamo? E vabbè, cosa vuoi che sia, il cognome non conta. Non conta? Eppure gli uomini ci rimangono ben attaccati come a una zattera nell’oceano, quindi conta eccome! E anche se fosse un diritto che conta meno di altri – ma come fa l’identità personale a contare meno di altri diritti? – sarebbe comunque un diritto che in quanto tale uno Stato costituzionale democratico deve garantire.
Spiega Rosanna Oliva de Conciliis, fiera del suo doppio cognome: “L’attribuzione del solo cognome paterno nasconde la maternità, nasconde le donne e, soprattutto, nega a ogni persona una parte delle origini. […] Come l’odio nella violenza psicologica si può realizzare anche con il silenzio, la sopraffazione degli uomini sulle donne a volte si avvale dell’invisibilità imposta con il burqa o simili costumi, che nei paesi occidentali può concretizzarsi in una narrazione che trascura le donne nella storia, nella toponomastica, nei mass media, nell’anagrafe e nel linguaggio” [23].
Cancellare, questo è lo scopo del non nominare. “Nominare le persone significa dare loro dignità e considerazione, un posto nel mondo. […] Quindi non nominare è una scelta, è una scelta culturale” [24]. La storia è fatta dagli uomini, questo studiamo a scuola e per gran parte dell’università. Mentre gli uomini costruivano e inventavano il mondo, le donne stavano a casa a badare ai figli, a cucinare e a fare la calza. È da lì che veniamo, non lo ripeteremo mai abbastanza. Dimenticare la storia porta a ripeterla. Dimenticare e dare per scontati i diritti porta a perderli. Nel giugno di quest’anno la Corte suprema statunitense – massimo grado della giustizia di un Paese che rivendica la libertà come sua prima caratteristica costituzionale e culturale – ha ribaltato la storica sentenza Roe v. Wade con cui era stato riconosciuto alle donne il diritto a decidere del proprio corpo e all’aborto nel 1973: ora ogni Stato federale può scegliere di negare questo diritto fondamentale alle donne. Se la giudice Ruth Bader Ginsburg non fosse già morta morirebbe ora per il dolore di sapere che quella Corte, di cui lei ha fatto fieramente parte per tanti anni, si è resa responsabile di un’ingiustizia così grande. Vediamo quindi che è possibile perdere i diritti, accade proprio quando li diamo per scontati perché ormai siamo abituate ad averli.
Attenzione, però. Quella del doppio cognome – come in senso più ampio quella per i diritti delle donne – non è e non è mai stata una battaglia contro gli uomini, è una lunga, forse infinita, battaglia di civiltà che vuole riconoscere diritti ma non toglierne, perché riconoscere un diritto alle donne non significa toglierlo agli uomini, come purtroppo molti temono, significa costruire un mondo più giusto, più equo. E non è una battaglia solo delle donne, perché in questo cammino siamo affiancate da uomini intelligenti e convinti sostenitori del diritto all’uguaglianza. Il Parlamento italiano dovrebbe studiare chi è stato Salvatore Morelli, deputato dal 1867 al 1880, un femminista quando il femminismo non esisteva, un precursore che sosteneva l’uguaglianza tra uomini e donne, il divorzio e il doppio cognome in un secolo in cui le donne non erano altro che il loro utero, un uomo visionario nato nel secolo sbagliato. O forse nato in quello giusto per contestare le barbarie che quel secolo e i precedenti avevano compiuto nei confronti di metà della popolazione umana. Ecco, i parlamentari italiani dovrebbero andarsi a rileggere gli interventi del loro predecessore Salvatore Morelli, così forse capirebbero di essere in clamoroso ritardo sui tempi del mondo, se dopo più di un secolo da quelle parole ancora si ostinano a negare l’esercizio di diritti fondamentali.
Domani
Qualunque riflessione sull’oggi porta inevitabilmente a interrogarsi sul domani. Il mondo e il modo di pensare che si è costruito in millenni non può cambiare in pochi decenni, questa è un’ovvietà. Ma riconoscere quest’ovvietà non può spingere ad arrendersi, se si è profondamente convinte che lo scopo sia giusto e meritevole. E lo scopo è giusto e meritevole, anche questa è un’ovvietà. Ma per cambiare il mondo e il modo di pensare sono necessarie un grande numero di coscienze e di voci che si uniscano per urlare la propria indignazione, voci femminili e maschili, e soprattutto voci giovani, che così come rivendicano il diritto ad avere un pianeta non inquinato e surriscaldato, rivendicano il diritto di abitare quel pianeta in un modo che possa definirsi giusto.
La sentenza della Corte costituzionale ha restituito alle donne italiane e ai loro figli la libertà di scegliere, e il diritto di esistere essendo nominate. Questa sentenza – oltre al valore giuridico, culturale e sociale – ha una importante significato pedagogico: “Crescere col doppio cognome, sentirsi chiamare, a scuola e in palestra, anche col nome di lei, insegnerà al bambino o alla bambina che l’esistenza della madre non è subordinata, accessoria, ininfluente. Che ha lo stesso potere, gli stessi diritti, ma soprattutto lo stesso valore. Restituirà a lei — e a tutti i posteri — la centralità e la dignità fin qui negata. La mentalità cambia la legge, ma anche la legge cambia la mentalità. Mi piace pensare che fra vent’anni le ragazze e i ragazzi italiani cresciuti anche nel nome della madre saranno figli, e poi compagni, coniugi e cittadini, migliori” [25].
p.q.m.
Per tutti questi motivi voglio firmare questo articolo e questa storia con il mio nome completo:
Maria Dell’Anno Sevi.
[1] Tribunale di Bolzano, II Sezione civile, Ordinanza del 17/10/2019.
[2] Corte d’appello di Potenza, Sezione civile, Ordinanza del 12/11/2021.
[3] Corte costituzionale, Sentenza 131 depositata il 31/05/2022 (udienza del 27/04/2022).
[4] P. Rifiorati, La prevalenza del patronimico è una discriminazione istituzionale, in Equal, 23/12/2021, https://www.dirittoantidiscriminatorio.it/la-prevalenza-del-patronimico-e-una-discriminazione-istituzionale/
[5] A. I. Roselli, Opzione cognome matronimico dopo l’ordinanza n. 18/2021 della Consulta, in F. Dragotto, S. M. Melchiorre, R. Oliva de Conciliis (a cura di), La riforma del cognome in Italia. Tra diritto all’identità e promozione della parità di genere, Blonk, Pavia, 2022
[6] C. Arletti, L’importanza di chiamarsi (anche) come la madre, in il Venerdì di Repubblica, 24/06/2022
[7] G. Silvestri, Del rendere giustizia costituzionale, in Questione giustizia, 4/20, p. 36
[8] C. Bassu, Trasmissione del cognome e principio di uguaglianza: una riforma necessaria per uniformare il sistema ai dettami costituzionali, in F. Dragotto, S. M. Melchiorre, R. Oliva de Conciliis (a cura di), La riforma del cognome in Italia, cit.
[9] In C. Arletti, L’importanza di chiamarsi (anche) come la madre, cit.
[10] Circolare n.63 del 1 giugno 2022.
[11] N. Falco, Acerra, tenta d strangolare la compagna negli uffici comunali, 3/02/2020, in https://napoli.fanpage.it/acerra-tenta-di-strangolare-la-compagna-negli-uffici-comunali/
[12] F. Dragotto, Semina per semata, in F. Dragotto, S. M. Melchiorre, R. Oliva de Conciliis (a cura di), La riforma del cognome in Italia, cit.
[13] M. Maclean, The Performance of Illegitimacy: Illegitimacy: Signing the Matronym, in New Literary History, n. 25, p. 94.
[14] M. Ricci Sargentini, La mia lotta per il doppio cognome. Ho vinto solo grazie a un sotterfugio, in Corriere della Sera - la 27ora, 8/11/2016, https://27esimaora.corriere.it/16_novembre_08/mia-lotta-il-doppio-cognome-undici-anni-battaglie-legali-6a9cd0be-a5ea-11e6-b4bd-3133b17595f4.shtml
[15] In P. Viotti, La bimba brasiliana "condannata" a tenersi il cognome troppo lungo: cinque parole, in la Repubblica, 22/02/2022
[16] E. Cantarella, L’ambiguo malanno. Condizione e immagine della donna nell’antichità greca e romana, Feltrinelli, Milano, 2010 [1° ed. 1983].
[17] Racconto inserito nel mio libro “E ‘l modo ancor m’offende. Voci di donne vittime di femminicidio”, Edizioni San Paolo, 2022.
[18] P. Di Nicola Travaglini, Le donne non hanno un cognome, in F. Dragotto, S. M. Melchiorre, R. Oliva de Conciliis (a cura di), La riforma del cognome in Italia, cit.
[19] E. Scanu Ballona (a cura di), Le equilibriste. La maternità in Italia 2022, Roma, 2022.
[20] Dichiarazione dell’imprenditrice Elisabetta Franchi (maggio 2022), https://www.ilfoglio.it/moda/2022/05/10/video/donne-e-lavoro-che-cos-ha-detto-elisabetta-franchi-all-evento-del-foglio-e-pwc-3990038/
[21] Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere, Relazione sulla vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli nei procedimenti che disciplinano l’affidamento e la responsabilità genitoriale, approvata nella seduta del 20 aprile 2022.
[22] Corte di Cassazione, Prima Sezione civile, Ordinanza del 26/01/2022, pubblicata il 24/03/2022.
[23] R. Oliva de Conciliis, Rete per la parità. Una battaglia per i diritti lunga sessant’anni, in F. Dragotto, S. M. Melchiorre, R. Oliva de Conciliis (a cura di), La riforma del cognome in Italia, cit.
[24] S. Cavagnoli, Linguaggio e potere. Nominare è riconoscere, in F. Dragotto, S. M. Melchiorre, R. Oliva de Conciliis (a cura di), La riforma del cognome in Italia, cit.
[25] M. Mazzucco, Figli di un nome minore, in la Repubblica, 29/04/2022.