L'impossibilità di un antiproibizionismo “puro” in materia di stupefacenti

L'impossibilità di un antiproibizionismo “puro” in materia di stupefacenti
Gli altri Ordinamenti giuridici in tema di sostanze illecite
Non tutti i sistemi, sotto il profilo meta-geografico, recano la severità estrema del TU 309/90. A tal proposito, Gambardella (2016)[1] osserva che “la bipartizione principale, in materia di disciplina delle sostanze stupefacenti, è tra Ordinamenti di stampo proibizionista e di stampo antiproibizionista”. P.e., nel caso dell'Italia, le disposizioni penali del TU 309/90 (Artt. dal 72 all'86) sono marcatamente proibizioniste, come dimostra l'abnormità estremistica dell'Art. 73 TU 309/90. Con molta onestà culturale, Scarcella (2018)[2] precisa che “i modelli proibizionisti tendono alla penalizzazione ad ampio spettro del fenomeno della produzione, diffusione ed assunzione di droghe; quelli antiproibizionisti, invece, ammettono delle forme di legalizzazione, se non dell'intero ciclo della droga, almeno di alcune sue fasi e, talvolta, ma molto raramente, ne permettono anche la liberalizzazione (che riguarda, però, solo le droghe leggere)”.
La scelta del Legislatore italiano è stata quella di proibire duramente la cessione di stupefacenti nel nome della ratio della protezione della salute collettiva ex comma 1 Art. 32 Cost. (“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività [...]”). In epoca attuale, con afferenza alla repressione dello smercio di sostanze psicotrope o psicoattive, dominano, principalmente, tre Testi di Diritto internazionale pubblico, ossia la Convenzione Unica sugli stupefacenti del 1961, la Convenzione di Vienna del 1971 e la Convenzione contro il traffico illecito del 1988. L'Ordinamento italiano, a prescindere, per un momento, dai dettagli tecnici, sanziona penalmente, nell'Art. 73 TU 309/90, la coltivazione, la produzione, lo smercio e la diffusione verso terzi di droghe; viceversa, ex Art. 75 TU 309/90, le sanzioni sono di carattere solamente amministrativo per chi acquista, passa o detiene stupefacenti esclusivamente “per farne uso personale”. Ognimmodo, in entrambi i casi, la repressione, nell'Ordinamento italiano, è assai severa, anzi una delle più severe di tutto il Continente europeo. Gambardella (ibidem)[3] nota che “il concetto politico-normativo del proibizionismo nasce nell'America degli Anni Venti (seguita da Finlandia, Norvegia e Canada) con riferimento alla vendita ed al consumo di alcolici, e, calato nella materia degli stupefacenti, fondamentalmente non muta: così come dietro la repressione delle condotte afferenti alla diffusione ed al consumo delle sostanze alcoliche vi erano interessi di natura economica accanto a quelli di garanzia dell'ordine sociale (per cui, ad esempio, il fenomeno dell'ubriachezza era considerato riprovevole in quanto lesivo della quiete pubblica), anche alla repressione del fenomeno degli stupefacenti sottendeva la stessa ratio e lo scopo delle incriminazioni era, sostanzialmente, quello di garantire allo Stato il controllo del territorio, del mercato e dell'ordine sociale”.
A parere di chi redige, tuttavia, la suesposta analisi del proibizionismo statunitense non tiene conto dell'ulteriore variabile del rigido puritanesimo delle chiese protestanti negli USA, ove l'astinenza dalle bevande alcoliche e dalle droghe assume una forte valenza religiosa. Proibire l'alcol e gli stupefacenti, nel Nordamerica, è o, perlomeno, era un'esaltazione del valore della moralità evangelica, mentre, in Italia, nel TU 309/90, domina una totale laicità statalista.
Come rilevato da Baiguera Altieri (2017)[4], ma anche da Fava (2017)[5], la Svezia, la Grecia, la Finlandia e la Francia recano Ordinamenti proibizionistici “puri”, che contemplano sanzioni assai pesanti non solo per lo spaccio, ma anche per la coltivazione e la detenzione “per uso personale”. Tuttavia, non bisogna mai dimenticare che gli stupefacenti possiedono anche finalità medicali perfettamente lecite.
Su questa tematica, Chiti Batelli (1992)[6] ha pertinentemente messo in evidenza che “è difficile, se non impossibile, nella prassi, catalogare un sistema come proibizionista puro (e lo stesso vale per i modelli antiproibizionisti puri), dal momento che, in molti Paesi, l'utilizzo, la vendita o la somministrazione di alcune sostanze stupefacenti sono comunque ammessi per finalità terapeutiche e curative”. P.e., si ponga mente al fatto che talune erbe psicoattive, le cc.dd. “smart drugs”, vengono liberamente nelle erboristerie di Svizzera, Germania ed Austria. Oppure ancora, soprattutto negli Stati germanofoni, esistono parafarmacie che somministrano la c.d. “herbal ecstasy” senza bisogno di alcuna prescrizione medica. Da menzionare sono pure stimolanti sessuali a base di efedrina sponsorizzati ed alienati a mezzo TV. Dunque, è ben difficile creare e stabilizzare un proibizionismo assoluto e radicale, specialmente con attinenza a droghe vegetali che possiedono finalità terapeutiche con ridotti effetti collaterali
Quanto al caso dell'Italia, Siracusa (2020)[7] nota che il modello italiano “è fortemente proibizionista, ma non puro”. In effetti, come precisato da Russo (2015)[8], “il sistema italiano prevede il fatto di lieve entità come fattispecie autonoma di reato e, attraverso questa disposizione, opera la depenalizzazione delle condotte minori in materia di stupefacenti”. Anzi, chi scrive ricorda che, al comma 5 Art. 73 TU 309/90, si è affiancata, nel 2015, la non punibilità del fatto per particolare tenuità di cui all'Art. 131 bis CP. Ecco, nuovamente, la dimostrazione che la ratio proibizionista dell'Art. 73 TU 309/90 non è assoluta ed apodittica, specialmente allorquando il Magistrato dichiara la “speciale tenuità del danno o del pericolo” ex n. 4 Art. 62 CP.
P.e., capita pure la non punibilità di una partita di sostanza priva o quasi priva di tenore drogante. Analoga osservazione vale pure per la coltivazione domestica “rudimentale” per finalità di “auto-medicazione”. In buona sostanza, soprattutto in tema di cannabis, la tutela della sanità collettiva ex comma 1 Art. 32 Cost. non costituisce un criterio imperativo e categorico che inibisce la debita “contestualizzazione” giurisprudenziale, poiché il TU 309/90 non contiene affatto disposizioni penali matematicamente ed automaticamente applicabili da un Magistrato ridotto ad un calcolatore elettronico de-contestualizzante. Anzi, come afferma Bray (2016)[9], sono reputate illecite, nel TU 309/90, solamente le sostanze proibite nelle Tabelle, con la conseguenza che spesso talune “nuove” droghe possono liberamente circolare poiché non tipicamente “catalogate” dal Ministero della Salute. Questo è il caso di taluni farmaci non ancora dichiarati illegali nel sistema tabellare.
Esistono pure Ordinamenti giuridici, come rilevano Callipari & Barillà & Nobile (2020)[10], “di impronta liberale, per i quali, sia ben chiaro, non è legalizzato il fenomeno tout court, ma, piuttosto, alcune sue frazioni, quali, ad esempio, il consumo personale di droghe e le attività connesse all'offerta di droghe leggere”.
All'interno delle normative antiproibizioniste, di solito, prevale lo jato tra l'illiceità delle sostanze pesanti e la liceità di quelle leggere, ammesso e non concesso che, nel lungo periodo, la cannabis non produca veramente effetti avversi tutt'altro che leggeri. In Europa, l'antiproibizionismo domina nei Paesi Bassi e, specialmente, in Olanda. De jure condito, il Parlamento olandese, adeguandosi alla Convenzione dell'Aja, ha adottato una legge proibizionista, nel 1928, ma si tratta di un testo di normazione ormai completamente novellato. In Olanda, esistono “scaglioni di pena” calibrati sulla base della quantità detenuta. Ovverosia, per la marjuana e l'haschisch, la detenzione da 30 grammi ad 1 Kg è presunta finalizzata allo spaccio ed è punita con la pena pecuniaria da 5 a 10 euro per grammo; viceversa, la detenzione di canapa, per fini di vendita, da 1 a 5 Kg viene sanzionata con la pena pecuniaria congiunta a quella della reclusione. Ciononostante, la situazione, in Olanda, non è così semplice come potrebbe apparire.
Più nel dettaglio, Franceschelli (2011)[11] precisa che “[nei Paesi Bassi] la detenzione di lievi quantitativi di cannabis o altre droghe leggere è di fatto legalizzata, ma è la distribuzione delle droghe, nonostante la diffusione dei famosi coffee shop […] a rappresentare ancora una zona grigia non normativizzata dal sistema interno: la vendita è, infatti, solo tollerata dall'Ordinamento, che la tassa alla stregua di una qualsiasi altra attività commerciale, senza soffermarsi sull'eventuale disvalore dell'attività”. Tale “zona grigia” del commercio di canapa, a parere di chi commenta, conferma, ancora una volta, che la legalizzazione degli stupefacenti non reprime e non reprimerà mai quel sottobosco criminale e criminogeno che accompagna sempre e comunque il mondo dello smercio e del consumo di sostanze tossicovoluttuarie. Ciò che è certo, in ogni caso, è che, nella Legislazione olandese, la scelta è stata quella di non tutelare pubblicisticamente più di tanto la salute dei tossicomani. Infatti, come rimarca Franceschelli (ibidem)[12], l'antiproibizionismo dell'Olanda è molto lontano dagli intenti democratico-interventistici di cui al comma 1 Art. 32 della Costituzione italiana. Il tossicodipendente olandese viene lasciato libero di auto-ledersi; il che, naturalmente e come prevedibile, non diminuisce gli elevati costi sociali della tossicofilia, la quale, ognimmodo, nei Paesi Bassi, è stata quasi totalmente depenalizzata, soprattutto con attinenza alla marjuana ed all'haschisch.
Anche Scarcella (ibidem)[13] smorza i facili entusiasmi esterofili, poiché “il modello olandese, per quanto antiproibizionista, non opta per una liberalizzazione del mercato degli stupefacenti […] e ciò sia per ragioni di Diritto (la tutela dell'ordine pubblico) sia per ragioni economiche […]. Dunque non esiste [nemmeno in Olanda, ndr] un modello antiproibizionista puro che preveda la liberalizzazione di qualunque tipo di droga, ma si registra sempre qualche forma di classificazione e di distinzione tra droghe pesanti e droghe leggere, con una tendenziale legalizzazione delle condotte afferenti a queste ultime”. Come si può notare, anche Scarcella (ibidem)[14] mette in risalto l'inscindibile binomio “droga-criminogenesi”, anche in presenza di una legalizzazione radical-chic
Non esistono né il proibizionismo “puro” né l'antiproibizionismo “totale”. Nella tematica degli stupefacenti sussistono pur sempre dei temperamenti istituzionali. Perciò, Pietrostefani (1998)[15] dichiara apertamente che “oggigiorno, questa bipartizione [tra proibizionismo e legalizzazione completa, ndr] è solo di massima e può essere utile ad orientarsi in un panorama che presenta, invero, molteplici modelli ibridi o, comunque, più moderati, in ragione delle contingenze, anche economiche, registrate al momento della produzione legislativa e dell'impronta più o meno paternalistica dei sistemi di tutela in cui si incastona la disciplina”. Dunque, è falsa e populistica l'utopia di un Ordinamento che tutto legalizza nel nome di una liberistica non-tutela della salute collettiva.
Specularmente, un Legislatore non potrà mai reprimere qualunque forma di tossicomania e di delinquenza ad eziologia tossicofiliaca. Dal canto suo, anche Bernardoni (2018)[16] puntualizza che “si sono diffusi, per lo più, modelli intermedi che, comunque, continuano ad evolversi, modificando se stessi con normative sempre nuove, che cercano di stare al passo con un settore che è fortemente connotato dalla transnazionalità delle condotte incriminate”. Pure chi commenta osserva che nessuna Legislazione è mai riuscita ad azzerare il fenomeno del narcotraffico illecito; né, tantomeno, si può pensare alla soluzione di una tolleranza incondizionata ed estremistica. P.e., Birritteri (2018)[17] mette in evidenza che la criminalità organizzata, non solo in Italia, gestisce “un ciclo della droga che è frammentato in più fasi criminose, che hanno svolgimento in Paesi diversi”. Pertanto, il narcotraffico è e sarà sempre una caratteristica basilare per le mafie globali e globalizzate. D'altronde, mai nessuno riuscirà a debellare la coltivazione tradizionale della foglia di coca in Stati quali la Colombia, l'Honduras, il Guatemala o il Messico, ove le piantagioni di droghe costituiscono la normalità sin dall'epoca pre-colombiana. Analogamente, esistono Paesi europei nei quali la vendita all'ingrosso di stupefacenti trova l'appoggio di burocrazie corrotte e, anzi colluse.
P.e., nel 2008, la Presidenza della Repubblica dell'Honduras si schierò per la legalizzazione della cocaina, nell'illusione di annullare la criminogenesi connessa al mondo delle sostanze illecite. Oppure, si pensi alla scelta, nel 2017, di legalizzare la cannabis in alcuni Stati americani, quali l'Alaska, la California, il Colorado, il Maine, il Massachusetts, il Nevada, l'Oregon, Washington ed il Distretto di Columbia. Anche in questo caso, come si può notare, il modello proibizionista statunitense ha dovuto tollerare dei correttivi di stampo riduzionista/abolizionista. Nuovamente, si vede l'impossibilità storico-sociale di recare innanzi un proibizionismo “puro e duro”, specialmente con attinenza alle cc.dd. “droghe leggere”, che nulla, peraltro, hanno di “leggero” nel lungo periodo.
Sempre in merito agli USA, Scarcella (ibidem)[18] evidenzia che “molti Stati hanno orientato […] le loro politiche interne verso un modello tendenzialmente antiproibizionista, discostandosi dall'approccio adottato a livello federale”. Ciononostante, a parere di chi redige, nemmeno il più libertario degli antiproibizionismi sarà in grado di debellare la dolorosa piaga della tossicodipendenza giovanile, in tanto in quanto le sostanze tossicovoluttuarie, piaccia o non piaccia, sono e resteranno comunque connesse alla criminalità organizzata di calibro internazionale.
Profili di Diritto Internazionale Pubblico
Come nota, Scarcella (ibidem)[19], “a livello sovranazionale, il modello costruito e perseguito dalle politiche europee è, essenzialmente, quello proibizionista, sia per ragioni di tutela dell'ordine sociale e della salute pubblica, sia per ragioni di controllo e di sicurezza territoriali”. Ciò è particolarmente vero nelle disposizioni penali del TU 309/90, ove domina sebbene talvolta temperata, la ratio suprema e quasi totalizzante della protezione della sanità pubblica enunziata nel comma 1 Art. 32 Cost. . Tutti gli Ordinamenti dell'Europa contemporanea hanno ratificato la Convenzione di Vienna del 1988, nei cui Lavori Preparatori si rimarca che “l'aumento della produzione, della consumazione e dei traffici di sostanze stupefacenti rappresenta, oltre che una minaccia per la salute dell'umanità, anche un potenziale danno per le basi culturali, economiche e politiche della società, nonché per la stabilità sicurezza e sovranità degli Stati, basi, soprattutto queste ultime, minate, altresì, dall'indiscusso legame tra il traffico illecito transfrontaliero ed altre attività criminali organizzate correlate”. Quindi, nei Lavori Preparatori alla Convenzione di Vienna del 1988, torna la ratio della “Law and Order”, congiunta ad una pregnante tutela democratico-socio-interventistica della salute degli assuntori. Si è, pertanto, ben lontani dall'antiproibizionismo indifferentista dello Stato liberale.
Sempre nella Convenzione di Vienna del 1988, non va sottaciuta l'altrettanto importante ratio della lotta alla criminalità organizzata che gestisce il traffico di sostanze illecite. A tal proposito, Pietrostefani (ibidem)[20] afferma che “le principali attività criminose legate alla droga sono quelle che coinvolgono contemporaneamente più Paesi, tra le cui frontiere si estrinsecano alcune delle principali condotte connesse al ciclo degli stupefacenti e la cui criminosa collaborazione comporta evidenti ricadute sul sistema di controllo e repressione transfrontaliero”. Ecco che, ancora una volta, riemerge il sinistro ed indissolubile legame tra l'ambito del narcotraffico e la criminalità organizzata. Si tratta di una realtà drammaticamente nota all'Italia, che è la patria d'origine delle mafie calabro-sicule, della Camorra e della Sacra Corona Unita, le quali si autofinanziano proprio grazie al commercio di droghe.
Altrettanto basilare è stata la Convenzione Unica sugli stupefacenti di New York del 1961, nella quale, per la prima volta, venne proibito non solo lo smercio, ma anche la coltivazione di sostanze illecite. Tuttavia, la summenzionata Convenzione Unica del 1961 non manca di sterili declamazioni retoriche, come quando, nell'incipit, asserisce che “le Parti [sono] preoccupate della salute fisica e morale dell'umanità [e] riconoscono che la tossicomania è un flagello per l'individuo e costituisce un pericolo economico e sociale per l'umanità [e le Patri sono] coscienti del dovere che loro incombe di prevenire e combattere tale flagello [...]”. L'aspetto maggiormente positivo di questa Convenzione Unica del 1961 è quello di aver imposto agli Stati firmatari l'obbligo di statuire, de jure condito, severe ed effettive sanzioni di rango giuspenalistico. Come osservato da Stefanini (2012)[21] “questa Convenzione segna l'avvio, negli USA, di una politica di lotta alle droghe molto serrata, a sostegno della quale furono promulgate leggi particolarmente repressive (come le cc.dd. Leggi sulla droga Rockfeller) che prevedevano pene esorbitanti – dai 15 anni all'ergastolo – per i detentori di droghe pesanti oltre un certo quantitativo (115 grammi circa). Fu anche istituita la figura istituzionale dell'Alto Responsabile contro la droga nell'Ufficio del Presidente Reagan”.
Senz'altro degna di menzione, nel panorama del Diritto Internazionale Pubblico, è la Convenzione sule sostanze psicotrope di Vienna del 1971. Essa perseguiva un rigoroso proibizionismo e catalogava le sostanze illecite attraverso un sistema tabellare che ricorda da vicino quello del TU 309/90. Inoltre, la Convenzione del 1971 qui in parola imponeva agli Stati ratificanti di introdurre, nel loro Diritto interno, sanzioni penalmente rilevanti, congiunte a trattamenti sanitari per la riabilitazione psicofisica dell'assuntore. Dunque, la Convenzione di Vienna era vicina al proibizionismo radicale di quello che poi sarebbe stato l'Art. 73 TU 309/90, anche se non mancava la previsione delle cc.dd. “misure alternative”. Nel testo normativo qui in esame, sussiste la consapevolezza che, in tema di stupefacenti, la rieducazione carceraria deve comunque accompagnarsi ad un'idonea riabilitazione sanitaria; questa congiunzione fra trattamento penitenziario e trattamento psico-farmacologico viene sfrontatamente ignorata nell'attuale applicazione italiana del TU 309/90, ove domina una preponderante nonché fallimentare concezione iper-legalistica della tossicomania. Nell'Ordinamento italiano, il carcere viola le esigenze di cura del tossicodipendente infrattore, cui non è garantita una debita disintossicazione corporale e mentale: Questo approccio securitario viene a violare la Convenzione di Vienna del 1971 e non fa altro che aumentare le indicibili sofferenze del detenuto tossicofilo.
Sempre nel Diritto Internazionale Pubblico, va menzionata pure la Convenzione ONU del 1988 sul traffico illecito di sostanze stupefacenti e psicotrope. Tale Atto di Normazione imponeva alle Parti ratificanti si sanzionare, in misura assai pesante, la coltivazione del papavero da oppio, della canapa e dell'arbusto di coca. Come notato da Scarcella (ibidem)[22], “lo scopo della Convenzione ONU del 1988 era quello di imporre agli Stati firmatari di incriminare e sanzionare praticamente qualunque condotta dolosa che s'innestasse nel ciclo della droga: dalla coltivazione e produzione delle sostanze psicotrope e droganti (di cui alle Tabelle richiamate dalle Convenzioni del '61 e del '71) al loro traffico ai fini della vendita e della consumazione; a questi obblighi di criminalizzazione, tuttavia, gli Stati erano tenuti, ex Art. 3 Paragrafo 2, facendo salvi i propri principi costituzionali ed i concetti fondamentali del proprio Ordinamento giuridico”.
Ciò significa, per quanto attiene all'Italia, che non subiva alcuna deminutio la ratio suprema della tutela della salute collettiva ex comma 1 Art. 32 Cost. . Per il vero, la Convenzione ONU del 1988, nell'Art. 3 n. 1 lett. a) IV, richiama da vicino quello che attualmente è il comma 1 Art. 73 TU 309/90, ovverosia la Convenzione ha introdotto l'obbligo, per gli Stati ratificanti, di “criminalizzare ogni condotta propedeutica e/o agevolatrice di produzione, traffico o vendita: vale a dire, la fabbricazione, il trasporto o la distribuzione di attrezzature, di materiali o di sostanze psicotrope nella coscienza che essi siano utilizzati nella coltivazione, produzione o fabbricazione illecita di sostanze stupefacenti o psicotrope o per questi fini”. Come si può notare, l'Art. 3 n. 1 lett. a) IV della Convenzione ONU del 1988 ha rinvenuto piene attuazione nel più che severo comma 1 Art. 73 TU 309/90. Altrettanto intransigente è l'Art. 3 n. 1 lett. b) I della predetta Convenzione, il quale sanziona con la reclusione “il finanziamento, la direzione o l'organizzazione del traffico illecito [di droghe] nonché ogni condotta successiva a quelle propriamente riconducibili al traffico di stupefacenti, purché volta a dissimulare, contraffare od occultare la precedente commissione di un fatto di reato in materia di stupefacenti, agevolando il reo affinché sfugga alla sanzione”.
A parere di chi scrive, la Convenzione ONU del 1988 ipostatizza la repressione penale, dimenticando che la Giuspenalistica non costituisce la soluzione esclusiva al problema del traffico illecito di sostanze stupefacenti. Tale è pure l'errore della Common Law statunitense, che assolutizza la sanzione carceraria, venendo meno alla ratio della proporzionalità e della rieducatività della pena. Anche in Italia, del resto, non manca chi fa un uso distorto del Diritto Penale, sino al punto di comprimere la necessaria clausola dell'umanizzazione della sanziona criminale ex comma 3 Art. 27 Cost. . Pure Callipari & Barillà & Nobile (ibidem)[23] sottolineano che l'Art. 3 della Convenziona ONU del 1988 esalta oltremodo “le misure restrittive della libertà personale del reo”, dimenticando l'altrettanto indiscutibile importanza delle sanzioni alternative. Svariati Dottrinari hanno ribadito anch'essi che, nella Convenzione ONU del 1988, manca la tematica della cura medica del tossicodipendente. Tutto viene risolto con un'inutile ipertrofia precettiva della Giuspenalistica e, per tal via, il carcere si trasforma in un luogo di contenimento e neutralizzazione retribuzionista degli “scarti sociali”.
Nel Diritto europeo, rimane fondamentale, in materia di contrasto alla vendita ved all'uso di stupefacenti, la Decisione Quadro 2004/757/GAI. Giordano & Di Matteo (2008)[24] affermano che “[la Decisione Quadro 2004/757/GAI] imponeva agli Stati membri un vincolo relativo al fine di perseguire e a cui aspirare attraverso le proprie discipline interne, che, tuttavia, restavano svincolate quanto alle modalità di raggiungimento dello stesso. Tale decisione non è mai stata recepita dal nostro Ordinamento e, per quanto dettagliata, non avendo applicabilità diretta, non poteva validamente ovviare ai casi in cui il giudice si trovasse di fronte ad un vulnus di tutela. Tuttavia, grazie all'introduzione, ad opera della Corte EDU, del principio dell'interpretazione conforme alle decisioni quadro non recepite, è stato possibile, anche per il nostro sistema, conformarsi ed armonizzare la propria disciplina con quella sovranazionale”. Tale Decisione Quadro 2004/757/GAI ribadisce il proibizionismo rigoroso che sta alla base delle disposizioni penali del TU 309/90. P.e., nell'Art. 2 Decisione Quadro 2004/757/GAI, è imposta “la previsione di obblighi di incriminazione riguardanti tutte le condotte afferenti al ciclo della droga”.
A sua volta, l'Art. 4 Paragrafi 1 e 2 della Decisione Quadro qui in esame obbliga gli Stati firmatari “all'armonizzazione dei profili sanzionatori attraverso l'indicazione di un tetto edittale minimo obbligatorio per talune tipologie di reati”. Ecco, nuovamente, pure nella Decisione Quadro 2004/757/GAI, l'ipostatizzazione inutile del solo Diritto Penale, con una conseguente lesione implicita del comma 3 Art. 27 della Costituzione italiana. Di nuovo, il trattamento penitenziario intramurario prevale sulla riabilitazione psicofisica e sociale del tossicodipendente. Tuttavia, nella Decisione Quadro ora oggetto di analisi, non manca una disciplina più attenuata per le cc.dd. “droghe leggere”, anche se domina sempre, come anzidetto, una “visione penale” del contrasto alla tossicofilia. Inoltre, la Decisione Quadro parla della minore gravità e sanzionabilità dell'”uso esclusivamente personale”; dunque, l'Art. 75 TU 309/90 risulta perfettamente allineato alla normativa europea, che riconosce, pur tra mille ripensamenti, la libertà di auto-ledersi in capo all'assuntore. Da segnalare è pure che il considerando n. 5 della Decisione Quadro 2004/757/GAI invita le Parti ratificanti a calibrare le pene detentive sulla base della “tipologia” della sostanza, in tanto in quanto l'eroina, la cocaina o l'ecstasy presentano effetti farmaco-cinetici diversi da quelli della marjuana e dell'haschisch, pur se chi commenta si dichiara decisamente contrario all'antiproibizionismo radical chic in tema di cannabis. La canapa, nel lungo periodo, manifesta controindicazioni non inferiori a quelle delle sostanze cc.dd. “dure”.
[1]Gambardella, I reati in materia di stupefacenti, in Fiorella (a cura di), Questioni fondamentali della parte speciale del Diritto penale, Torino, 2016
[2]Scarcella, La rivoluzione di fumo. Propositi nazionali di legalizzazione delle droghe leggere alla prova delle Convenzioni internazionali, in Diritto Penale Contemporaneo, 3, 2018
[3]Gambardella, op. cit.
[4]Baiguera Altieri, Gli stupefacenti nel diritto penale europeo, in Diritto.it, 21.9.2017
[5]Fava, Stupefacenti. Analisi, problematiche e legislazione italiana, Padova, 2017
[6]Chiti Batelli, Droga, problema europeo. Una terza via tra proibizionismo e legalizzazione ? Franco Angeli, 1992
[7]Siracusa, Il traffico illecito di droghe leggere dal Mediterraneo all'Atlantico: punti fermi e questioni aperte, in Militello & Spena & Mangiaracina & Siracusa (a cura di), I traffici illeciti nel mediterraneo. Persone, stupefacenti e tabacco, Torino, 2020
[8]Russo, Il fatto di lieve entità, in Licata & Recchione & Russo (a cura di), Gli stupefacenti: disciplina ed interpretazione, Torino, 2015
[9]Bray, Coltivazione di marjuana ed (in)offensività della condotta nella recente giurisprudenza di legittimità: necessità di fare chiarezza, in Diritto Penale Contemporaneo, 23.5.2016
[10]Callipari & Barillà & Nobile, L'ingente quantità e il fatto di lieve entità nella legge sugli stupefacenti, Milano, 2020
[11]Franceschelli, Vietato l'accesso ai coffee shop ma solo per i non residenti: nel caso Josemans l'ordine pubblico prevale sulla libera prestazione dei servizi, in Diritto Pubblico Comparato, Rivista trimestrale II, Sezione Mercato, Concorrenza e politiche sociali, Torino, 2011
[12]Franceschelli, op. cit.
[13]Scarcella, op. cit.
[14]Scarcella, op. cit.
[15]Pietrostefani, Il sistema droga. Per capire le cause e punire di meno, Milano, 1998
[16]Bernardoni, Stupefacenti di qualità diversa e lieve entità: un passo avanti delle Sezioni Unite nel chiarimento sui rapporti tra le varie ipotesi di narcotraffico, in Diritto Penale Contemporaneo, 21.11.2018
[17]Birritteri, Il concorso tra associazione a delinquere di stampo mafioso e associazione finalizzata al traffico di stupefacenti: alla ricerca di una razionale repressione del fenomeno, in Diritto Penale Contemporaneo, 25.5.2018
[18]Scarcella, op. cit.
[19]Scarcella, op. cit.
[20]Pietrostefani, op. cit.
[21]Stefanini, Gli USA e la terza via nella guerra alla droga, in Limesonline, rivista italiana di geopolitica, 17.5.2012
[22]Scarcella, op. cit.
[23]Callipari & Barillà & Nobile, op. cit.
[24]Giordano & Di Matteo, Reati in materia di stupefacenti. Percorsi giurisprudenziali, Milano, 2008