Lo stretto legame tra “anomia” sociologica e “devianza” criminologica

Parigi, 2013
Ph. Alessandro Saggio / Parigi, 2013

Lo stretto legame tra “anomia” sociologica e “devianza” criminologica

 

Profili storico-dottrinari

Le devianze antisociali ed antigiuridiche non sono immutabili sotto il profilo metatemporale e metageografico. Ovverosia, il Diritto muta a seconda delle epoche e del contesto sociale e, per conseguenza, la nozione di “atto antisociale” cambia da società a società e da periodo storico a periodo storico. P.e., i delitti contro la morale familiare non sono più quelli di una trentina d'anni fa. Oppure, si pensi al cambiamento odierno degli illeciti in materia sessuale. Oppure ancora, la disciplina degli stupefacenti reca regole totalmente differenti rispetto alle legislazioni prebelliche. Entro tale contesto nomodinamico e mutevole, Merton (1968/2000)[1] afferma che “qualunque possa essere il ruolo degli impulsi biologici, resta pur sempre da spiegare per quale ragione la frequenza dei comportamenti devianti vari in differenti strutture sociali, e come accada che, in strutture sociali differenti, le variazioni si manifestino in forme e modelli diversi. Oggi, come in passato, noi abbiamo ancora molto da imparare circa i processi grazie ai quali le strutture sociali producono circostanze in cui la violazione del codice sociale costituisce una reazione normale, vale a dire prevedibile”.

P.e., gli asserti di Merton (ibidem)[2] si adattano perfettamente alle nozioni di “pedofilia” e di “pedopornografia”, le quali, in Europa, sono assai mutate a partire dagli Anni Novanta del Novecento. Analoga osservazione vale pure per l'interpretazione del lemma “pudore” nel Codice Penale italiano. Un altro esempio di variazione del “codice sociale” è dato pure dai nuovi ruoli delle famiglie atipiche nelle Legislazioni occidentali. Pertanto, i cambiamenti delle “strutture sociali” si riverberano sulla Normazione de jure condito, che, a sua volta, cagiona radicali innovazioni all'interno della Dottrina sociologica e di quella criminologica. Anzi, la Criminologia contemporanea parla di una “ecologia della criminalità”, in tanto in quanto il lemma “infrazione” antinormativa muta di significato a seconda dello specifico contesto spazio-temporale in cui esso è inserito. Ciò, ad esempio, è dimostrato dalla contemporanea percezione della ordinarietà del divorzio. Lo stesso dicasi con afferenza al termine “consenso” nell'ambito degli Artt. dal 609 bis al 609 duodecies nel Codice Penale italiano. Paradigmatica è pure la significazione del lemma “coniuge” nel Diritto di Famiglia degli Ordinamenti europei. Di nuovo, quindi, torna la centralità della “struttura sociale” nella criminogenesi secondo Merton (ibidem)[3].

Nella Francia dell'Ottocento, per la prima volta, svariati Criminologi hanno compreso l'importanza essenziale dell'analisi sociologica del crimine, giacché ciascuna devianza antisociale e/o antigiuridica manifesta pur sempre una propria “ecologia sociale”. In altri termini, ogni illecito va contestualizzato all'interno del proprio specifico quadro collettivo di riferimento. Non si tratta di negare la pur piena responsabilità del soggetto agente, bensì di valutare anche tutti i condizionamenti sociologici che hanno condotto l'individuo alla scelta di violare un determinato patto generale di convivenza pacifica. D'altra parte, de-contestualizzare i reati significa non voler analizzare la cornice etico-sociale che ha spinto il reo alla delinquenza. Solo l'esegesi del “contesto” delle devianze permette di evitare giustizialismi neo-retribuzionisti che finiscono per negare trecento anni di Illuminismo garantista e democratico. A tal proposito, fors'anche con eccessivo determinismo, Quételet (1869/1996)[4] giunge ad asserire che “è un fatto che l'omicidio è commesso con tanta regolarità ed in rapporto così uniforme con alcune circostanze conosciute, come lo sono i movimenti delle maree e le rotazioni delle stagioni […]. Le posteriori ricerche stabilirono il fatto straordinario che la riproduzione uniforme del delitto è più charamente segnata, e più suscettibile di essere predetta, delle leggi fisiche riguardanti la malattia e la distruzione del corpo umano. Così, il numero delle persone accusate di delitti [violenti, ndr], in Francia, dall'anno 1826 al 1844, è, per singolare coincidenza, circa uguale a quello dei decessi di individui maschi che ebbero luogo a Parigi durante lo stesso periodo; consistendo la differenza nell'essere le fluttuazioni, nel totale del delitto, positivamente minori delle fluttuazioni della mortalità; al tempo stesso, una simile regolarità veniva osservata in ciascun delitto separatamente, seguendo, ciascuno di tali delitti, la stessa legge di ripetizione uniforme e periodica”.

Quételet (ibidem)[5], come normale nell'Ottocento, ipostatizza il ruolo dell'omicidio volontario e della delittuosità violenta; ciononostante, i pur suoi retorici asserti aiutano a ribadire che ogni illecito penalmente rilevante ha una propria precisa e quasi algebrica eziologia sociale. Mai ed il alcun luogo, le devianze possono essere analizzate prescindendo dal loro contesto sociologico e spazio-temporale. Dunque, in buona sostanza, torna la basilare ratio della “contestualizzazione” delle infrazioni criminose. In tale contesto, inoltre, va evidenziato pure lo stretto legame scientifico-metodologico tra la Criminologia e la Sociologia, che esorta a concepire qualunque atto antigiuridico alla stregua di un “fatto sociale” inserito, a sua volta, sempre e comunque, in una “struttura sociale” funzionante sulla base di regole predeterminate. Il qui menzionato Autore francofono si spinge financo a sostenere apertamente che “i delitti sono prodotti dalla società”.

Meno drasticamente, Bandini & Gatti & Marugo & Verde (1991)[6] parlano di forti “condizionamenti sociali”, in tanto in quanto “il delitto è [solitamente, ndr] associato con l'età ed il sesso (i giovani commettono più reati degli adulti e gli uomini più delle donne); alti livelli di diseguaglianza sociale sono connessi ad elevati tassi di criminalità”. Come sempre, chi redige non intende recepire in maniera assoluta ed assolutizzante i postulati dei quattro Dottrinari italiofoni or ora citati. Ogni modo, siffatta “sociologia” del crimine viene ribadita pure da Berzano & Prina (1998)[7], a parere dei quali l'analisi qualitativa delle statistiche criminologiche è essenziale “per scoprire le forti connessioni tra la frequenza dei delitti ed i fattori esterni, tra cui, in particolare, il livello intellettuale e la professione degli accusati, l'età, il sesso, le stagioni ed il clima”. Nuovamente, in Berzano & Prina (ibidem)[8], torna l'ombra sinistra del determinismo comportamentale, che nega, anziché semplicemente attenuare, l'imputabilità dell'infrattore. Altrettanto sensibile alla tematica dei “condizionamenti sociali” è anche Ponti (1999)[9], secondo cui “l'aumento della criminalità va attribuito alla disorganizzazione sociale, intesa come perdita di efficacia degli abituali strumenti di controllo sociale”.

Chi scrive concorda con questa osservazione, poiché è innegabile, negli Anni Duemila, il tramonto delle consuete agenzie di controllo della civiltà rurale. Ormai, la famiglia, la scuola ed il gruppo religioso di riferimento hanno perso il loro ruolo anticriminogeno a causa dell'industrializzazione del lavoro, della concentrazione demografica urbana, dei flussi migratori, della facilità negli spostamenti e della crisi delle tradizionali forme di aggregazione comunitaria pre-novecentesche. Similmente, pure Berzano & Prina (ibidem)[10] ammettono che “la sempre maggiore complessità della vita sociale in Europa e negli USA determina, tra i vari e molteplici effetti inaspettati, un aumento dei fenomeni di devianza e anomia e, in particolare, di criminalità”. Sempre nella Criminologia francofona, Guerry (1833)[11] parlava del potere criminogenetico insito nei periodi di “disorganizzazione sociale”.

 

I seguaci di Lombroso tra neuroscienze e deliri di onnipotenza

Quételet, più o meno consapevolmente, ha introdotto, anche nella Criminologia italiofona, il mito del deviante perennemente e necessariamente affetto da pulsioni violentemente antisociali che lo spingono a mettere in atto imprese delinquenziali. Sicché, dal punto di vista dei lombrosiani, il trattamento penitenziario si trasforma nel tentativo di curare malattie mentali e non in quello di risocializzare il detenuto. Purtroppo, questa è la ratio psico-patologico-forense che permea tutt'oggi il Diritto Penietenziario statunitense, ove il ristretto è vittima di cure psico-farmacologiche pesanti e disumanizzanti. Tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, Niceforo è stato, con le sue tecniche di statistica qualitativa, uno dei primi ad analizzare la criminalità alla stregua di una conseguenza positivistica di malformazioni psico-fisiche. Tale Dottrinario ha, di fatto, degradato l'”uomo delinquente”, inteso e descritto come un animale evoluto ancorché affetto da inevitabili problematiche comportamentali ad eziologia patologica.

Infatti, come riferito lucidamente da Fabiano (2003)[12], “[secondo Niceforo] il fenomeno criminale non è dipendente esclusivamente dalla volontà dell'individuo, ma [esso] è legato [solo] a variabili di tipo sociale […]. Niceforo ha cercato, nelle sue numerosissime indagini empiriche, di rilevare la regolarità nella distribuzione temporale e spaziale dei fenomeni sociali, utilizzando tecniche di analisi statistica e di analisi qualitativa”. Quindi, il summenzionato Autore connette, con necessità assolutamente algebrica, le malattie mentali e le disfunzionalità sociologiche con la devianza antinormativa. L'antisociale o i gruppi antisociali sono presentati come bestie senza ragionevolezza da contenere con il mezzo dell'ospedalizzazione psichiatrica. P.e., Niceforo (1898)[13] ha distinto, in una celebre mappatura statistico-criminologica, le città e, viceversa, le periferie del Regno d'Italia, giungendo a concludere che “nelle aree urbane, prevalgono i reati di natura economica – furti, truffe e raggiri -, ed il suicidio, mentre, nelle aree rurali, sono più diffusi i delitti legati all'antico mondo contadino ed alla violenza, come l'omicidio [volontario], le ferite gravi ed il sequestro di beni e persone”.

A parere di chi commenta, l'errore di Niceforo (1898)[14] non consta nella bontà delle rilevazioni statistiche, bensì nel proporre tale distinzione tra aree urbane ed aree rurali in maniera eccessivamente apodittica ed assolutizzante; dopotutto, è pur vero, anche nei censimenti criminalistici, che l'eccezione conferma la regola e, soprattutto, che nessuna criminogenesi sociale può intaccare, in ultima istanza, il libero arbitrio di ciascun singolo consociato. Oppure ancora, in un altro suo studio degno di menzione, Niceforo (1901)[15] osserva che, statisticamente parlando, “nelle regioni [italiane] più arretrate del Sud, sono più diffusi i delitti di sangue, mentre, nelle regioni del Nord, [prevalgono] i reati di tipo finanziario – frode fiscale, truffa e bancarotta -”. Di nuovo, chi redige non contesta tanto la veridicità numerica delle affermazioni di Niceforo (1901)[16], quanto il determinismo eccessivo manifestato da tale Autore; d'altra parte, in epoca odierna, nessuno mette più in dubbio la potenzialità del c.d. “riscatto morale” del Meridione italiano.

Tuttavia, non mancano, nei Dottrinari lombrosiani, gli aspetti positivi. P.e., pur prendendo le distanze da certune affermazioni decisamente apodittiche, Ghezzi (1987)[17] riconosce pur sempre che “la grande importanza [della Scuola positivistica] è da attribuirsi alla sua capacità di individuare, almeno potenzialmente, le precise cause dei comportamenti giudicati criminali da un dato tipo di società. Nel sapere, in una parola, descrivere in che misura tali comportamenti siano causati proprio dall'organizzazione stessa della società che li condanna”. Anche secondo chi scrive, i lombrosiani italiofoni, tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, hanno avuto il merito, pur tra mille errori, di contestualizzare, sotto il profilo sociologico, la delinquenza antigiuridica. Tuttavia, rimane pacifico il dovere di rigettare, senza mezzi termini, qualunque approccio interpretativo che neghi la libera autodeterminazione del deviante.

Infatti, anche negli Anni Duemila, le neuroscienze tendono, più o meno esplicitamente, a contestare, sempre e comunque, l'ordinaria capacità dell'infrattore d'intendere e di volere. Il reo, specialmente se infra-18enne o giovane adulto, viene presentato, dai neo-positivisti, come un soggetto disabile la cui antisocialità sarebbe cagionata da onnipresenti patologie mentali. D'altra parte, con afferenza a tale tematica, Barbano & Sola (1985)[18] rimarcano che non esistono solo le eziologie psichiatriche della devianza, poiché, ad esempio, “bisogna insistere molto [anche, ndr] sull'importanza dei fattori socio-economici nella genesi della criminalità”. Sempre Barbano & Sola (ibidem)[19] mettono in evidenza che la Scuola positivistica ha assolutizzato “il comportamento patologico [del] criminale [dimenticando] […] i rapporti reciproci tra criminalità e condizioni sociali”. Oltretutto, come dimostra l'esecuzione penitenziaria statunitense, insistere troppo sugli aspetti psicopatologici della devianza conduce a disumanizzare il trattamento carcerario, che deve mantenere sempre la propria ratio suprema rieducativa e non solo retributiva.

 

La variabile della “disorganizzazione sociale”

Nella prima metà del Novecento, la “Scuola di Chicago” ha introdotto la ratio ermeneutica della “disorganizzazione sociale”. Ovverosia, come riferito da Barbagli & Colombo & Savona (2003)[20], tale approccio socio-criminologico reputa che “per spiegare la criminalità non bisogna fare riferimento alle caratteristiche delle persone, ma a quelle del gruppo a cui queste appartengono”. Più nel dettaglio, gli appartenenti alla Scuola di Chicago hanno messo in pratica il metodo dello studio delle “zone concentriche”, fondato, negli Anni Venti del Novecento, dall'anglofono Burgess. Detto Autore, nel 1925, ha mappato la criminalità di Chicago suddividendo la città in 5 “zone concentriche”, che sono il centro, la zona di transizione, la zona delle case per gli operai, la zona residenziale e la zona dei pendolari. Diciassette anni dopo Burgess, Shaw &McKay (1942)[21] hanno ripetuto il censimento criminologico di Chicago ed hanno rilevato che il tasso di delinquenza (numero di rei in un'area fratto numero totale della popolazione dell'area) raggiunge il massimo nella zona di transizione, ma diminuisce progressivamente verso le periferie. Questi Autori, inoltre, hanno osservato e dimostrato pure che la mutazione frequente dei residenti e quella degli stranieri domicilati non influisce sul tasso medio della criminalità.

Pertanto, alla luce dei summenzionati esiti statistici, Shaw & McKay (ibidem)[22] hanno concluso che “nelle aree in cui il crimine è maggiormente presente, il tessuto comunitario è sfaldato da una forte disorganizzazione sociale. In particolare, le caratteristiche della zona di transizione – povertà, eterogeneità dal punto di vista della composizione etnica e forte mobilità ed instabilità della popolazione – provocano un allentamento delle relazioni sociali e dei legami formali ed informali che, in un contesto di maggiore coesione, invece, consentono quel controllo sociale informale che è di ostacolo alla diffusione della criminalità. […]. Quindi, la mancanza di relazioni solide (disorganizzazione sociale) determina alti tassi di delinquenza”.

A parere di chi scrive, pertanto, torna, in Shaw & McKay (ibidem)[23], la dicotomia tra l'organizzazione sociale delle periferie agricole e, per contro, la disorganizzazione sociale delle enormi metropoli industrializzate. Detto in altri termini, ove sopravvive la civiltà rurale, vi è ancora un notevole “controllo sociale informale”, mentre, ove domina la de-strutturalizzazione delle grandi città, domina pure un'anomia criminogena che ostacola la sopravvivenza di quei legami moralmente forti che fungono da fattori protettivi nei confronti delle devianze antigiuridiche. In secondo luogo, la mappatura criminologica qui in esame conferma, seppur implicitamente, la natura criminogena degli ambienti urbani, allorquando, viceversa, è statisticamente provata la maggiore tranquillità delle aree agricole non intaccate dai caotici meccanismi sociali delle città. Dunque, le periferie rurali recano un più marcato rispetto dell'ordine e della legalità, in tanto in quanto esse sono munite di una ben marcata moralità collettiva.

Dal canto suo, Sutherland non ha contestato totalmente la teoria della disorganizzazione sociale, ma egli ha inteso specificare che, più che altro, la mancanza di social control si sostanzia in un “conflitto di norme”. Nel dettaglio, Sutherland (1939)[24] nota che “quando, in una società, le norme, le regole culturali ed i costumi sono tra loro contrastanti e contraddittori, essi non assolvono più la fondamentale funzione della socializzazione nel rispetto delle leggi e nell'interesse generale della collettività. Il conflitto si realizza, per esempio, fra le norme che impongono il rispetto del prossimo  e quelle che prescrivono la concorrenzialità; o, ancora, fra le regole che prescrivono l'obbedienza ai più anziani anche quando è crollata la struttura patriarcale della famiglia”.

Queste affermazioni sulle perenni antinomie etico-valoriali indicate da Sutherland recano il merito di superare i limiti di Shaw & McKay (ibidem)[25], nel senso che, prima di Sutherland (ibidem)[26], la Scuola di Chicago predicava la tesi della disorganizzazione sociale, ma colpevolizzava le classi sociali povere, mentre Sutherland nota che l'anomia collettiva è criminogena anche presso i più abbienti, come dimostra lo white collar crime. Anzi, negli Anni Settanta del Novecento, Sutherland & Cressey (1978/1996)[27] hanno messo in rilievo che “il termine disorganizzazione sociale non è del tutto soddisfacente ed è preferibile sostituirlo con il termine organizzazione sociale differenziale […]. [Nel senso che] il reato ha le sue radici nell'organizzazione sociale ed è un'espressione di tale organizzazione. Un gruppo può essere organizzato per il comportamento criminale o contro il comportamento criminale. La maggior parte delle comunità è organizzata sia per il comportamento criminale sia per quello anticriminale e, in tal senso, il tasso dei reati è un'espressione dell'organizzazione differenziale del gruppo. L'organizzazione differenziale delle comunità costituisce una spiegazione delle variazioni nei tassi di reato, spiegazione in perfetto accordo con la teoria dell'associazione differenziale, che riguarda i processi attraverso i quali le persone divengono autori di reato”.

Come si nota, Sutherland (ibidem)[28] e, successivamente, Sutherland & Cressey (ibidem)[29] hanno reinterpretato Shaw & McKay (ibidem)[30] non limitandosi a pure rilevazioni statistiche, bensì approfondendo anche il ruolo qualitativo della disorganizzazione sociale nei sotto-gruppi devianti. Ossia, la Scuola di Chicago interpretava l'anomia collettiva esclusivamente su base numerica, senza però poi analizzare la specifica antisocialità dei vari raggruppamenti delinquenziali presenti all'interno della popolazione. Dunque, il merito di Sutherland e dei propri allievi è stato quello di approfondire la qualità del crimine e non soltanto la quantità. Di più: nella succiata Opera di Sutherland & Cressey (ibidem)[31], detti Dottrinari puntualizzano che, secondo la teoria delle associazioni differenziali, “il comportamento criminale è appreso attraverso l'interazione con altre persone, in un processo di comunicazione, verbale e non verbale; l'apprendimento avviene all'interno di gruppi di persone in stretto rapporto tra di loro e ha per oggetto sia le tecniche di commissione del reato, sia lo specifico indirizzo dei movimenti, delle iniziative, delle razionalizzazioni e degli atteggiamenti”.

P.e., tale è il caso del gruppo di detenuti che si trasmettono l'un l'altro le tecniche per realizzare una rapina; oppure, è, di fatto, un “gruppo differenziale” la famiglia in cui il padre insegna al figlio maschio le corrette modalità operative di uno scasso; un altro esempio di associazione anomica è dato pure dalla tipica famiglia rom nella quale la madre educa la figlia al borseggio. In tutti questi casi paradigmatici, si vede una “associazione” per delinquere che mette in pratica consuetudini e norme antinomiche rispetto a quanto prescritto dall'Ordine legalmente prestabilito. Del pari, sempre negli USA, pure Sellin (1938)[32] condivide la tesi delle associazioni differenziali, che, nelle sue Opere, prende il nome di “teoria dei conflitti culturali”. Nello specifico, siffatto Autore, con afferenza ai sotto-gruppi criminogeni non autoctoni, precisa che “gli stranieri immigrati [sono spesso devianti perché] si trovano a vivere una profonda contrapposizione tra la prorpria cultura d'origine e la cultura del Paese d'arrivo. [Per cui, essi] sono spesso in conflitto rispetto agli usi, ai costumi ed alle regole della convivenza comune”. Più di recente, con attinenza a questa tematica, anche Ponti (ibidem)[33] osserva che “le contraddizioni [tra la cultura straniera e quella indigena] contribuiscono ad indebolire quegli autocontrolli che assicurano comportamenti onesti e provocano una situazione di disagio e di incertezza, esponendo gli immigrati al rischio di ogni tipo di disadattamento, dal vagabondaggio alla criminalità”. Il pensiero di chi commenta corre alle “associazioni differenziali” costituite dalle minoranze islamiche in Italia; in tale fattispecie, si assiste a vigorosi scontri culturali in tema di matrimonio precoce, mutilazioni genitali femminili e condizioni socio-familiari della donna. Come si può vedere, la Scuola di Chicago ha interpretato problematiche criminologiche tutt'oggi diffuse nell'Occidente europeo e nordamericano.

 

La variabile della “società disfunzionale”

Negli USA, durante il Novecento, la Criminologia ha approfondito il legame tra la criminogenesi e quella che, in svariate Pubblicazioni, Durkheim chiamava “anomia della struttura sociale”, ossia “squilibri della società moderna”. Merton (ibidem)[34] nota che un tessuto sociale “malsano” provoca atti delinquenziali, ovvero “il fenomeno della criminalità va inserito all'interno della categoria più ampia di comportamento socialmente deviante, considerato -dal punto di vista dell'analisi funzionale della società- come prodotto della struttura sociale, tale e quale il comportamento conformista”. Dunque, secondo questo Dottrinario anglofono, il crimine è frutto di un tessuto collettivo che non riesce a far condividere a tutti i consociati i propri principi valoriali; d'altra parte, similmente, una famiglia “anomica” o, perlomeno, “disnomica” veicola anch'essa, al pari della comunità statale, una serie di comportamenti disfunzionali. In altre parole, un gruppo deviante genera devianti.

Merton (ibidem)[35] mette in evidenza che, in ogni contesto sociale, esistono “da un lato, le mete culturali, le aspirazioni e le finalità condivise, definiti culturalmente e che ciascun individuo persegue come obiettivi legittimi per tutti i membri della società; dall'altro, [esistono] i mezzi istituzionali, i procedimenti leciti per raggiungere gli obiettivi costruiti socialmente, disciplinati e codificati da norme istituzionalizzate e/o condivise. [Ma] dalla dissociazione tra le aspirazioni che vengono prescritte culturalmente e le vie strutturate socialmente per la realizzazione di queste aspirazioni nasce il comportamento deviante”. Pertanto, secondo il summenzionato Auore, la delinquenza consta nell'utilizzo di vie illecite finalizzate al raggiungimento di “mete sociali”; ciò è ben dimostrato dal crimine dei colletti bianchi, che scelgono mezzi illegali per procurarsi beni ontologicamente leciti.

La conseguenza della discrasia tra mezzi illeciti e finalità oneste provoca un disordine sociale, che, nell'ottica di Merton (ibidem)[36], è una “frattura nella struttura culturale, la quale ha luogo quando si stabilisce un conflitto tra le norme culturali e le mete che queste norme impongono e le capacità socialmente strutturate dei membri del gruppo di agire in conformità ad esse; frattura che produce una tensione che porta alla violazione delle norme od all'assenza di norme”. Questa “anomia”, come aveva già intuito Durkheim, conduce all'auto-distruzione del patto sociale; soltanto, v'è ulteriormente da rimarcare che, ai tempi di Durkheim, non esistevano ancora censimenti criminologici degni di attendibilità. Viceversa, Lander (1954)[37] ha potuto mettere in pratica le teorie mertoniane grazie ad un'assai precisa mappatura criminalistica avente ad oggetto 8.464 Procedimenti Penali svolti a Baltimora presso il Tribunale dei minorenni dal 1939 al 1942. Il menzionato Criminologo ha utilizzato 7 variabili: la percentuale di immobili ad uso personale del titolare, la percentuale di non bianchi, la percentuale di immobili formalmente non agibili, il costo medio delle pigioni, la scolarizzazione generale dei residenti e la cifra dei nati al di fuori degli USA. Attraverso questa Ricerca, Lander (ibidem)[38] è riuscito a dimostrare che è la disfunzionalità sociale e non la povertà economica ad alimentare l'infrattività degli adolescenti. In special modo, la mappatura qui in parola ha rilevato che lo scarso reddito medio non incide sulla criminogenesi, mentre l'etnia e la precarietà abitativa predispongono alla delinquenza.

Dopo secoli di pregiudizio sulla presunta eziologia criminale legata al disagio economico, lo Studio di Baltimora del 1954 ha finalmente chiarito che l'anomia sociale non colpisce solamente le fasce della popolazione meno abbienti; infatti, ciò che veramente conta è la “distruzione dei legami comunitari provocata dal conflitto razziale e dalla precarietà delle condizioni abitative”. Sempre Lander (ibidem)[39] conclude che “l'analisi fattoriale indica, e questo risultato è [statisticamente] supportato dalla nostra analisi […] come il tasso di delinquenza sia fondamentalmente collegato solo all'anomia e non specificamente alle condizioni socio-economiche dell'area. Il tasso di delinquenza in una comunità non disfunzionale sarà basso nonostante essa sia caratterizzata da alloggi scadenti, povertà e vicinanza al centro della città. All'opposto, si potrà prevedere un alto tasso di delinquenza in un'area caratterizzata da assenza di norme ed instabilità sociale”. Chi commenta reputa che tale conclusione si attagli perfettamente alla criminogenesi degli Anni Duemila in Francia, ove l'anomia ed i conflitti sociali risultano pericolosamente acuti.

 

 

 

[1]Merton, Social theory and social structure, New York, 1968. tradizione italiana: Teoria e struttura sociale, Il Mulino, Bologna, 2000

 

 

[2]Merton, op. cit.

 

 

[3]Merton, op. cit.

 

 

[4]Quételet, Phisique Sociale 1869. Traduzione italiana: Il mito dell'uomo medio, Berzano (a cura di), Il segnalibro, Torino, 1996

 

 

[5]Quételet, op. cit.

 

 

[6]Bandini & Gatti & Marugo & Verde, Criminologia. Il contributo della ricerca alla conoscenza del crimine e della reazione sociale, Giuffrè, Milano, 1991

 

 

[7]Berzano & Prina, Sociologia della devianza, Carocci, Roma, 1998

 

 

[8]Berzano & Prina, op. cit.

 

 

[9]Ponti, Compendio di Criminologia, Raffaello Cortine Editore, Milano, 1999

 

 

[10]Berzano & Prina, op. cit.

 

 

[11]Guerry, Essai sur la statistique morale de la France, Crochard, Paris, 1833

 

 

[12]Fabiano, La sociologia di Alfredo Niceforo. Le trasformazioni del positivismo italiano, in Sociologia e ricerca sociale, 70/2003

 

 

[13]Niceforo, L'Italia barbara contemporanea, Sandron, Milano-Palermo, 1898

 

 

[14]Niceforo, op. cit.

 

 

[15]Niceforo, Italiani del nord e italiani del sud, Bocca, Torino, 1901

 

 

[16]Niceforo, op. cit.

 

 

[17]Ghezzi, Devianza tra fatto e valore nella sociologia del diritto, Giuffrè, Milano, 1987

 

 

[18]Barbano & Sola, Sociologia e scienze sociali in Italia. 1861-1890, Franco Angeli, Milano, 1985

 

 

[19]Barbano & Sola, op. cit.

 

 

[20]Barbagli & Colombo & Savona, Sociologia della devianza, Il Mulino, Bologna, 2003

 

 

[21]Shaw & McKay, Juvenile delinquency and urban areas. A study of rates delinquency in relation to differential characteristics of local communities in American cities, University of Chicago Press, Chicago, 1942

 

 

[22]Shaw & McKay, op. cit.

 

 

[23]Shaw & McKay, op. cit.

 

 

[24]Sutherland, Principles of Criminology, Lippincott, Chicago, 1939

 

 

[25]Shaw & McKay, op. cit.

 

 

[26]Sutherland, op. cit.

 

 

[27]Sutherland & Cressey, Criminology, Lippincott Company, Chicago, 1978. traduzione italiana: Criminologia, Giuffrè, Milano, 1996

 

 

[28]Sutherland, op. cit.

 

 

[29]Sutherland & Cressey, op. cit.

 

 

[30]Shaw & McKay, op. cit.

 

 

[31]Sutherland & Cressey, op. cit.

 

 

[32]Sellin, Culture Conflict and Crimes, Social Science Research Council, New York, 1938

 

 

[33]Ponti, op. cit.

 

 

[34]Merton, op. cit.

 

 

[35]Merton, op. cit.

 

 

[36]Merton, op. cit.

 

 

[37]Lander, Toward an Understanding of Juvenile Delinquency, Columbia University Press, New York, 1954

 

 

[38]Lander, op. cit.

 

 

[39]Lander, op. cit.