La ratio della “offensività della coltivazione” nel Testo Unico sugli stupefacenti
La ratio della “offensività della coltivazione” nel Testo Unico sugli stupefacenti
Profili di Diritto Costituzionale
Nell'ambito del Diritto Penale, la ratio della “concreta offensività” è essenziale, in tanto in quanto la sanzione detentiva e, per conseguenza, la rieducazione del condannato sono legittime soltanto se il reo ha cagionato un'offesa grave e concreta ad un bene giuridico tutelato dalla Carta fondamentale. A tal proposito, De Lia (2019)[1] afferma che, nel comma 2 Art. 25 Cost., il fatto punibile commesso deve essere un “fatto offensivo commesso [rectius: consumato, ndr]”, giacché la repressione giuspenalistica non ha alcun senso senza che vi sia stata una lesione tangibile del diritto conculcato. Del pari, Bonomi (2021)[2] precisa che “l'intervento del Legislatore Penale si considera legittimo solo se coerente con il principio di offensività, ovvero quando intende punire un fatto offensivo. Ragion per cui, se l'organo legislativo emanasse una norma irrispettosa del principio in esame, la Corte Costituzionale dovrebbe abrogare la novella, poiché in contrasto con la Costituzione”. Anche De Lia (ibidem)[3] ribadisce la sacralità concettuale della ratio della “concreta offensione”, pur riconoscendo che il Legislatore, spesso e volentieri viola il principio dell'offensività. D'altra parte, il nazifascismo, nella prima metà del Novecento, aveva mostrato che non collegare il Diritto Penale alla regola dell'offesa di una norma costituzionale significa dilatare ad libitum la precettività della pena detentiva, sino al punto di strumentalizzare l'ambito penalistico al fine di mantenere salda una dittatura illegittima ed irrispettosa delle basilari tutele della libertà personale.
Questa è pure la visione di Bricola (1974)[4], ovverosia “[bisogna ritornare ad una] visione del principio di offensività decisamente forte [perché] una disposizione penale [va considerata] legittima solo nel caso in cui punisca comportamenti lesivi di interessi costituzionalmente rilevanti. Ciò comporta che, ogniqualvolta si intende introdurre un nuovo reato, il Legislatore è chiamato a controllare se il bene giuridico protetto sia menzionato in Costituzione (in caso contrario, è necessario l'avvio del procedimento di revisione costituzionale)”. Come si può notare, anche Bricola (ibidem)[5] ripudia un Diritto Penale dilatabile a seconda del puro capriccio di un Ordinamento illecitamente sganciato dal rispetto di una Costituzione legalmente predeterminata, giacchè la moltiplicazione irrazionale dei reati è tipica dei regimi fondati sulla violenza e sulla repressione dei diritti umani. Tuttavia, nella Dottrina costituzionalistica italiana, non sono mancati Autori che hanno messo in rilievo la tutelabilità dei “beni ritenuti rilevanti dalla coscienza sociale”. Altri ancora hanno preferito sottolineare il profilo del “danno sociale”. Altri, inoltre, hanno negativamente criticato la stretta applicazione del principio dell'offensività, in tanto in quanto esso potrebbe recare il Parlamento a continue, ossessive, pesanti procedure di revisione costituzionale.
Dal canto suo, anche De Lia (ibidem)[6] non ha nascosto che una Giuspenalistica troppo legata al concetto di “offesa di beni costituzionalmente tutelati” potrebbe limitare eccessivamente la sovranità delegata al Legislatore. In effetti, è contestabile un Ordinamento consegnato nelle mani di una Corte Costituzionale ipertroficamente attiva e perennemente protesa a limitare sempre e comunque la legittima libertà del Parlamento.
E' vero pure che la ratio dell'offensività, sotto il profilo sostanziale, va applicata pure dal Magistrato nella propria attività quotidiana di interpretazione delle fattispecie concrete sottoposte alla sua disamina. Dunque, il giudice è tenuto a non sanzionare condotte non materialmente offensive. Con afferenza a tale problematica, Bonomi (ibidem)[7] sostiene che “il potere sanzionatorio [da parte del Magistrato] dev'essere esercitato solo in presenza di un fatto offensivo [tangibile], allo scopo di rieducare il condannato [ex comma 3 Art. 27 Cost.]. Il giudice, per considerare una condotta come offensiva, deve valutare la [singola] fattispecie concreta, prestando particolare attenzione alla gravità del danno e al pericolo cagionato alla persona offesa dal reato (n. 2 comma 1 Art. 133 CP)”.
Ciò è vero pure alla luce dell'Art. 131 bis CP, introdotto nel 2015 e statuente la “non punibilità” per i fatti non concretamente dannosi o pericolosi. Pure De Lia (ibidem)[8] torna spesso sulla tematica dell'apprezzabilità fattuale del danno o del pericolo e parla di “effettiva lesione del bene giuridico […] meritevolezza della tutela invocata dalla persona offesa dal reato […] limitazione del potere punitivo dello Stato”. Sempre De Lia (ibidem)[9] rimarca che, nella pratica, è difficile obbligare il Magistrato ad ancorarsi alla sola tutelabilità costituzionale del bene leso. Ciononostante, non deve mai venire meno la consapevolezza della basilarità dei limiti costituzionalmente imposti all'applicazione della sanzione detentiva.
La pericolosità concreta/astratta/presunta dei reati
Sotto il profilo definitorio, nel Diritto Penale, sono “reati di pericolo concreto” quelli in cui il bene costituzionalmente/socialmente tutelato è stato “concretamente” messo in pericolo o danneggiato. In secondo luogo, sono “reati di pericolo astratto” quelli “formalmente pericolosi”, ove il Magistrato può limitarsi alla valutazione della coincidenza tra fatti e norma incriminatrice senza valutare il “rischio concreto”. In terzo luogo, sono “reati di pericolo presunto” quelli in cui il giudice deve sempre applicare la sanzione criminale a causa di una “presunzione assoluta” che non tollera prova contraria. Tuttavia, sotto il profilo empirico, i delitti di pericolo presunto sono, nella pratica, reati di pericolo astratto, nei quali l'offensione al bene tutelato non è materialmente apprezzabile
Nella Dottrina e nella Giurisprudenza di legittimità, la nozione di “reato di pericolo astratto” non è sempre stata pacifica. P.e., Cass., sez. pen. III, 4 novembre 2011, n. 439, come riferito da De Gioia (2021)[10], non considera “reato astrattamente pericoloso” la pessima conservazione delle derrate alimentari. All'opposto, Cass., sez. pen. III, 2 ottobre 2018, n. 54692 sostiene che è sempre e comunque “reato di pericolo concreto” eseguire lavori edili non autorizzati su qualsiasi genere di beni paesaggistici. Come rileva De Lia (ibidem)[11] sono più i reati di pericolo concreto che non quelli di pericolo astratto, nell'Ordinamento italiano, ma, in Giurisprudenza, “sono ancora presenti eccezioni e tentennamenti” che generano forte incertezza in sede esegetico-interpretativa”. A buon diritto, ognimmodo, Bonomi (ibidem)[12] ha asserito che “nei casi riguardanti reati di pericolo astratto, il Legislatore dovrebbe adottare delle cautele al fine di evitare che la pena sia ricollegata a meri atti preparatori o a [semplici] intenzioni criminose dell'agente. [Inoltre] […] in primo luogo [è] fondamentale che il reato di pericolo sia previsto a tutela di beni giuridici di rango elevato [e non bagatellare, ndr]. In secondo luogo, il Legislatore deve prevedere disposizioni sanzionatorie applicabili ai soli atti preparatori inequivocabilmente sintomatici di conseguenze offensive. Infine, devono essere ritenuti inidonei strumenti preventivi o di controllo meno incisivi, nell'ottica del rispetto dell'extrema ratio della norma penale”. Come si vede, la Dottrina penalistica ha cura di estromettere dal campo del Diritto Penale la pericolosità meramente astratta. Tale è stata pure, nel 2015, l'intenzione legislativa che ha recato alla statuizione dell'Art. 131 bis CP, il quale impedisce al Magistrato di perdere tempo ed energie processuali a fronte di reati connotati da un'estrema nonché palese lieve entità del danno o del pericolo.
L'offensività concreta o, viceversa, astratta nel delitto di coltivazione di stupefacenti
Come nota Cass., SS.UU., 24 aprile 2008, n. 28605, Di Salvia, “[nel TU 309/90], l'offensività in astratto consiste nel dovere del Legislatore di sanzionare esclusivamente condotte in grado di ledere il bene giuridico protetto [della salute collettiva ex comma 1 Art. 32 Cost., ndr]; di contro, l'offensività in concreto si attua in ambito processuale, ove il giudice è chiamato a punire comportamenti [non bagatellari, dunque] con una certa portata lesiva”.
Alla luce dell'Art. 2135 CC, Brancaccio (2016)[13] afferma che il lemma “coltivazione”, anche nell'Art. 73 TU 309/90, sta ad indicare “ogni attività diretta alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale od animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine”.
Pertanto, visto l'Art. 2135 CC e, più latamente, il significato intuitivo e letterale, del verbo “coltivare”, si può asserire che coltivare stupefacenti è astrattamente offensivo in ogni fase dello sviluppo della pianta, poiché essa è “potenzialmente” in grado di fruttificare uno stupefacente che, ex Art. 32 Cost. ed ai sensi dei Lavori Preparatori del TU 309/90, potrà poi “ledere la salute pubblica [nonché] la sicurezza, l'ordine pubblico ed il normale sviluppo delle giovani generazioni”. Tuttavia, qualificare come “astrattamente offensiva” la coltivazione di stupefacenti non tiene in conto che il “tenore drogante” varia di coltivazione in coltivazione e non è automaticamente connesso al tipo botanico della pianta. A tal proposito, Barresi (2021)[14] specifica che “il Legislatore [nel comma 1 Art. 73 TU 309/90] ha considerato ogni atto indirizzato alla cura della pianta capace di incidere sulla produzione di sostanze stupefacenti, quindi lesivo del bene giuridico [ex comma 1 Art. 32 Cost.]. Però, [questo approccio] non tiene conto dell'impossibilità di prevedere con certezza l'esito [tossicologico] del processo biologico delle piante, data la differenza che ognuna presenta nel corso del proprio sviluppo”. P.e., con attinenza alla canapa, non è preventivabile il tenore finale di THC recato dall'arbusto maturo.
Alla luce dell'impossibilità or ora esposta di predeterminare il tenore drogante delle piante, Cass., SS.UU., 24 aprile 2008, n. 28605, Di Salvia, ha sentenziato che “la coltivazione [di stupefacenti] è un reato di pericolo presunto, per cui si anticipa la tutela in ragione della [notevole] importanza del bene giuridico [di cui al comma 1 Art. 32 Cost.]”. Per la verità, la coltivazione di piante potenzialmente droganti era già stata qualificata alla stregua di un reato a pericolosità presunta pure in Consulta nn. 360/1995, 296/1996 nonché 265/2005. Ora, tale qualificazione del “coltivare” droghe come reato a pericolosità presunta ha comportato che, in ultima istanza, sarà sempre e comunque il Magistrato a decidere se la fattispecie concreta sia o non sia oggettivamente sussumibile entro l'ambito precettivo del comma 1 Art. 73 TU 309/90. Ossia, come precisa assai pertinentemente Barresi (ibidem)[15], “il dubbio interpretativo si sposta in sede giudiziale, interpellando gli indicatori dell'effettiva lesione o messa in pericolo del bene giuridico tutelato”. Similmente, anche Brancaccio (ibidem)[16] parla di “indicatori” giurisprudenziali in tema di pericolosità o non pericolosità reale della pianta di stupefacente.
Negli Anni Duemila, la Suprema Corte ha elaborato alcuni “criteri” dell'offensività concreta del reato di coltivazione ex comma 1 Art. 73 TU 309/90. Cass., sez. pen. VI, 10 novembre 2015, n. 5254 afferma che è concretamente pericolosa “la coltivazione idonea a produrre sostanze stupefacenti”. Cass., sez. pen. IV, 27 dicembre 2015, n. 44136 parla di rischio concreto legato alla “conformità del tipo botanico coltivato”. Cass., sez. pen. VI, 9 gennaio 2014, n. 6753 criminalizza “la capacita [della coltivazione] di giungere a maturazione, anche rispetto ai mezzi ed agli strumenti utilizzati”; p.e., una coltivazione professionale solitamente è più sanzionata rispetto ad una coltivazione domestica e rudimentale, quindi limitata al solo uso personale. A sua volta, Cass., sez. pen. IV, 17 febbraio 2011, n. 25674 qualifica come “concretamente/presuntivamente pericolosa” una pianta “ove sia presente una certa quantità di sostanza psicotropa contenente, nell'immediatezza, un livello di principio attivo sufficientemente alto”.
Molto più semplicemente e pragmaticamente, Cass., sez. pen. VI, 12 novembre 2001, n. 564 e Cass., sez. pen. VI, 13 dicembre 2011, n. 6928 sostengono che la pericolosità del vegetale è funzionale alla “effettiva capacità drogante della sostanza estratta dalla pianta”. Interessante è pure Cass., sez. pen. III, 9 maggio 2013, n. 2561, che riconosce il “pericolo non astratto” in presenza di una pianta da cui sia ricavabile “un notevole quantitativo di principio attivo, tale da produrre una grande quantità di sostanza stupefacente, anche in relazione all'estensione ed alla struttura della piantagione”. Simile è pure la conclusione di Cass., sez. pen. VI, 16 marzo 2013, n. 22459 nonché di Cass., sez. pen. IV, 8 ottobre 2008, n. 44287. Degna di menzione è anche Sezioni Unite Caruso del 19/12/2019, che sintetizza magistralmente la problematica asserendo che “è integrata l'offensività in concreto in presenza di un tipo botanico confome a quelli vietati, della capacità drogante della sostanza estratta dalla pianta e dell'idoneità a confluire nel mercato degli stupefacenti. [Mentre] la punibilità è da ritenersi esclusa quando vi sia una coltivazione inadatta a produrre sostanze stupefacenti, o se il prodotto finale non sia confome a quello vietato, ovvero nel caso in cui il principio attivo sia talmente basso da rendere nullo l'effetto drogante”.
A parere di chi redige, la ratio vincente rimane quella dell'”effettivo tenore drogante”, in tanto in quanto, al di là dei populismi e delle declamazioni retoriche a-tecniche, il bene potenzialmente leso rimane quello della “salute collettiva” ex comma 1 Art. 32 Cost. . E' ridicolo e non serio ancorare il lemma “coltivazione” a pericoli atipici come il turbamento dell'ordine pubblico o del corretto sviluppo della gioventù.
Quando la coltivazione di stupefacenti è penalmente rilevante ?
Dal punto di vista strettamente legale, la coltivazione di stupefacenti ex Art. 73 TU 309/90 è penalmente rilevante e non amministrativamente sanzionabile ex Art. 75 TU 309/90. Secondo Brancaccio (ibidem)[17] de jure condendo sarebbe preferibile depenalizzare le coltivazioni rudimentali di sostanze psicotrope finalizzate esclusivamente all'uso personale. Sempre in Dottrina, anche Barresi (ibidem)[18] manifesta perplessità anti-retribuzioniste, ovverosia “ a seguito del referendum del 1993 in materia di sostanze stupefacenti, il discrimine del penalmente rilevante si identifica con l'intenzione del soggetto. [Ma] tale distinzione non è applicabile alla fattispecie di reato relativa alla condotta di coltivazione, la quale, ai sensi dell'Art. 73 TU 309/90, viene sanzionata penalmente a prescindere dall'intento criminoso del reo”. A parere di chi scrive, tuttavia, non sono mancati gli opportuni correttivi della Giurisprudenza di legittimità in tema di “coltivazione [solo] domestica per uso proprio”.
Del pari, in Dottrina, taluni proseguono nel qualificare la coltivazione di stupefacenti come una fattispecie “sempre” ed automaticamente rilevante sotto il profilo penale; talaltri, invece, propongono di sussumere la coltivazione “ad uso personale” entro il campo precettivo dell'Art. 75 TU 309/90. A tal proposito, la Suprema Corte tende a “penalizzare” ogni tipo di coltura, ma, come precisa Cass., sez. pen. IV, 24 aprile 2008, n. 28605, Di Salvia, “è [comunque] necessaria una verifica dell'offensività in concreto in sede processuale”. Dunque, torna la fondamentale ratio della “contestualizzazione”.
Corte d'Appello di Brescia, Ordinanza n. 98/2z015 (ripresa da Ordinanza n. 200/2015) ha sollevato una questione di legittimità costituzionale, notando, avanti alla Consulta, che “[gli attuali Artt. 73 e 75 TU 309/90] violano il principio di offensività in astratto, poiché la coltivazione per uso personale non lede in alcun modo la salute pubblica, la sicurezza o l'ordine pubblico, in ragione della sua inidoneità ad alimentare il mercato della droga. Oltretutto, […] [sussiste] una disparità di trattamento tra chi è sorpreso all'esito dell'attività di coltivazione, che, in quanto mero detentore, è assoggettabile a sanzioni amministrative [ex Art. 75 TU 309/90], e chi, invece, è colto nell'atto di coltivare, punibile penalmente ai sensi dell'Art. 73 TU 309/90”. Come si nota, in ultima analisi, Corte d'Appello di Brescia Ordinanze nn. 98/2015 e 200/2015 hanno richiesto un temperamento istituzionale filo-riduzionista in tema di “coltivazione [solo] domestica” di stupefacenti. Ora, Consulta 190/2016 ha rigettato il ricorso qui in parola. Nel dettaglio, la Corte Costituzionale ha risposto affermando che “la coltivazione è [sempre] astrattamente idonea ad accrescere la quantità di stupefacente esistente e circolante e, pertanto, capace di ledere il bene giuridico protetto [ex comma 1 Art. 32 Cost.]”.
In secondo luogo, Consulta 190/2016 ha deciso di rigettare “anche la questione sulla disparità di trattamento tra detentore e coltivatore di sostanze psicotrope ad uso personale, essendo [tale questione] basata su una premessa errata, ovvero quella secondo cui la successiva condotta di detenzione assorbirebbe quella precedente di coltivazione. [Invece] il ragionamento si deve svolgere in senso contrario: è la condotta di coltivazione ad assorbire quella di detenzione, sicché anche il detentore di sostanza stupefacente autoprodotta è sanzionabile penalmente”. Pertanto, in Consulta 190/2016 domina quel retribuzionismo rigido e rigoroso che caratterizzava il TU 309/90 nella sua primigenia stesura. Da segnalare è, in ogni caso, che Cass., SS.UU., 19 dicembre 2019, n. 12348, Caruso ha infranto il tradizionale e granitico proibizionismo, ossia siffatto Precedente ha stabilito che “la condotta di cui all'Art. 75 TU 309/90 si esaurisce entro la sfera personale dell'individuo. [Detto diversamente] […] l'Art. 73 TU 309/90 punisce solo le condotte capaci di affermarsi oltre il singolo, perciò la condotta di coltivazione ad uso personale è sanzionabile solo a livello amministrativo, dal momento in cui, per le quantità esigue di sostanze stupefacenti, per i mezzi e per gli strumenti utilizzati, è destinata a concludersi entro i confini personali dell'individuo”.
A parere di chi commenta, la finalità dell'auto-medicazione dovrebbe essere tale da scriminare l'auto-coltivazione di stupefacenti, purché le quantità prodotte rimangano “esigue” come sentenziato da Sezioni Unite Caruso del 2019.
La Giurisprudenza di legittimità in tema di coltivazione di stupefacenti astrattamente o, viceversa, concretamente offensiva
Cass., SS.UU., 24 aprile 2008, n. 28605, Di Salvia
Ex comma 1 Art. 618 Cpp, Sezioni Unite Di Salvia del 2008 sono state chiamate a dirimere la seguente questione di legittimità: “se la condotta di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti sia penalmente rilevante anche quando essa sia realizzata per destinazione del prodotto ad uso personale”
Secondo un primo orientamento, rappresentato, ex multis, da Cass., sez. pen. VI, 9 giugno 2004, n. 31472, “la condotta di coltivazione è penalmente rilevante indipendentemente dal numero di piantine [di canapa, ndr], dal loro grado di tossicità o dalle modalità di coltivazione; questi [tre] elementi potranno essere eventualmente considerati dal giudice [ex Art. 133 CP] per determinare la gravità del reato”. Entro questo primo orientamento ermeneutico si colloca pure Cass., sez. pen. IV, 13 aprile 2001, n. 15688, a norma della quale “la condotta di coltivazione si distingue dalla mera detenzione poiché essa ha una capacità offensiva del bene giuridico maggiore, ovvero è idonea ad aumentare la quantità di stupefacenti già circolante nel mercato”. Tuttavia, ciò premesso, anche in siffatto filone esegetico non mancano le debite auto-attenuazioni, ossia, pertinentemente, Cass., sez. pen. IV, 6 giugno 2005, n. 20938 puntualizza che la coltivazione è penalmente rilevante “ma è comunque necessaria una valutazione in concreto dell'offensività della condotta, non essendo punibile una coltivazione [quantitativamente o qualitativamente, ndr] inidonea a ledere la salute pubblica”.
Secondo un secondo orientamento, la “coltivazione domestica” può essere fatta rientrare nella fattispecie della “detenzione ad uso [esclusivamente] personale” ex Art. 75 TU 309/90. Tale è il parere di Sezioni Unite Di Salvia del 2008, che, con afferenza alla coltivazione rudimentale di poche piantine, fa prevalere l'Art. 75 sull'Art. 73 TU 309/90, soprattutto se lo stupefacente coltivato è assunto con finalità auto-medicative. Del pari, Cass., sez. pen. VI, 10 maggio 2007, n. 17983 equipara la “coltivazione domestica” alla mera “detenzione per uso personale”. Pure Cass., sez. pen. IV, 3 agosto 2007, n. 31968 precisa che “in capo a colui che coltiva sostanze stupefacenti per suo personale sussiste soltanto una responsabilità amministrativa [ex Art. 75 TU 309/90]”. Analoga è la posizione di Cass., sez. pen. IV, 31 ottobre 2007, n. 40362 nonché di Cass., sez. pen. IV, 19 novembre 2007, n. 42650.
Da menzionare sono pure le Sentenze della Consulta nn. 443/1994 e, all'opposto, 360/1995, tra di loro contrastanti. Consulta 443/1994 sottopone la “coltivazione domestica” alla precettività dell'Art. 75 TU 309/90 in materia di “mera detenzione personale”. Invece, Consulta 360/1995 asserisce che “[anche] la coltivazione, seppur domestica, offende considerevolmente [il comma 1 Art. 32 Cost.] [e dunque] si giustifica perfettamente la scelta legislativa di integrare tale condotta come reato […]. La coltivazione è un reato di pericolo [ma] è necessaria [ex Art. 133 CP, ndr] una [specifica] valutazione giudiziale circa l'offensività in concreto di [ciascuna] condotta”.
Concludendo, Sezioni Unite Di Salvia del 2008 sostengono che la coltivazione è penalmente rilevante “anche quando essa sia destinata all'uso personale [poiché] manca quel nesso di immediatezza tra coltivazione e detenzione che, invece, sussiste tra detenzione e consumo. [Inoltre] […] la differenziazione tra coltivazione tecnico-agraria e domestica è arbitraria, giacché non è sostenuta da alcuna disposizione. Infine, [alla luce] della maggiore pericolostà della condotta di coltivazione rispetto alla detenzione, è giustificata l'anticipazione della tutela e, dunque, la sua configurabilità come reato di pericolo, previa verifica [ex Art. 133 CP, ndr] dell'offensività in concreto in sede processuale”. Chi redige nota che, in Sezioni Unite Di Salvia del 2008, i lemmi finali “previa verifica dell'offensività in concreto in sede processuale” aprono la strada a quella “contestualizzazione” del singolo caso che preserva anche le tesi più proibizionistiche da eccessi apodittici ed assolutizzanti. L'Art. 133 CP rimane intangibile e scongiura interpretazioni iperboliche, anche negli orientamenti che connettono drasticamente la coltivazione domestica all'Art. 73 TU 309/90.
Cass., SS.UU., 30 maggio 2019, n. 30475, CL
Ex comma 1 Art. 618 Cpp, Sezioni Unite CL del 2019 sono state chiamate a dirimere la seguente questione di legittimità: “se le condotte diverse dalla coltivazione di canapa delle varietà di cui al catalogo indicato nell'Art 1 comma 2 L. 242/2016 e, in particolare, la commercializzazione di cannabis sativa L rientrino, o meno, e, se sì, in quali eventuali limiti, nell'ambito di applicabilità della predetta legge e siano, pertanto, penalmente irrilevanti ai sensi di tale normativa”.
Un primo orientamento, rappresentato da Cass., sez. pen. III, 10 gennaio 2019 (ripresa da Cass., sez. pen. IV, 19 settembre 2018, n. 57703 nonché da Cass., sez. pen. VI, 27 novembre 2018, n. 56737) afferma che “i derivati della cannabis non sono commercializzabili, in quanto non esplicitamente elencati dalla L. 242/2016.
Un secondo orientamento, inaugurato da Cass., sez. pen. VI, 29 novembre 2018, n. 4920, asserisce che “tra le attività lecite, va inclusa anche la commercializzazione dei prodotti costituiti dalle resine o dalle infiorescenze [purché] con THC inferiore allo 0,6 %”
Un terzo solco interpretativo, presente in Cass., sez. pen. III, 7 dicembre 2018, n. 10809, precisa che le resine e le infiorescenze [munite di CBD] sono alienabili, ma esse debbono recare un tenore di THC inferiore allo 0,2 %.
Nelle proprie conclusioni, Sezioni Unite CL del 2019 chiosa disponendo che “ai sensi della L. 242/2016, sono lecite solo le coltivazioni di canapa (delle varietà ammesse dall'Art. 17 della Direttiva europea 2002/53/CE del Consiglio) dalle quali possano essere ottenuti esclusivamente i prodotti di cui all'Art. 2 della novella […]. Pertanto, è illecita la commercializzazione di derivati della cannabis non rientranti nell'elenco sopra citato […]. [Comunque, alla luce del principio di offensività, ndr] nella specifica sede processuale dev'essere valutata l'idoneità della condotta a ledere il bene giuridico [della salute collettiva], quindi, più precisamente, la capacità della sostanza di produrre un effetto drogante”. Come si nota, nemmeno la Sentenza in esame, al pari di Sezioni Unite Di Rocco del 2007 e Sezioni Unite Di Salvia del 2008, non ha fatto uscire dalla consueta zona grigia la vendita del CBD pronto per essere fumato. Di nuovo, Sezioni Unite CL del 2019, oppotunamente o meno opportunamente, colloca i canapai al confine tra illegalità ed illegalità. L'unica certezza è il divieto della commercializzazione della cannabis non light, ovverosia contenente un tenore di THC superiore a 0,6 % o 0,2 % per dose.
[1]De Lia, Ossi di seppia ? Apunti sul principio di offensività, in Archivio Penale, Vol. 71, n. 2, Pisa University Press, Pisa, 2019
[2]Bonomi, Il principio di offensività del reato nella giurisprudenza costituzionale, in Diritto Pubblico, Vol. 27, n. 1, Il Mulino, Bologna, 2021
[4]Bricola, Teoria generale del reato, estratto dal Nuovissimo digesto italiano, Vol. XIX, UTET, Torino, 1974
[6]De Lia, op. cit.
[10]De Gioia, La vendita di alimenti in cattivo stato di conservazione: natura del reato, modalità di accertamento e soggetti responsabili, in Diritto Penale contravvenzioni, www.njus.it 27 maggio 2021
[13]Brancaccio, La categoria dell'offensività nel reato di coltivazione, in Giurisprudenza penale, www.giurisprudenzapenale.com n. 36, 2016
[14]Barresi,Nuovi confini di libertà nell'incriminazione degli stupefacenti e superamento di un'antica contraddizione: la Corte di Cassazione si riappropria dei principi di tipicità e offensività, in Indice penale, Nuovissima serie, Anno VII, n. 2, Dike Giuridica, Napoli, maggio-agosto 2021
[18]Barresi, op. cit.