La maternità delle donne tossicodipendenti

La maternità delle donne tossicodipendenti
Il genitore è un punto di riferimento
In condizioni non patologiche, il bambino concede una fiducia totale alle figure genitoriali e, soprattutto, alla propria madre. Tale presenza di una figura maschile e di una femminile è la base di uno sviluppo equilibrato della prole. Questa realtà, tuttavia, fatica a realizzarsi nelle famiglie con disordini affettivi, ovverosia quelle in cui convivono figli nati da una lunga e caotica serie di relazioni esterne precedenti. A tal proposito, Bion (1962)[1] precisa che “la genitorialità, generalmente, si caratterizza per la competenza auto-riflessiva dei genitori. La competenza auto-riflessiva genitoriale è la capacità di avere, dell'altro, una teoria della mente, che svolge la funzione di mentalizzare e restituire al figlio i suoi contenuti affettivi e cognitivi. Lo sviluppo di tale competenza è alla base della trasmissione di un senso di sicurezza e protezione al bambino”. E' evidente, pertanto, che, in una famiglia patogena, gli equilibri emozionali descritti da Bion (ibidem)[2] seguono percorsi caotici che formano, nella figliolanza, ideazioni distorte e schizoide. Questa è pure la condizione diseducativa di una madre tossicodipendente, il cui pensiero ossessivo è la sostanza d'abuso e non la cura della prole. Dunque, la tossicomania è palesemente incompatibile con l'esperienza della maternità o, meglio, il figlio di una madre uncinata dall'alcol e dalle droghe tenderà a sostituire l'affetto dei genitori con quello di figure sostitutive, come i nonni, i parenti o gli insegnanti.
Analogo è il parere di Bowlby (1980)[3], che ribadisce la centralità della figura materna, in tanto in quanto “le situazioni di attaccamento funzionale sono caratterizzate da un accudimento sensibile ed attento ai bisogni del bambino […]. E' importante la qualità dei primi legami affettivi che si instaurano nella precoce relazione madre-bambino. Tali legami hanno effetti importanti sullo sviluppo emotivo e cognitivo del bambino”. Come si nota, anche il predetto Dottrinario anglofono sottolinea che una prole non accudita adeguatamente tende ad adultizzarsi precocemente, con conseguenze non sempre positive sotto il profilo comportamentale. Ora, una madre tossicofila non può possedere il summenzionato “attaccamento funzionale”, giacché lo stupefacente viene a costituire il centro della giornata dell'assuntrice, la quale non è in grado di adempiere al proprio dovere genitoriale. In realtà, solitamente, la madre assente proviene anch'ella da situazioni di disagio.
P.e., a ragion veduta, Cicchetti & Rizley (1981)[4] mettono in evidenza che “numerose donne tossicodipendenti hanno vissuto, all'interno delle famiglie d'origine, esperienze precoci di trascuratezza, di insensibilità e di cure non adeguate, che rendono invalida proprio l'esperienza di base sicura fornita dal caregiver”. Senza dubbio, non si tratta di una conseguenza automatica, ma, nella maggior parte dei casi, una famiglia maltrattante genera una figlia inidonea alla maternità. Parimenti, Rutter (1989)[5] sostiene che “in entrambe le famiglie della donna tossicodipendente, sia del padre sia della madre, si riscontrano frequentemente traumi non elaborati correttamente.. La conseguenza più grave del trauma relazionale precoce è rappresentata dalla perdita della capacità di regolare le emozioni e la loro intensità”. Nuovamente, pure Rutter (ibidem)[6] mette in risalto la natura inter-generazionale del maltrattamento in famiglia, il quale non viene percepito come abnorme dalla figlia privata dell'affetto materno; per tal via si crea un circolo vizioso di fallimenti pedagogici, alimentati ed aggravati dallo stato di dipendenza abituale da sostanze psicotrope.
La donna con una madre anaffettiva tende, a sua volta, a privare del debito affetto la propria figliolanza. Similmente, van der Kolk (2005)[7] nota che, “frequentemente, la vita della madre della donna tossicodipendente è segnata da eventi squalificanti, non elaborati, che comportano il rischio che ella, a sua volta, instauri un accudimento trascurante nei confronti della figlia, producendo gli stessi effetti negativi subiti”. Tuttavia, chi scrive ribadisce che la trascuranza affettiva non è un teorema genetico e necessariamente ereditario. Ovverosia, può darsi che la figlia tossicomane decida, sua sponte, di disintossicarsi e di ripristinare con il figlio/la figlia rapporti emotivi ordinari, pur se la dipendenza patologica da sostanza reca effetti devastanti e totalizzanti. Tuttavia, la non ereditarietà deterministica dell'anaffettività non toglie che, di solito, si manifesta una “trasmissione inter-generazionale dell'attaccamento”, in tanto in quanto, come sottolineato da Main & Kaplan & Cassidy (1985)[8], “nella giovane donna si verifica il rischio che ella riproponga, a sua volta, in futuro, lo stesso tipo di accudimento, incarnando lo stile genitoriale della figura materna […] i genitori tendono a trasmettere il proprio modello di attaccamento ai figli. Tale trasmissione deriva dal fatto che l'individuo tende, nel corso della propria vita, a riproporre i modelli relazionali vissuti durante l'infanzia con i propri caregiver”. Tale trasmissione inter-generazionale della pedagogia erronea ricevuta diviene ancor più grave nei contesti della tossicomania non occasionale, ove la centralità ossessiva della sostanza inibisce relazioni ordinarie tra madre e bambino. Soltanto un percorso di guarigione può restituire il giusto equilibrio emotivo alla madre tossicofila
Come notano Main & Kaplan & Cassidy (ibidem)[9], “la relazione di attaccamento di tali donne [tossicomani] con le proprie madri risulta disturbata e molto tesa, caratterizzata da una madre estremamente svalutativa e critica”. D'altra parte, a differenza di quanto accade nella fattispecie del tossicodipendente maschio, la deviante donna riferisce quasi sempre, in sede di terapia, di subire o di avere subito una madre “periferica” e, viceversa, un padre presente ed abbastanza premuroso.
All'opposto, i ragazzi con problematiche di droga e/o alcol descrivono come pessima la loro relazione con il padre, mentre esternano un notevole attaccamento con la figura genitoriale femminile. Sempre entro tale medesima ottica, Mazza (2010)[10] asserisce che “l'infanzia [delle ragazze tossiche] è caratterizzata da grandi difficoltà nella relazione di allevamento tra madre e figlia, all'interno della quale i bisogni affettivi della bambina non vengono compresi e soddisfatti, generando un bisogno di dipendenza, di compensazione affettiva e di riconoscimento”. Siffatte incomprensioni croniche madre-figlia adultizzano precocemente l'ultra-13enne femmina, che manifesterà, pur non in maniera tassativa e deterministica, una sessualità molto disinibita ed una ricerca compulsiva di “compensazione” nel compagno/marito/convivente/fidanzato. Dunque, le frustrazioni vengono esternalizzate e proiettate su una figura maschile consolatoria e sostitutiva. Anzi, secondo Cirillo & Berrini & Cambiaso & Mazza (2017)[11], le disfunzioni dell'attaccamento della tossicomane verso la madre “ si protrarranno per tutto il corso dello sviluppo [e] a tale rapporto di dipendenza si alterneranno sentimenti di rabbia rispetto alle proprie capacità di conquistare una propria autonomia”.
Come si nota, la non-idoneità della maternità subita porta l'adolescente assuntrice di sostanze a spinte auto-lesive, mentre l'uncinato uomo tende all'etero-lesività. Da menzionare è pure Mazza (ibidem)[12], secondo cui “quando la madre non è esplicitamente rifiutante e distaccata, la configurazione relazionale che si riscontra più spesso, nel rapporto madre-figlia è quello dell'inversione dei ruoli. L'attaccamento non è centrato sui bisogni affettivi, di contenimento e di sostegno della figlia, ma ella, a seguito di una richiesta implicita, contiene e offre sostegno alla madre. Tali giovani donne crescono senza la possibilità di vivere una condizione di contenimento, conforto e sostegno da parte delle loro madri, che appaiono concentrate sui propri problemi personali. A fronte di tali trascuratezze e mancanza di contenimento, le figlie sono spinte ad attuare un'auto-organizzazione, che, però, non può essere che confusa”.
Dal quadro delineato da Mazza (ibidem)[13] emerge il ritratto di una tossicomane adolescente che, poiché abbandonata a se stessa, si adultizza precocemente; ciò, a parere di chi commenta, non può non recare la figlia ad una sessualità estremamente disinibita e congiunta a forme di auto-lesività, come dimostrano i frequenti disturbi alimentari delle giovani tossicodipendenti provenienti da contesti familiari privi di equilibrio.
Rimane da analizzare la figura genitoriale maschile. Alcune ragazze che abusano di alcol e droghe descrivono un attaccamento paterno adeguato, ma abbondano pure le esperienze difformi. P.e., Andreoli (1991)[14] sostiene che “anche il padre della donna tossicodipendente, dall'analisi delle storie di vita, frequentemente risulta essere assente dal punto di vista educativo ed affettivo. Tale condizione è in parte dovuta ad una precoce adultizzazione, causata dalla sostituzione del padre poiché defunto precocemente, oppure perché manifestamente inadeguato, per far fronte alle esigenze della famiglia”. Ecco, di nuovo, un ulteriore elemento di disfunzionalità radicale della famiglia d'origine della donna tossicodipendente. Lo squilibrio parentale spinge l'adolescente verso la consolazione degli stupefacenti e delle bevande alcoliche. Analogamente, Ghezzi & Vadilonga (1996)[15] riferiscono che “spesso [nei nuclei familiari delle tossicofiliache] il padre è assente, violento o alcolista. Sembra che questi padri siano offuscati dalle carenze subite dai loro stessi padri e che, dunque, essi non siano in grado di riconoscere e di agire contro la deprivazione delle cure materne nei confronti del proprio figlio”.
Tuttavia, come riferisce Mazza (ibidem)[16], “nonostante [la tendenziale negatività, ndr] delle figure paterne, in molti racconti delle donne tossicodipendenti emerge un giudizio molto positivo. Tale giudizio sembra, però, essere il frutto di una rielaborazione idealizzante dei propri ricordi. Il più delle volte, infatti, questi padri non hanno contribuito alla costruzione di un ambiente sicuro e non hanno agito di fronte alle trascuratezze della madre”. D'altronde, è tipico delle giovani tossicomani non percepire la realtà affettiva circostante in modo oggettivo e concreto, sicché dominano le idealizzazioni romantiche e fuorvianti. Senza ogni dubbio, ognimmodo, come messo in risalto da Cambiaso & Berrini (1992)[17], “un fattore di rischio per lo sviluppo di una dipendenza da sostanze è l'esperienza precoce di abbandono affettivo, sperimentato dal soggetto a partire dalla primitiva relazione di accudimento materno nel corso dell'infanzia e che si perpetua, poi, nelle successive fasi evolutive. L'esperienza abbandonica si struttura, dunque, molto precocemente, a partire dalle prime interazioni con i caregiver”.
A parere di chi redige, ciononostante, sussiste il concreto rischio di ipostatizzare deterministicamente questa sindrome abbandonica. La realtà fattuale dimostra che la giovane proveniente da una famiglia disfunzionale non sperimenterà necessariamente ed ineludibilmente un disturbo da uso di sostanze (DUS). La tossicodipendenza è un percorso volontario privo di componenti ereditarie. Affermare l'opposto significa ritornare all'eugenetica di Lombroso e dei seguaci della Scuola positivistica novecentesca.
La tendenza al disturbo da uso di sostanze (DUS) non è affatto una tara ereditaria e scontata, ma, giustamente, Cirillo & Berrini & Cambiaso & Mazza (ibidem)[18] parlano di “predisposizione comportamentale”, ovverosia “la disorganizzazione dell'attaccamento sembra avere un ruolo estremamente importante nello sviluppo di una dipendenza da sostanze. Tale disorganizzazione, come fattore di rischio per lo sviluppo di una dipendenza patologica da sostanze, sembra caratterizzare maggiormente la popolazione femminile rispetto a quella maschile”. Torna, quindi, la ratio della maggiore sensibilità della donna di fronte ad una famiglia traumatizzante e disfunzionale. D'altra parte, come osservato da Bowlby (1988)[19] è pur vero che “le donne sono più frequentemente vittime di abusi fisici e sessuali, e tali esperienze, soprattutto quando si verificano all'interno della propria famiglia, hanno effetti disorganizzanti sulla costituzione di un modello operativo interno stabile”. All'opposto, è più che evidente che il ragazzo maschio vive una genitalità attiva e dominante e risulta più resiliente nei confronti di attaccamenti affettivi parentali non ben organizzati. Del resto, l'uomo tende pur sempre ad una sessualità più materiale e meno coinvolgente sotto il profilo etico-sentimentale. Siffatta tematica è stata opportunamente approfondita dagli italiofoni Cirillo & Berrini & Cambiaso & Mazza (ibidem)[20], i quali rimarcano che “la maggiore perifericità della madre dalla figlia si configura proprio come una scomparsa del ruolo materno, con effetti deprimenti e disorganizzanti più gravi rispetto a quanto avviene nelle famiglie dei tossicodipendenti maschi […]. Le relazioni di attaccamento caratterizzate dalla presenza di una madre distaccata e rifiutante sono state accostate […] ad un modello [educativo] disorganizzato, con una riorganizzazione di tipo punitivo ed autarchico. Le relazioni di attaccamento caratterizzate dall'inversione dei ruoli possono, invece, essere inquadrate in un modello di attaccamento disorganizzato, cui ha fatto seguito un'organizzazione di tipo protettivo”. Ecco, nuovamente, la tematica della maggiore fragilità della tossicofila donna, le cui esperienze familiari dell'adolescenza lasciano ferite psichiche indelebili e inducono la giovane al DUS, accompagnato da una sessualità sfrenata nella quale la ragazza sfoga le proprie frustrazioni e si adultizza precocemente o, perlomeno, cerca nel maschio una figura che sia in grado di riempire il vuoto emotivo lasciato da una madre evitante.
L'erotismo smodato e le sostanze d'abuso offrono all'ultra-13enne la possibilità di evadere da un rapporto madre-figlia altamente fallimentare ed assi doloroso. Entro tale medesimo solco interpretativo, si collocano pure Caretti & Craparo (2008)[21], in tanto in quanto, a parere di questi Dottrinari, “il ricorso all'uso di sostanze è dovuto ad un'incapacità di riconoscere e di regolare gli stati affettivi. Tale incapacità ha radici profonde, a partire dalle carenze esperite nelle primarie relazioni di attaccamento (tali da determinare un attaccamento insicuro o disorganizzato), fino alle esperienze traumatiche vissute nell'infanzia e nell'adolescenza”. Da tutto ciò emerge la basilarità dei traumi infantili e giovanili, la cui rimozione, a differenza di quanto comunemente si pensa, non è né facile né scontata. Pertanto, come afferma il brocardo latino, “maxima debetur pueris reverentia”, specialmente quando taluni interventi esterni a familiari inficiano l'armonioso sviluppo della sessualizzazione delle bambine e delle ultra-13enni. In caso contrario, si aprono ferite psicologiche perenni e, come asserito da Schimmenti & Bifulco (2008)[22], “l'assunzione di sostanze diventa uno strumento auto-terapico, un modo per gestire stati interiori sentiti come intollerabili, non rappresentabili e per attenuare il dolore ad essi associato”. E', infatti, tipico delle donne, anche in contesti ordinari, mettere in atto l'auto-medicazione, con il particolare, tuttavia, che alcol e stupefacenti, nel lungo periodo, non generano uno stato di benessere duraturo e privo di effetti collaterali.
Gravidanza e tossicodipendenza femminile
Giustamente e realisticamente, anche a prescindere dall'eventuale uso di stupefacenti, Manzano & Palacio & Espasa & Zilkha (2001)[23] rilevano che “la gravidanza è un momento di grande cambiamento nella vita di una donna, durante il quale si modificano l'assetto psicologico, la relazione di coppia, il contesto familiare ed i rapporti sociali. In particolare, si verificano sostanziali modificazioni del mondo rappresentazionale materno, in quanto la genitorialità, oltre ad implicare nuove dimensioni del sé, implica una revisione delle rappresentazioni riconducibili alle prime esperienze di attaccamento”. Con la maternità, come si nota nella vita quotidiana, l'affettività prende il sopravvento sulla pura genitalità dello sfogo erotico. Le responsabilità della ragazza aumentano ed ella entra in un mondo adulto ove non v'è più spazio per la contestazione e per una sessualità disinibita e consolatoria. Parimenti, Ammaniti & Speranza & Tambelli & Muscetta & Lucarelli & Vismara & Odorisio & Cimino (2006)[24] sottolineano che la giovane, tossicodipendente o meno che sia, è tenuta a sviluppare “un adattamento alla gravidanza ed al futuro ruolo genitoriale”.
All'opposto, analogo cambiamento non è socialmente richiesto al maschio responsabile della gravidanza o, perlomeno, all'uomo la cultura dominante richiede una minore presenza genitoriale. Anzi, per la donna incinta, taluni Autori parlano di una tendenza congenita ed istintiva alla maternità. P.e., Winnicott (1958)[25] reputa che “la futura madre sviluppa […] una preoccupazione materna primaria. Tale funzione si basa sulla sensibilità e capacità empatica della madre, caratteristiche intrinseche che le permettono di sintonizzarsi con i bisogni affettivi del figlio e di dare una risposta adeguata a tali bisogni. E' uno stato mentale che proprio durante la gravidanza raggiunge un'elevata sensibilità”. Come si nota, anche Winnicott (ibidem)[26] parla di una “istintività materna”, che, tuttavia, è necessariamente incompatibile con l'abuso di bevande alcoliche e di sostanze stupefacenti. Di nuovo, come si nota, la maternità implica un livello di maternità che annichilisce qualunque residuo caratteriale dell'adolescenza. Ciononostante, le ragazze tossicomani vivono la loro maternità senza il necessario auto-controllo. P.e., Pulvirenti & Righi & Valletta (2016)[27] evidenziano che “molte volte, la gravidanza viene scoperta ad uno stadio ormai avanzato. Tale ritardo è conseguenza del fatto che la maggior parte delle donne tossicodipendenti è soggetta all'irregolarità del ciclo mestruale, dovuta alle alterazioni ormonali causate dall'uso di sostanze e da una vita sregolata. Va anche tenuto presente che tali donne hanno una scarsa cura e percezione del proprio stato fisico; dunque, i controlli prenatali possono essere effettuati occasionalmente”.
A ciò si aggiunga pure che la quasi totalità delle ultra-13enni tossiche si prostituisce per mantenersi la dose giornaliera, il che rende la gravidanza ancor più caotica e priva di consapevolezza circa i cambiamenti di vita necessari. Nella donna tossicodipendente domina un notevole disordine comportamentale, che le rende incompatibili con il nuovo ruolo di madre. Ognimmodo, senza dubbio, la gravidanza, soprattutto nella fattispecie delle ragazze tossicodipendenti, è percepita come un' esperienza catartica e rinnovatrice. A tal proposito, Molteni (2013)[28] afferma che “per alcune donne con dipendenza da sostanze, la gravidanza si configura come un'occasione per affermare se stesse, il proprio ruolo di donna e per potersi sentire significative nel percorso di vita di qualcuno”. Purtroppo, tuttavia, la presunta catarsi della gravidanza si rivela, dopo il parto, impossibile da realizzare, in tanto in quanto la maternità richiede un equilibrio emotivo che comporta impegno e che non si recupera in soli nove mesi. O presto o tardi, la madre tossicofila si auto-percepirà come inadeguata ed incline a ripetere di nuovo l'abuso di sostanze. Similmente, a ragion veduta, Ashley & Marsden & Brady (2003)[29] ribadiscono che “sebbene l'arrivo di un figlio, per alcune donne, rappresenti una forte spinta al cambiamento, per altre può rappresentare una vera e propria barriera. In primo luogo, l'arrivo di un figlio può limitarle dal rivolgersi ai Servizi di cura per chiedere aiuto, per la paura di essere giudicate come madri incapaci e, conseguentemente, di venire allontanate dai figli. In secondo luogo, in contesti familiari fragili e multi-problematici, la nascita di un figlio non fa altro che rendere la situazione ancora più difficile”. Torna, dunque, la falsità dell'auto-percezione di purificazione e di rinnovamento connessa alla gravidanza. La maternità, infatti, impone alla giovane donna dei cambiamenti che sono gravemente ostacolati nel mondo della tossicodipendenza.
Fatta senz'altro salva la sacralità della vita del nascituro, rimanere incinta non è certamente una problematica bagatellare priva di serie conseguenze nel lungo periodo. Pure Mazza (ibidem)[30] dichiara apertamente e francamente che “l'incapacità di mentalizzare la gravidanza, quel che ne consegue e di prepararsi a prendersi cura di qualcuno che è altro da sé, rende l'acquisizione dello stato di gravidanza, da parte delle donne tossicodipendenti, particolarmente problematico. Lo scoprire di aspettare un bambino impatta violentemente la vita della futura madre, in particolar modo se ella si trova in una fase di alto coinvolgimento nel consumo di sostanze”. Anche il predetto Dottrinario italiofono, quindi, conferma che la genitorialità femminile cagiona un coinvolgimento totalizzante nella donna, compresa quella tossicodipendente e/o alcolista cronica. L'assuntrice di sostanze deve porre mano ad un serio cambiamento di vita ben prima di rimanere incinta. La maternità richiede un livello di responsabilizzazione incompatibile con la realtà delle droghe.
Con lodevole precisione, pure Cirillo (1996)[31] postula che “l'arrivo di un figlio determina un momento di grande trasformazione, che comporta necessariamente una ridefinizione della propria identità […] [perché] la donna dovrà affrontare importanti trasformazioni, soprattutto quella mentale, che dovrà ospitare l'idea del bambino e di se stessa come futura madre”. D'altronde, si tenga conto pure del fatto che la giovane tossicodipendente vive, nella quasi totalità dei casi, in un contesto socio-familiare assai svantaggiato. Infatti, come nota Dipartimento Nazionale Politiche Antidroga (2002)[32] “la scoperta della gravidanza mette in crisi la dipendenza della futura madre, poiché ciò implica il dover prendere importanti decisioni […]. Molto spesso si tratta di donne sole, che non hanno un concreto sostegno da parte del partner e della famiglia d'origine. L'affrontare la cessazione della dipendenza, la gravidanza e la successiva genitorialità in una condizione di solitudine materiale, ma soprattutto affettiva, rende la situazione particolarmente delicata”. Questo non vale, come intuibile, per il padre tossicomane, la cui totale o quasi totale assenza è socialmente più tollerata; nel mondo delle tossicofilie è completamente assente la ratio della paternità responsabile, sicché tutte le incombenze legate alla genitorialità ricadono soltanto nella sfera dei doveri materni.
E' interessante rilevare, come fanno Scabini & Cigoli (2000)[33] che “la genitorialità è una parte importante della personalità di ogni individuo ed inizia a formarsi nella pre-adolescenza, quando, a poco a poco, vengono interiorizzati i comportamenti, i messaggi verbali e non verbali, le aspettative, i desideri e le fantasie dei propri genitori”. P.e., da secoli, le bambine giocano a “fare la mamma”, con giocattoli totalmente diversi da quelli destinati alla piccola utenza maschile. Si tratta di un condizionamento sociale atavico e, a ben vedere, necessario nonché positivo. Naturalmente, tuttavia, la genitorialità non è un gioco infantile, tantomeno nel contesto delle droghe e dell'alcol. Con afferenza a tale problematica, Mazza (ibidem)[34] specifica che “i fattori di stress legati al diventare genitori, oltre a colpire i genitori stessi, colpiscono soprattutto ed in modo più grave i figli. La tossicodipendenza dei genitori, infatti, ha un grande impatto sui bambini, in ogni fase della loro vita, da prima della nascita sino alla vita adulta. Sono frequenti le situazioni in cui la coppia non riesce ad incorporare adeguatamente il ruolo genitoriale e a rispondere alle esigenze affettive ed educative del figlio”.
A parere di chi scrive, oggi la sessualità reca esclusivamente finalità ludico-ricreative, il che non prepara alla genitorialità, specialmente nel contesto di un abuso di sostanze. Esiste, malaugurevolmente, una visione semi-pornografica della vita di coppia, nella quale i due coniugi/conviventi/fidanzati paiono vivere in un eterno viaggio di nozze imperniato su di un erotismo quasi bestiale. Nè, tantomeno, sussistono condizionamenti sociali che spingano verso una matura genitorialità. Anche il ruolo della donna non è più quello di una madre, bensì di un oggetto di piacere limitato nel tempo. Senza dubbio, inoltre, molto dipende dall'educazione ricevuta. Su tale tematica, Ghezzi & Vadilonga (ibidem)[35] rimarcano che “l'inadeguatezza della funzione genitoriale […] è legata all'identità personale ed affonda le proprie radici nelle relazioni primarie che hanno segnato il percorso di crescita dei futuri genitori all'interno delle famiglie d'origine, in qualità di figli”. Dunque, una pedagogia infantile traumatizzante o, ognimmodo, erronea genera ferite indelebili che protraggono i loro effetti pure nella vita adulta. A sua volta, Mazza (ibidem)[36] ribadisce che “nello studio delle funzioni genitoriali della coppia non si può prescindere dal fatto che questi futuri genitori sono stati, a loro volta, figli, all'interno di famiglie disfunzionali e carenziali. Tali carenze e trascuratezze li hanno successivamente resi incapaci di riconoscere i bisogni e le necessità reali dei propri figli”. Cirillo (ibidem)[37] reputa che “l'incapacità genitoriale di rispondere ai bisogni principalmente affettivi dei figli è dovuta al loro essere bambini incompiuti. Si tratta di un blocco evolutivo in cui il genitore è condizionato a tal punto dalla carenza affettiva vissuta nelle sue relazioni primarie, in qualità di figlio, da non essere in grado di dare le risposte emotive necessarie al suo bambino”.
Ciò è ancor più vero nel contesto delle tossicodipendenze. Degno di similare menzione è pure Mazza (ibidem)[38], secondo cui “sono soprattutto la mancanza di basi sicure e la carenza dei modelli vissuti a partire dalle prime relazioni a rendere inadeguata la funzione genitoriale [dei tossicofili], piuttosto che l'uso delle sostanze e lo stile di vita che la dipendenza comporta”. Oltretutto, non bisogna obliare che le madri tossicodipendenti vivono/convivono in condizioni precarie sotto il profilo igienico-sanitario ì, il che rende ancor più drammatica la loro genitorialità, tranne nel caso di una decisa ed irrevocabile scelta di abbandonare l'abuso di sostanze. Del pari, Fabris & Pigatto (1988)[39] precisano, con estrema esattezza, che “la trascuratezza dei genitori tossicodipendenti nei confronti dei figli affonda le sue radici nelle carenze affettive e di attenzione vissute nel corso della loro infanzia, nella relazione con le proprie figure di attaccamento. Tali carenze, in genere, vengono minimizzate o non riconosciute e sembrano limitare le future competenze genitoriali. Adottando l'ottica della trasmissione inter-generazionale del trauma, [si può affermare che] è come se il genitore tossicodipendente non sapesse costruire per il figlio altro che la propria vicenda traumatica già vissuta con le proprie figure di riferimento, in un ciclo che si auto-perpetua”. Forse, la disfunzionalità dell'attaccamento è un problema generale, ma, sicuramente, essa si acuisce nella fattispecie della fragilità delle madri tossicomani.
[1]Bion, Una teoria del pensiero, in Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico, Armando, Roma, 1962
[2]Bion, op. cit.
[3]Bowlby, Attachment and loss. Vol. 3. Loss. New York, Basic Books. Traduzione italiana: Attaccamento e perdita, Vol. 3, La perdita della madre. Bollati Boringhieri, Torino, 1980/1983
[4]Cicchetti & Rizley, Developmental perspectives on the etiology, intergenerational transmission and sequelae of child maltreatment, New Directions for Children Maltreatment, 11/1981
[5]Rutter, Isle of Wight revisited: twenty-five years of child psychiatric epidemiology, American Academy of Child and Adolescence Psychiatry, 28/1989
[6]Rutter, op. cit.
[7]van der Kolk, Developmental trauma disorder: Towards a rational diagnosis for children with complex trauma histories. www.apa.org 2005
[8]Main & Kaplan & Cassidy, Security in infancy, childhood and adulthood: a move to the level of representation, in Bretherton & Waters (Eds), Growing points of attachment theory and research, Monographs of the Society for Research in Child Development, Vol. 50, 1-2. Serial No 209, 1985
[9]Main & Kaplan & Cassidy, op. cit.
[10]Mazza, Famiglie e minori figli di tossicodipendenti, Tipografia Editrice Pisana, Pisa, 2010
[11]Cirillo & Berrini & Cambiaso & Mazza, La famiglia del tossicodipendente: tra terapia e ricerca, Raffaello Cortina, Milano, 2017
[12]Mazza, op. cit.
[13]Mazza, op. cit.
[14]Andreoli, Famiglia con genitori tossicodipendenti, in Bambino incompiuto, 2, 8, 1991
[15]Ghezzi & Vadilonga, La tutela del minore, Raffaello Cortina, Milano, 1996
[16]Mazza, op. cit.
[17]Cambiaso & Berrini, Terapia della famiglia in crisi, Franco Angeli, Milano, 1992
[18]Cirillo & Berrini & Cambiaso & Mazza, op. cit.
[19]Bowlby, Dalla teoria dell'attaccamento alla psicopatologia dello sviluppo, Rivista di Psichiatria, Vol. 23, n. 2, 1988
[20]Cirillo & Berrini & Cambiaso & Mazza, op. cit.
[21]Caretti & Craparo, La disregolazione affettiva e la dissociazione nell'esperienza traumatica, in Caretti & Craparo (a cura di) Trauma e psicopatologia: un approccio evolutivo-relazionale, Astrolabio, Roma, 2008
[22]Schimmenti & Bifulco, Quando i genitori maltrattano i figli: le radici psicopatologiche dello sviluppo affettivo, in Caretti & Craparo (a cura di), Trauma e psicopatologia: un approccio evolutivo-relazionale, Astrolabio, Roma, 2008
[23]Manzano & Palacio & Espasa & Zilkha, Scenari della genitorialità, Raffaello Cortina, Milano, 2001
[24]Ammaniti & Speranza & Tambelli & Muscetta & Lucarelli & Vismara & Odorisio & Cimino, A prevention and promotion intervention program in the field of mother-infant relationship, Infant Mental Health Journal, 27/2006
[25]Winnicott, Dalla pediatria alla psicoanalisi, Taviostock Publications, Londra, 1958
[26]Winnicott, op. cit.
[27]Pulvirenti & Righi & Valletta, Gravidanza, neogenitorialità e tossicodipendenza. La donna, il feto e il neonato, Quaderni ACP, 2016
[28]Molteni, L'eroina al femminile, Franco Angeli, Milano, 2013
[29]Ashley & Marsden & Brady, Effectiveness of substance abuse treatment programming for women: A review, in American Journal of Drug and Alcohol Abuse, 29(1), 2003
[30]Mazza, op. cit.
[31]Cirillo, La tutela dei minori figli di genitori tossicodipendenti, in Ghezzi & Vadilonga (a cura di), La tutela del minore, Raffaello Cortina, Milano, 1996
[32]Dipartimento Nazionale Politiche Antidroga, Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (2002), Maternità In-dipendente. Una ricerca condotta in comunità di accoglienza per donne tossicodipendenti con figli, Comunità Edizioni, Bologna, 2002
[33]Scabini & Cigoli, Il familiare, Raffaele Cortina, Milano, 2000
[34]Mazza, op. cit.
[35]Ghezzi & Vadilonga, op. cit.
[36]Mazza, op. cit.
[37]Cirillo, op. cit.
[38]Mazza, op. cit.
[39]Fabris & Pigatto, Il predestino di una temerarietà. Breve saggio sui figli dei tossicomani, Psichiatria dell'infanzia e dell'adolescenza, Vol. 55, 1988