L'eziologia criminologica delle tossicodipendenze

L'eziologia criminologica delle tossicodipendenze
I pareri della Dottrina criminologica
Il problema della tossicodipendenza non reca solamente un'eziologia psico-patologica. L'essere tossicomani è una vera e propria malattia sociale, le cui cause vanno ricercate all'interno di tutte le agenzie di controllo, come la famiglia, ma anche l'ambito scolastico ed il gruppo dei pari eventualmente criminogeno. Con lodevole onestà scientifica, Fals-Stewart & Lam & Kelley (2009)[1] affermano che “anni di ricerche hanno dimostrato una relazione tra funzionamento familiare ed abuso di sostanze”. Dunque, che lo si voglia o no, viene ribadita la centralità della famiglia quale cellula educativa primaria e, anzi, fondamentale nella formazione del carattere del giovane tossicofilo. Del pari, la centralità delle agenzie di controllo è riconfermata da Rowe (2012)[2], in tanto in quanto “la dipendenza da sostanze può essere considerata come un fenomeno che prende avvio e viene mantenuto da una serie di fattori in interazione tra loro (sistema individuale, familiare, sociale ed altri sistemi di appartenenza)”. Nuovamente, Rowe (ibidem)[3] ripete che il tossicodipendente è tale nella misura in cui la propria tossicomania è figlia di un ambiente socio-familiare patogeno.
Anzi, sempre Fals-Stewart & Lam & Kelley (ibidem)[4] hanno messo in evidenza che la psicoterapia migliore è quella “familiare o di coppia”, dal momento che l'abuso non occasionale di sostanze nasce da un contesto sistemico che trascende le inclinazioni e le responsabilità del singolo uncinato, il che vale anche nella fattispecie dell'alcolismo cronico. Entro tale medesima ottica, Klostermann & O'Farrell (2013)[5] precisano anch'essi che “l'intervento [curativo] familiare e di coppia [nel caso dell'abuso di sostanze] presenta migliori risultati rispetto agli interventi individuali che si focalizzano solo sulla figura del tossicodipendente”. Come si può notare, pure i due summenzionati Dottrinari anglofoni mettono in risalto la natura socio-familiare delle dipendenze acute, giacché la persona uncinata giunge al mondo delle droghe e delle bevande alcoliche anche o soprattutto a causa di carenze affettive che rinvengono origine nella famiglia o nella coppia patogena. Sicché, la scelta di far uso di sostanze è eziologicamente legata a traumi infantili ed adolescenziali mal elaborati.
In effetti, O'Farrell & Clements (2012)[6] invitano a superare il “behavioral approach” per spingersi verso un “family systems approach”. Ciò non significa iper-responsabilizzare i genitori dell'assuntore, ma, di certo, la disintossicazione è un percorso pedagogico che deve coinvolgere l'intera famiglia di chi intende uscire dal tunnel della droga.. D'altronde, è evidente che l'ultra-13enne trasgredisce poiché è alla ricerca di consolazioni extra-familiari diversamente non reperibili. Il mancato affetto familiare o, più semplicemente, la disfunzionalità della famiglia trovano la loro compensazione in sostanze illegali o semi-legali. A tal proposito, O'Farrell & Fals-Stewart (2001)[7] parlano di “family disease model” ed asseriscono che “l'abuso di alcol e di altre sostanze va visto come una malattia della famiglia, di cui non soffre, quindi, solo la persona tossicodipendente, ma tutti i membri del sistema”. Nuovamente, anche questi Autori invitano all'analisi delle eventuali e, a dire il vero, frequenti disfunzionalità pedagogiche patite nel nucleo educativo primario della famiglia. Ovvero, il tossicodipendente non è responsabile dei propri traumi giovanili, pur se la tossicofilia è e rimane una decisione personale non deterministicamente ineludibile. Ancor più esplicito è Rowe (ibidem)[8], a parere del quale il “family disease model” è imprescindibile, in tanto in quanto spesso “i bambini nascono e crescono in famiglie con problemi di alcolismo […] [e] questa condizione influenza il loro comportamento adulto”. Pertanto, esistono nuclei familiari che fanno percepire le dipendenze come realtà normali e, quindi, degne di imitazione.
Né, tantomeno, specialmente nel mondo femminile, va obliato il ruolo criminogeno del fidanzato/marito/convivente/compagno; p.e., Stanton & Shadish (1997)[9] esortano, in sede di psicoterapia, ad un “family-couples treatment”, perché anche la coppia può essere patologica a fuorviante. Degni di menzione, sempre nell'ambito della Criminologia anglofona, sono Smock & Froerer & Blakeslee (2011)[10], i quali parlano della necessità di una “family psychotherapy”, nel senso che “[la dipendenza da sostanze] è una condizione emotiva, psicologica e comportamentale che affligge tutti i membri dello stesso sistema di cui fa parte la persona che abusa di sostanze, i quali arrivano a presentare veri e propri sintomi derivanti dalla condizione di tossicodipendenza [del familiare]”. In maniera assai simile, Black (1982)[11] utilizza l'espressione “disturbo co-dipendente di personalità”, nel senso che “i membri del sistema [familiare, ndr] che si trovano in una condizione di co-dipendenza metteranno in atto, inconsapevolmente, una serie di comportamenti volti al mantenimento della tossicodipendenza. Il termine enabling si riferisce proprio ai comportamenti che perpetuano l'uso di sostanze, per esempio agevolandone l'uso, oppure proteggendo da eventuali conseguenze negative associate all'assunzione delle stesse”. Gli asserti di Black (ibidem)[12] si attagliano perfettamente a quei nuclei familiari iper-protettivi che coprono ad ogni costo le tossicomanie della figliolanza, al fine di non cadere nella disapprovazione del gruppo sociale di riferimento. Si tratta, solitamente, di genitori medio-borghesi che giungono a donare denaro alla prole per acquistare la sostanza senza creare eventuali scandali o reati da parte del/della figlio/a tossicofilo/a.
Come sostenuto da Wegsheider (1981)[13], “l'intervento [psicoterapeutico] consiste nel prendere in carico separatamente il paziente egli altri membri della famiglia. L'obiettivo non è quello di fare in modo che la persona interrompa l'uso di sostanze, quanto, piuttosto, quello di incoraggiare i membri della famiglia a sviluppare strategie che permettano di affrontare meglio il contesto entro cui sono inseriti”. Ecco, di nuovo, la problematica di una famiglia completamente disfunzionale entro cui un'erronea affettività ha recato la figliolanza a cercare consolazione nelle sostanze stupefacenti e/o nell'alcol. Sicché, la famiglia rinuncia al proprio ordinario e positivo ruolo di agenzia di controllo; la prole, per conseguenza, cerca nelle droghe una sorta di rifugio e di auto-medicazione alternativa. Del pari, Beattie (1987)[14] ribadisce la necessità di “terapie familiari di gruppo”. Pure Cermak (1986)[15] ripete che il family disease model “sembra essere quello maggiormente utile nel trattamento della tossicodipendenza”.
Tuttavia, a parere di chi redige, la psicoterapia familiare di gruppo non costituisce la soluzione automatica di tutti i mali. Infatti, rimane imprescindibile la necessaria buona volontà dell'assuntore, che deve impegnarsi seriamente e tenacemente nel percorso di disintossicazione fisica e mentale. P.e., se il ragazzo non si dissocia da un gruppo di coetanei criminogeno, la devianza tossicomaniacale perdurerà e, fors'anche, si aggraverà. La psicoterapia ed il trattamento farmacologico debbono essere preceduti da una forte volontà del giovane paziente. P.e., McCrady & Epstein (1999)[16] precisano che “non tutte le ricerche supportano l'efficacia dell'approccio familiare”. Detto in altri termini, i genitori non possono colpevolizzarsi sempre e comunque di fronte alla libera tossicodipendenza ed alcoldipendenza dei figli.
L'approccio analitico di tipo familiare-sistemico
Nella Criminologia anglofona, il c.d. “family systems approach” concepisce la tossicodipendenza alla stregua di un problema familiare e non di una condizione patologica limitata alla persona del singolo tossicodipendente. Ogni componente della famiglia, infatti, contribuisce o, perlomeno, ha contribuito alla formazione ed al mantenimento del disagio filiale. P.e., Cancrini (1982)[17] afferma che “[bisogna] considerare il comportamento tossicomane come una variante delle crisi (psicotiche e non) con cui un certo numero di giovani adulti esprime la difficoltà della propria emancipazione dal gruppo familiare di provenienza”. Come si nota, Cancrini (ibidem)[18] non colpevolizza l'intera famiglia, ma rimarca, in ogni caso, che il Disturbo da Uso di Sostanze (DUS) affonda le proprie radici nei traumi patiti dall'ultra-13enne in età adolescenziale. Il ragazzo/La ragazza cerca di affrancarsi dalla potestà morale dei genitori sfogando la propria frustrazione negli stupefacenti e nell'alcol. Sicché, le sostanze d'abuso si trasformano in medicamenti alternativi assunti per acquisire un'autonomia mai pienamente raggiunta.
Che il figlio tossicofilo ipostatizzi la propria “emancipazione” è ribadito pure da Haley (1997)[19], secondo cui “i giovani tossicodipendenti oscillano, generalmente, tra due estremi di comportamento: creano problemi, oppure sono apatici ed inconcludenti. In entrambi i casi, però [...] dimostrano di non essere autosufficienti […] [Così]la tossicodipendenza del figlio permette ai genitori di continuare a ricoprire un ruolo genitoriale, invece che coniugale; il soggetto agisce attraverso comportamenti devianti che mostrano incapacità di autosufficienza, anche dal punto di vista economico”. Pertanto, Haley (ibidem)[20] sottolinea anch'egli che il DUS del giovane adulto è sintomo di una mancata separazione psicologica tra la prole ed i genitori. Detto in altri termini, la famiglia si rivela completamente disfunzionale, poiché la figliolanza affetta da DUS si ritrova a vivere una perenne adolescenza mentale e lavorativa. Si crea, in buona sostanza, un circolo vizioso tale per cui il/la ragazzo/a non può maturare adeguatamente e raggiungere l'indipendenza tipica dell'adultità. Il tossicomane procrastina ad libitum il proprio ruolo di bambino e, per parte loro, i genitori accettano, più o meno consapevolmente, di non interrompere mai il controllo sulle azioni del figlio.
Tale è pure il parere di Cirillo & Berrini & Cambiaso & Mazza (1996)[21], ossia i genitori rinunziano alla loro vita di coppia per accudire la figliolanza tossicofila; tuttavia, così facendo, essi evitano o, ognimmodo, ritardano “la responsabilizzazione e l'emancipazione del figlio”. In definitiva, dunque, il DUS diviene un pretesto per giustificare la mancata adultizzazione della prole, che vive in una campana di vetro iper-protettiva e de-responsabilizzante. La coppia prolunga all'infinito l'infanzia del tossicodipendente, centro assoluto e fine ultimo della vita genitoriale. Analoghe sono le osservazioni di Cancrini (ibidem)[22], ad avviso del quale “il problema della tossicodipendenza [si pone] in relazione all'intera struttura familiare [perché] la dipendenza dalla sostanza permette di risolvere un dilemma importante per il tossicodipendente: emanciparsi, come previsto dalla società, e quindi lasciare la propria famiglia, oppure rimanere in famiglia ma essere un fallito”. Di nuovo, Cancrini (ibidem)[23] ripropone quello che i Dottrinari anglofoni definiscono “family systems approach”, in tanto in quanto il DUS è formato da dinamiche che coinvolgono l'intero sistema familiare. L'ultra-13enne che decide di abusare di sostanze proviene, nella quasi totalità dei casi, da una famiglia disfunzionale in cui la coppia dei genitori, involontariamente ed indirettamente, ha utilizzato approcci pedagogici non idonei.
Fare uso di droghe è una scelta autonoma ancorché psicologicamente condizionata alla luce della vita domestica imposta all'assuntore durante gli anni dello sviluppo psico-fisico. D'altra parte, come pocanzi asserito, il giovane crede di trovare, nel mondo degli stupefacenti e dell'alcol, una consolazione ed una risoluzione pseudo-farmacologica dei propri problemi. In effetti, Stanton & Todd (1982)[24] specificano molto bene che “la droga ha la funzione pragmatica di permettere al soggetto di raggiungere uno stato di pseudo-indipendenza […]. Attraverso l'uso delle droghe, il tossicodipendente intende dimostrare di aver definitivamente rotto i ponti con la sua infanzia, emancipandosi dai genitori; ma queste conquiste si rivelano illusorie, poiché, di fatto, la dipendenza da tali sostanze vincola l'individuo all'interno della famiglia, rendendolo sempre più dipendente in termini di denaro, mantenimento e cure”. Come si può notare, Stanton & Todd (ibidem)[25] ribadiscono che le sostanze tossicovoluttuarie, nel lungo periodo, provocano sempre e comunque un drammatico uncinamento che, ben presto, si sostituisce agli apparenti benefici iniziali. I tossicodipendenti, specialmente le giovani assuntrici donne, cercano nelle droghe e nelle bevande alcoliche un farmaco atipico in grado di porre rimedio ai propri dolori esistenziali. Purtroppo, però, le dipendenze, o presto o tardi, rivelano il loro carattere totalmente negativo, giacché al benessere dei primi mesi subentrano effetti collaterali sia sotto il profilo fisico sia dal punto di vista della salute mentale.
Per la verità, in ogni caso, nella famiglia e per la famiglia, il DUS nasconde sempre relazioni primarie non idonee. P.e., Stanton & Todd (ibidem)[26] hanno statisticamente rilevato che “spesso [si riscontra] la presenza di un rapporto simbiotico e privilegiato tra tossicodipendente e madre e, [dal lato opposto] l'assenza della figura paterna, non tanto fisicamente, quanto dal punto di vista emotivo. Tra i genitori vi è, generalmente, una relazione conflittuale, o, addirittura, una mancanza di rapporto, se non per il fatto che essi condividono lo stesso figlio. Ecco perché, nel momento in cui quest'ultimo si allontana per intraprendere una vita autonoma, il sistema familiare entra in crisi ed il figlio cerca di riportare equilibrio attraverso l'uso di droga, attirando nuovamente si di sé l'attenzione e permettendo ai genitori di comunicare nuovamente tramite sé”. Ancora una volta, i due summenzionati Autori ripropongono il problema dell'”approccio sistemico familiare” al DUS.
Ovverosia, il figlio sceglie la via degli stupefacenti sì liberamente, ma anche alla luce delle disfunzionalità della propria famiglia. P.e., un nucleo familiare perennemente litigioso agevola, nella prole, la via di fuga rappresentata dalle sostanze d'abuso. La figliolanza è indirettamente ed involontariamente invitata a sperimentare la consolazione dell'alcol e degli stupefacenti. Tutti questi asserti, secondo Davis & Berenson & Steinglass & Davis (1974)[27] valgono pure nella fattispecie dell'abuso di bevande alcoliche, le quali sono legali nonché socialmente tollerate. Nella “famiglia alcolica” bere vino, birre o liquori è positivo, entro certi limiti; anzi, nelle occasioni di festa familiare, l'alcol aumenta la condivisione. Tuttavia, spesso, in caso di eccessi, “l'alcol ricopre un ruolo critico nel sistema”. Ciononostante, come dimostrato da Steinglass (2009)[28], quando l'abuso di alcol è radicato nelle tradizioni e nelle abitudini familiari, è più che evidente come la prole non possa essere reputata unicamente e totalmente responsabile della dipendenza. Ecco, quindi, che anche l'alcolismo non occasionale richiede, in sede terapeutica, un “family systems approach”. Del resto, anche Carroll & Ball & Martino (2004)[29] precisano che “[tutti, ndr] i comportamenti legati all'uso di sostanze sono influenzati e rinforzati dalle interazioni tra i membri della famiglia di cui il tossicodipendente fa parte”. Similmente, O'Farrell & Fals-Stewart (1999)[30] rilevano che “[nella famiglia disfunzionale, ndr] si osservano modalità interattive che possono rinforzare il comportamento tossicodipendente […] che è appreso e mantenuto grazie a rinforzi positivi o negativi”.
Il parere della Dottrina criminologica italiofona
Anche nella Dottrina criminologica italiofona, il fenomeno della tossicodipendenza è contestualizzato, in tanto in quanto l'assuntore è figlio del proprio ambiente sociale, familiare e lavorativo/scolastico. Senza agenzie di controllo disfunzionali, probabilmente, l'ultra13enne non sarebbe mai addivenuto al triste lido della tossicomania. P.e., Cancrini (1980)[31] sostiene che “[bisogna] prendere in considerazione diverse prospettive: quella dell'individuo, quella delle sue relazioni familiari e quella delle caratteristiche del consumo di droghe. […]. La droga non è altro che un tentativo disperato di auto-terapia”. Come si può notare, anche il testé menzionato Autore italiofono concepisce il tossicofilo come il prodotto di una famiglia e di una scuola che non hanno saputo assolvere adeguatamente ai loro compiti pedagogici. Sicché, la sostanza d'abuso è divenuta un rifugio nel quale placare il dolore psicologico delle frustrazioni infantili ed adolescenziali.
Sempre Cancrini (1982)[32] ribadisce tale valore automedicativo degli stupefacenti, ovverosia “non ci troviamo […] di fronte a personalità in qualche modo predisposte alla tossicomania. Si tratta di situazioni che l'incontro [con la sostanza] riesce a stabilizzare, a rendere più sopportabili. Le ragioni sono da ricercare anche all'interno della famiglia, temporaneamente incapace di fornire delle risposte adeguate, quindi il soggetto [vive] gli effetti della droga come una risposta positiva o, comunque, almeno in parte soddisfacente rispetto alla propria condizione di difficoltà”. Quanto asserito da Cancrini (1982)[33] è vero, in particolar modo, per le ragazze che fanno uso di alcol e/o di sostanze psicoattive, giacché la donna, anche in condizioni ordinarie, manifesta una spiccata propensione all'auto-terapia. Detto in altri termini, le bevande alcoliche e gli stupefacenti, nell'assuntrice femmina, altro non sono che una terapia farmacologica atipica, la quale, tuttavia, nel lungo periodo, fa emergere effetti collaterali psico-fisicamente devastanti. In tutte le sue Opere, Cancrini distingue tra almeno quattro tipologie di tossicomania:
- la tossicomania traumatica: il tossico patisce un trauma grave (separazione dei genitori, lutto, delusione amorosa, perdita del lavoro) e la mancanza di affetti alternativi spinge il soggetto verso la consolazione dell'abuso di sostanze euforizzanti o stordenti
- la tossicomania sostitutiva di una nevrosi attuale: il/la ragazzo/a rimedia a nevrosi ansiose gravi immergendosi nel mondo delle droghe e dell'alcol. Il disagio mentale o, più semplicemente, caratteriale viene placato con gli stupefacenti, che, ancora una volta, svolgono, almeno nel breve periodo, una funzione auto-medicativa non sanitariamente e professionalmente assistita.
- la tossicomania di transizione: l'ultra-13enne soffre, ex DSM-V, di assai gravi disturbi della personalità e lo stupefacente allevia il dolore mentale e toglie ogni disagio socio-comportamentale. Nuovamente, l'alcol e le altre sostanze psicotrope vengono concepiti come medicamenti euforizzanti o tranquillanti
- la tossicomania sociopatica: l'assuntore cerca nelle droghe un conforto a fronte di abbandoni genitoriali precoci, precarietà abitativa o traumi scolastici. L'eziologia sociopatica della tossicodipendenza s'innesta, nella quasi totalità delle fattispecie, in un contesto familiare degradato che pregiudica l'armonioso sviluppo caratteriale e psicologico della figliolanza. Anche in tal caso, la sostanza si trasforma in un “farmaco amico” in grado di attenuare il dolore interiore, soprattutto allorquando il consumo avviene all'interno di gruppi di pari criminogeni ed anch'essi patogeni
Non mancano Dottrinari secondo cui, fors'anche in modo troppo deterministico, si propone un legame tra le sociopatie dei genitori e quelle dei figli tossicofili. P.e., Cirillo & Berrini & Cambiaso (2017)[34] postulano, con un approccio sottilmente lombrosiano, che “la tossicodipendenza è [sempre ?, ndr] l'esito di una trasmissione intergenerazionale di esperienze traumatiche e carenziali non adeguatamente elaborate dalle persone coinvolte […]. Vi è un sottile filo conduttore che lega le difficoltà vissute dai genitori fin dalla loro infanzia, la ripercussione di questi vissuti nella formazione della coppia e nel successivo stile di accudimento dei figli, e il tipo di sintomatologia sviluppata nel figlio […]. Ogni [ogni ?, ndr] genitore di tossicodipendente presenta, infatti, nei legami con la famiglia d'origine vicende traumatiche, spesso occultate, le cui ripercussioni emotive sono puntualmente minimizzate, con l'effetto di trasmettere la carenza alla generazione successiva”. A parere di chi redige, Cirillo & Berrini & Cambiaso (ibidem)[35] assolutizzano eccessivamente quelle che la Scuola positivistica del Novecento chiamava “tare ereditarie”. Chi scrive contesta siffatto approccio ipostatizzante delle neuroscienze, intanto in quanto l'ultra-13enne sceglie liberamente la propria tossicomania e rimane intangibile il suo libero arbitrio. A differenza di quanto postulato da Lombroso, non esiste alcuna predisposizione genetica alla tossicodipendenza e gli influssi anti-pedagogici familiari non recano mai effetti necessari ed ineludibili. Parlare di “trasmissione intergenerazionale” della tossicofilia significa ritornare a quell'eugenetica novecentesca che ha portato a disumane pratiche epurative.
L'adolescente che abusa di sostanze conserva intatta la propria libertà di danneggiarsi, a prescindere dal contesto familiare potenzialmente degradante. A parere di chi commenta, è gravemente erroneo e fuorviante, da parte di Cirillo & Berrini & Cambiaso (ibidem)[36], parlare di un deterministico, inevitabile, necessario “processo relazionale patologico della famiglia del tossicodipendente”, poiché un conto è parlare di “influsso”, un altro conto è ipotizzare una “tara” genetica ad effetto automatico. Similmente, i tre summenzionati Dottrinari italiofoni s'ingannano nel focalizzarsi in modo eugenetico sulla “famiglia d'origine” e sulla non idoneità della “coppia genitoriale”. Viceversa, in maniera meno estremistica, Cancrini (1982)[37] ammette la “problematicità eventuale” di una famiglia traumatizzante, senza la figura di un paterfamilias presente ed affettuoso e senza una corretta affettività a causa delle perenni e quotidiane liti genitoriali. Entro tale ottica anti-lombrosiana, Vinci (1991)[38] ammette che la coppia genitoriale potrebbe (dicesi: potrebbe) cagionare disturbi psicotici ove “la droga si mostra come via possibile per colmare i vuoti derivanti dalla propria relazione con i genitori”. Tuttavia, Vinci (ibidem)[39] nega che la “incompiutezza emotiva dei genitori” abbia un ruolo patogeno algebricamente pre-determinato; ovverosia, esistono coppie patologiche la cui prole non sviluppa affatto un DUS. Di nuovo, è e rimane basilare la negazione di una potenziale tossicodipendenza “ereditaria”.
Conclusioni
L'astinenza totale dalla droga rimane un valore irrinunciabile. Ciononostante, è pur vero, come precisato da Escohotado (1997)[40], che “da sempre, l'uomo, nel corso della storia, ha fatto uso di droghe […]. Se si considerano le diverse epoche storiche, si può notare come ciascuna di queste sia stata scandita dalla scoperta, diffusione ed uso di determinate sostanze. Gli interessi cambiano, i valori delle società si modificano e le droghe si evolvono a loro volta, congiuntamente e parallelamente a questi cambiamenti. Le sostanze hanno effetti su numerosi gruppi della popolazione e sicuramente si riflettono anche all'interno di un microsistema qual è l'individuo e la sua famiglia”. A parere di chi redige, tuttavia, deve rimanere intangibile il proibizionismo nei confronti di tutte le sostanze con finalità pericolosamente tossicovoluttuarie. Un conto è l'impiego medicale degli stupefacenti, un altro conto è la sostanza abusata e foriera di aggressività, danneggiamenti e non idoneità alla guida di autoveicoli.
Il mondo delle droghe non ha alcunché di innocente o di innocuo; le sostanze, anzi, recano alla rovina materiale e psicofisica tanto il giovane assuntore quanto la sua famiglia. In effetti, giustamente, Burrell & Jaffe (1999)[41] hanno messo in evidenza che “le sostanze, di fatto, possono essere assunte in modo da portare ad una compromissione significativa delle aree fondamentali di funzionamento di una persona, che, quindi, arriva a sviluppare quella che viene denominata tossicodipendenza”. Secondo chi scrive, il predetto uncinamento patogeno vale pure per le cc.dd. “droghe leggere”, che, nel lungo periodo, manifestano controindicazioni oltremodo gravi e pericolose. P.e., molti omicidi volontari sono legati al consumo di haschisch e marjuana, le quali non possiedono alcunché di “leggero”, specialmente se assunte in concomitanza a bevande alcoliche. Che la dipendenza da una sostanza sia una realtà sempre e comunque grave è ribadito pure da Epstein (1996)[42], il quale reputa che la tossicomania incide profondamente sulla “identità personale” sino a recare ad uno stato di intossicazione irreversibile sia dal punto di vista psicologico sia sotto il profilo fisico.
Del pari, Szasz (1977)[43] rileva che “la dipendenza può diventare una parte integrante della definizione di sé, tanto da diminuire l'abilità di ricostruirsi e di concepirsi in altri termini […], Le proprietà biochimiche delle sostanze hanno una funzione di rinforzo e, quindi, possono servire come forma di gratificazione o di validazione emotiva per la persona, oltre che come un mezzo per far fronte all'invalidazione del proprio sistema di credenze”. Sicché, la sostanza d'abuso, compreso l'alcol, diviene una sorta di farmaco con cui tacitare le ordinarie frustrazioni della vita quotidiana. Lo stupefacente viene a costituire il centro ed il fine ultimo delle giornate del soggetto uncinato. Pure Klion & Pfenninger (1997)[44] rimarcano che il tossicofilo diviene prigioniero della propria tossicomania e, quindi, va aiutato “nella crescita di un proprio sistema di costrutti personali”.
L'assuntore si crea un'idea irrealistica, quasi onirica e falsata della realtà sociale circostante. Dunque, la terapia reca il difficile compito di riportare il tossico ad una visione oggettiva e più vera di quel che la collettività richiede da lui. In buona sostanza, la tossicofilia, nella Criminologia anglofona, è percepita come una “malattia sociale”, in tanto in quanto gli effetti delle sostanze sono determinati non solo dalla composizione chimica, ma anche e soprattutto da aspettative sociali, storiche e culturali. Le persone, quindi, utilizzano o, viceversa, evitano le droghe principalmente in funzione di significati personali e, ancor più, sociali. Alla luce di quanto asserito, è evidente la pericolosità pedagogica dell'antiproibizionismo contemporaneo, che diffonde la falsa immagine di una cannabis innocua e, anzi, quasi benefica.
[1]Fals-Stewart & Lam & Kelley, Learning sobriety together: behavioral couples therapy for alcoholism and drug use, Journal of family Therapy, 31, 2009
[2]Rowe, Family therapy for drug abuse: review and updates 2003-2010, Journal of marital and family therapy, 38(1), 2012
[3]Rowe, op. cit.
[4]Fals-Stewart & Lam & Kelley, op. cit.
[5]Klostermann & O'Farrell, Treating substance abuse: partner and family approaches, Social work in public health, 28(3-4), 2013
[6]O'Farrell & Clements, Review of outcome research in marital and family therapy in treatment for alcoholism, Journal of marital and family Therapy, 38, 2012
[7]O'Farrell & Fals-Stewart, Family-involved alcoholism treatment: An update, in Galanter (Ed.), Recent developments in alcoholism, Volume 15: Service research in the era of managed care, New York, NY, Plenum Press, 2001
[8]Rowe, op. cit.
[9]Stanton & Shadish, Outcome, attrition and family-couples treatment for drug abuse: a meta-analysis and review of the controlled, comparative studies, Psychological Bulletin, 122(2), 1997
[10]Smock & Froerer & Blakeslee, Systemic interventions in substance-abuse treatment: past, present and future, Journal of family Psychotherapy, 22(3), 2011
[11]Black, It will never happen to me ! Denver, CO, Medical Administration Company, 1982
[12]Black, op. cit.
[13]Wegsheider, Another change: Hope and health for the alcoholic family, Science & Behavior Books, Palo Alto, CA, 1981
[14]Beattie, Co-dependent no more, Hazelden, Minneapolis, MN, 1987
[15]Cermak, Diagnosis and treating co-dependence, Johnson Institute, Minneapolis, MN, 1986
[16]McCrady & Epstein, Marital therapy in the treatment of alcoholism, in Gurman & Jacobson (Eds.), Clinical handbook of marital therapy (2nd ed.) Guilford, New York, NY, 1999
[17]Cancrini, Quei temerari sulle macchine volanti. Studio sulle terapie dei tossicomani, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1982
[18]Cancrini, op. cit.
[19]Haley, Leaving home: The therapy of disturbed young people (2nd Rev. Ed.), Brunnel/Mazel, Levittown, 1997
[20]Haley, op. cit.
[21]Cirillo & Berrini & Cambiaso & Mazza, La famiglia del tossicodipendente, Raffaello Cortina, Milano, 1996
[22]Cancrini, op. cit.
[23]Cancrini, op. cit.
[24]Stanton & Todd, The family therapy of drug abuse and addiction, The Guilford Press, New York, NY, 1982
[25]Stanton & Todd, op. cit.
[26]Stanton & Todd, op. cit.
[27]Davis & Berenson & Steinglass & Davis, The adaptive consequence of drinking, Psychiatry, 37, 1974
[28]Steinglass, Systemic-motivational therapy for substance abuse disorders: an integrative model, Journal of family therapy, 31, 2009
[29]Carroll & Ball & Martino,mCognitive, behavioral and motivational therapies, in Galanter & Kleber (Eds.), Textbook of substance abuse treatment, American Psychiatric Association, Washington, DC, 2004
[30]O'Farrell & Fals-Stewart, Treatment models and methods: Family models, in McCrady & Epstein (Eds.), Addictions: A comprensive guidebook, Oxford University Press, New York, NY, 1999
[31]Cancrini, Tossicomanie, Editori Riuniti, Roma, 1980
[32]Cancrini (1982), op. cit.
[33]Cancrini (1982), op. cit.
[34]Cirillo & Berrini & Cambiaso, La famiglia del tossicodipendente. Tra terapia e ricerca, Raffaello Cortina, Milano, 2017
[35]Cirillo & Berrini & Cambiaso, op. cit.
[36]Cirillo & Berrini & Cambiaso, op. cit.
[37]Cancrini (1982), op. cit.
[38]Vinci, Percorsi familiari nelle tossicomanie: verso una tipologia delle coppie parentali, Ecologia della mente, 12, 1991
[39]Vinci, op. cit.
[40]Escohotado, Historia elemental de las drogas. Editorial Anagrama, Barcelona, 1996, Traduzione italiana; Piccola storia delle droghe dall'antichità ai giorni nostri, Donzelli Editore, Roma, 1997
[41]Burrell & Jaffe, Personal meaning drug use and addiction: An evolutionary constructivist perspective, Journal of constructivist psychology, 12, 1999
[42]Epstein, Socially constructing substance use and abuse: Towards a greater diversity humanity in the theories and practices of drug treatment, Journal of systemic therapies, 15(2), 1996
[43]Szasz, Ceremonial chemistry: The ritual persecution of drugs, addicts and pushers, Anchor Press/Doubleday, New York, NY, 1977 Traduzione italiana: Il mito della droga: La persecuzione rituale delle droghe dei drogati e degli spacciatori, Feltrinelli Editore, Milano, 1977
[44]Klion & Pfenninger, Personal construct psychotherapy of addictions, Journal of substance abuse treatment, 14(1), 1997