Criminalità e fattori abitativi

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Criminalità e fattori abitativi

 

Crescita urbana e Criminologia

A partire dalla rivoluzione industriale inglese, lo spostamento delle masse nelle città ha suscitato l'interesse della Criminologia, specialmente con afferenza alla delittuosità agita nelle periferie maggiormente degradate. Il problema non è soltanto lo studio della criminogenesi urbana, ma anche la necessità di un “social control”, come direbbe Garland, in grado di arginare le devianze etero-lesive. A tal proposito, molte sono state le Scuole di pensiero che si sono occupate dei legami oscuri tra città e condotte illecite. P.e., nella prima metà del Novecento, la Scuola di Chicago iniziò ad analizzare i comportamenti borderline degli operai dediti all'alcol e residenti nelle baraccopoli per stranieri sorte ai margini delle metropoli neo-industrializzate. Interessante, negli Anni Settanta del Novecento, sono sttai i Criminologi anglofoni Brantingham, secondo i quali la città è più “sicura” nella misura in cui la società metropolitana offre meno occasioni di delinquenza. Da menzionare, sempre negli Anni Settanta del Novecento, è pure Newman, che individuava “spazi urbani” favorenti la criminogenesi. Per tal Autore, gli architetti recano il dovere di progettare quartieri privi di spinte delinquenziali.

Nella Broken Windows Theory è sufficiente un vetro rotto non riparato per creare degrado in un quartiere e disinibire bande delinquenziali giovanili. Più una zona residenziale o industriale è abbandonata e degradata, maggiori sono le possibilità che in quel luogo si insedino baby gangs votate al danneggiamento ed al consumo di stupefacenti. Da ciò nasce la necessità di un'architettura che lavori in simbiosi con la Criminologia. Ogni spazio urbano dev'essere preventivamente sottratto alla microcriminalità. Tale necessaria sinergia tra urbanistica e Scienze del crimine viene ribadita pure da Carrer (2003)[1], ovverosia “ metodologia, ricerche, studi, tecnologie […], tutto ciò deve concorrere ad una informazione e formazione della pianificazione urbanistica e della progettazione architettonica al fine di ridurre la commissione di crimini, i sentimenti di insicurezza (o solamente la percezione) avvertiti dai cittadini e la possibilità che diverse persone possano diventare vittime di crimini.

Anche il sempre più emergente problema dell'insicurezza necessita di essere affrontato con strategie a tutto campo in tema di prevenzione e repressione, in quanto tale sensazione è alimentata, oltre che dalla paura di subire un reato, anche dal disagio provocato dal degrado urbano e sociale”. Come si può notare, Carrer (ibidem)[2] ammette una fisiologica discrasia tra criminalità reale e criminalità percepita. In effetti, come noto, i mass media, unitamente ai raggruppamenti politici, generano ed ampliano a dismisura allarmi sociali che spesso sono ontologicamente infondati. Le televisioni e la politica deviata cavalcano sovente malumori populistici per finalità elettorali e prettamente ideologiche

Negli Anni Duemila, come unanimemente notato da quasi tutta la Criminologia statunitense, lo spazio pubblico non è più vissuto come accadeva nei primi decenni del Novecento. I ritmi della vita rurale sono stati ormai abbandonati ed è venuta a mancare la ratio della reciproca solidarietà tra consociati. Nei luoghi aperti domina il solipsismo ed un'irrefrenabile auto-percezione di insicurezza. Tant'è che Bauman (2001)[3] è giunto al punto di asserire che “è la stessa idea di comunità, intesa come luogo sicuro ed accogliente, che vacilla. La comunità ci manca perché ci manca la sicurezza, elemento fondamentale per una vita felice, ma che il mondo di oggi è sempre meno in grado di offrirci e sempre più riluttante a promettere […] La comunità resta pervicacemente assente e la sensazione di vulnerabilità, di fragilità pervade i cittadini costretti ad orientarsi in un contesto che non ritengono più sicuro e, anzi, interpretano come foriero di nuovi ed inaspettati pericoli, che mettono a rischio la loro incolumità personale”.

Ormai, come più volte notato anche da Christie, il dissolvimento delle società agricole ha stravolto il concetto tradizionale e plurisecolare di comunità. I consociati non condividono più, all'interno degli spazi urbani comuni, alcun valore etico-religioso o civico. La città si pone alla stregua di un contenitore amorfo ove non v'è spazio per la condivisione di valori comunitari. Come se ciò non bastasse, Bauman (ibidem)[4] rimarca pure che i mezzi di comunicazione veicolano falsi allarmi a fronte di una delinquenza fattualmente meno presente rispetto a quanto fatto percepire alla popolazione. Con la scomparsa della civiltà agricola, è venuto meno quel collante umano e morale grazie al quale la cittadina o il borgo erano visti come una “kathoikoumene” in cui la socializzazione era meno fobica e avulsa dalla falsità de-contestualizzante dei social media. Nel mondo contadino, la città non escludeva, anzi agevolava la genesi di vere esperienze comunitarie. A tale sconfortante panorama si aggiunga pure la diffusione capillare delle tossicodipendenze presso la popolazione giovanile.

Senza dubbio, il crimine auto-percepito non coincide con quello presente nella realtà concreta. In epoca attuale, esiste una sovra-stima veicolata da un giornalismo politicizzato ed a-tecnico. P.e., Zani (2003)[5] ha avuto modo di osservare che “i rapporti tra ambiente e criminalità, uno dei tradizionali e più interessanti campi di studio della Criminologia, diventano particolarmente complessi quando, di fronte ad un'assenza effettiva del rischio di incorrere in episodi di vittimizzazione, intervengono variabili diverse che incidono significativamente sulla percezione di sicurezza personale dei cittadini. Anche in Italia, il dibattito sul tema della sicurezza urbana è ormai da parecchi anni all'ordine del giorno e si configura prevalentemente come un problema di insicurezza, complice anche l'eccessiva, e il più delle volte ingiustificata, azione divulgatrice dei mass media”.

A parere di chi redige, Zani (ibidem)[6] coglie nel segno nel denunziare i procurati allarmi provenienti dallo schermo televisivo e da internet. Esistono editorialisti in malafede che ingigantiscono problematiche di per sé insussistenti. Il fine è quello di cagionare ansie sociali utili per re-indirizzare il voto elettorale in un certo qual modo. P.e., negli Anni Duemila, l'omicidio volontario ha registrato un notevole calo numerico; ciononostante, le televisioni ed i quotidiani ipostatizzano gli episodi come se si trattasse di un'emergenza assoluta ed assolutizzante. Viceversa, i dati relativi allo stupro vengono volutamente sottostimati per non intaccare gli utili milionari del mercato della pornografia. Oppure ancora, i mass media estremizzano il problema della criminalità all'interno delle comunità straniere, mentre poco o nulla trapela sulle devianze anti-normative dei giovani adulti autoctoni. Siffatte dis-percezioni statistico-criminologiche sono segnalate pure dal francofono Roché (1998)[7], a parere del quale “nel contesto urbano, la paura del crimine e la conseguente possibilità di rimanere coinvolti in episodi delittuosi può seriamente comprometterne la quotidianità e generare un sentimento diffuso di insicurezza, che può declinarsi in fear of crime, ossia la paura personale della criminalità, la risposta emotiva ad una minaccia che può essere effettiva o potenziale, e in concern about crime, ovvero la preoccupazione sociale per la criminalità o per l'ordine, che origina un senso di inquietudine per la diffusione di episodi delittuosi, spesso di microcriminalità, che si verificano nei luoghi in cui si vive”.

Dunque, anche Roché (ibidem)[8] ammette lo jato concreto tra crimine concreto e (dis)percezione soggettiva della piccola delinquenza di quartiere. Il potere politico strumentalizza ed ingigantisce le fobie collettive. Il bombardamento mediatico altera la percezione della realtà e si crea una discrepanza cognitiva tra la realtà ontologica e quella percepita, anzi dis-percepita nel nome di categorie epistemologiche completamente distorte. Pertanto, la verità televisiva e giornalistica diviene preponderante rispetto a quella concreta. A tal proposito, Vianello & Padovan (1997)[9] sostengono che “in particolare, la percezione di insicurezza può essere influenzata da tre fattori: fattori personali, quali l'età, il genere, lo status socio-economico, le condizioni di salute; fattori socio-relazionali, che diventano preponderanti quando l'individuo non è adeguatamente integrato all'interno delle reti sociali comunitarie o, peggio ancora, ne è del tutto privo; e fattori situazionali, che riguardano il rapporto tra il territorio urbano e la sicurezza dei cittadini, come, per esempio, il quartiere di residenza o la città intesa nella sua globalità. Il senso di invulnerabilità ed il sentimento di sicurezza personale vengono, a questo punto, seriamente compromessi”.

A parere di chi scrive, gli asserti di Vianello & Padovan (ibidem)[10] risultano perfettamente condivisibili, specialmente laddove tali Autori sottolineano l'importanza delle “reti sociali comunitarie”, le quali garantiscono una qualità della vita decentemente integrata. P.e., lo straniero immigrato, come messo in evidenza dai due predetti Dottrinari, spesso è privo di qualsivoglia legame in grado di “umanizzare” lo spazio urbano. Oppure ancora, l'anziano solo può essere anch'egli “non […] adeguatamente integrato all'interno delle reti sociali comunitarie o, peggio ancora […] del tutto privo [di socialità gratuita]” Analoga situazione si manifesta per l'adolescente, che, in mancanza di gruppi pro-sociali, cadrà nelle mani di gruppi anti-sociali e criminogeni. L'integrazione nella comunità cittadina è e rimane un fattore assai importante per la prevenzione del disagio auto-percepito e della criminalità. Una cittadina senza legami umani e relazionali genera i presupposti per la nascita di una disgregazione sociale dolorosa per i più fragili e pericolosa per i più giovani. Instaurare sane relazioni personali è un fattore preventivo nei confronti della criminalità o, perlomeno, della criminalità così come viene soggettivamente percepita. Molto, in ogni caso, dipende dalla PG e dalle correlate amministrazioni comunali, le quali debbono curare l'igiene e l'ordine del territorio al fine di evitare un aumento dell'insicurezza collettiva.

Torna, dunque, la Broken Windows Theory degli Anni Ottanta del Novecento. Uno spazio comune dominato da graffiti, sporcizia ed oggetti abbandonati disinibisce la baby gangs giovanili e favorisce la presenza di individui dediti al consumo di alcol e sostanze illecite. Come si può notare, anche in questo caso, architettura e Criminologia si muovono di pari passo, in tanto in quanto un quartiere materialmente e sanitariamente degradato richiama a sé gruppi devianti che divengono più forti e più sicuri a causa della sensazione di impunità causata dall'assenza di igiene ed ordine pubblico. P.e., uno stabile abbandonato e non vigilato dalla PG presto o tardi diverrà un luogo ambito per senza fissa dimora e per consumatori di stupefacenti. All'opposto, gli spazi comuni ben curati ed ordinati agevolano quella sensazione di legalità che impedisce la genesi di allarmi criminologici, acuiti e strumentalizzati dai mezzi di comunicazione. Pure Zani (ibidem)[11] ribadisce che “anche l'esperienza diretta o indiretta di vittimizzazione può influenzare la percezione soggettiva degli individui. In particolare, a proposito della vittimizzazione indiretta, alcuni ricercatori sono concordi nel ritenere che questa incrementi il senso di vulnerabilità personale e sociale, mentre, riguardo a quella diretta, gli studiosi non esprimono un consenso unanime sull'esistenza di una correlazione significativa tra paura della criminalità ed esperienze di vittimizzazione diretta. Tale posizione avvalora l'esistenza del paradosso della paura, secondo il quale le persone che temono maggiormente la criminalità hanno effettivamente minori probabilità di diventare vittime”.

Quanto messo in risalto da Zani (ibidem)[12] si concretizza, in particolar modo, per le fasce anziane della popolazione, legate a quel perverso modo distorsivo di veicolare le notizie di cronaca nera. I giornalisti sovente cercano il sensazionalismo, in ubbidienza a partiti politici che sfruttano le fobie sociali per incrementare i loro consensi elettorali. Delitti bagatellari o semplici contravvenzioni vengono ingigantiti al fine di creare fake news. Spesso, inoltre, si veicola un'idea negativa di fronte a condotte anti-sociali ancorché non anti-giuridiche. P.e., nell'Ordinamento statunitense, il Diritto Penale e la repressione carceraria vengono presentati come la soluzione di tutte le devianze, comprese quelle non etero-lesive. In effetti, Vianello & Padovan (ibidem)[13] mettono in risalto che “esistono riscontri empirici [in Dottrina] secondo i quali la paura del crimine non corrisponde ad un'esperienza diretta di violenza e di criminalità […]. All'interno del contesto urbano odierno emerge dunque una crescente ed insistente domanda di sicurezza proveniente dai cittadini, i quali si sentono minacciati, oltre che dalla microcriminalità, anche dal progressivo incremento di fenomeni quali il degrado urbano e la micro-conflittualità, tali da generare una sensazione diffusa di insicurezza, difficilmente controllabile, direttamente incidente sulla materia dell'ordine pubblico ed in grado di condizionare scelte politiche particolarmente severe”. Come si può notare, Vianello & Padovan (ibidem)[14] evidenziano che la semplice microcriminalità, denominata “micro-conflittualità”, desta un allarme sociale ingiustificato.

La cittadinanza residente nelle grandi metropoli assolutizza fenomeni anti-sociali bagatellari sovente non punibili per particolare tenuità del fatto, come insegna, nel caso dell'Italia, l'ottimo Art. 131 bis CP. I mass media si concentrano su fatti scarsamente anti-normativi e generano vere e proprie ossessioni securitarie collettive. Ogni minima infrazione è presentata come un sintomo indubitabile dell'insicurezza di un determinato quartiere. Tale tolleranza zero vale specialmente nei confronti della microcriminalità adolescenziale, pur se tale devianza non sfocia quasi mai in carriere criminali o in gravi pregiudizi per cose o persone. P.e., negli USA, come osservato da Balloni (2008)[15], “la percezione del rischio, da intendersi quale rischio di vittimizzazione, è connessa alla percezione individuale della minaccia derivante dalla criminalità […]. La società è sempre la vittima del crimine, subendone sia i danni diretti (come nei casi di attentati contro l'integrità, l'indipendenza o l'unità dello Stato) che quelli indiretti, quali i costi per il mantenimento degli organi addetti al controllo sociale e le conseguenze, collegate al disagio ed alla paura, connesse al persistere ed al diffondersi della criminalità”. Giustamente, Balloni (ibidem)[16] ritorna a condannare una visione esclusivamente e tassativamente penalistica della criminalità. Al di fuori dell'Europa, molti Ordinamenti pretendono di contenere o, financo, di eliminare la microcriminalità con la sola Giuspenalistica, con il carcere e con le pene detentive di lunga durata. Il neo-retribuzionismo degli Anni Duemila tende a de-umanizzare l'infrattore, al quale viene applicata una reclusione meramente neutralizzante e non più rieducativa. Si è perso quel senso della misura che recava alla distinzione tra delittuosità scarsamente anti-normativa e grande criminalità. Tutto viene incentrato sul trinomio giustizialista stupro-omicidio-rapina. Sicché, il detenuto costituisce una vera e propria malattia antisociale da contenere senza alcun apporto riabilitativo e risocializzativo. Del pari, Bisi (2004)[17] afferma che “la percezione soggettiva, relativa alla possibilità di incorrere in un episodio di vittimizzazione, influisce spesso sugli stili di vita e sulla fruizione dello spazio urbano da parte dei cittadini. Insicurezza e processi di vittimizzazione divengono così elementi che connotano la convivenza che si realizza nei contesti urbani”. Nuovamente, Bisi (ibidem)[18] mette in luce la distanza tra criminalità reale e criminalità comunicata. Il problema più grave consta nel fatto che la dis-percezione della delittuosità reca, in modo quasi automatico, ad un Diritto Penale populista ed inutilmente severo.

 

Lo spazio urbano e la Scuola di Chicago

Dall'Ottocento in poi, la Criminologia si è sempre occupata del ruolo criminogeno di certuni quartieri o blocchi residenziali. Nella prima metà del Novecento, un gruppo di Criminologi di Chicago analizzò il nesso tra spazio urbano e delinquenza all'interno di tale città statunitense. Come notato da Williams & McShane (2002)[19], “uno dei temi ricorrenti della Scuola di Chicago è quello dello sviluppo e del cambiamento del comportamento umano, indotto dall'ambiente fisico e sociale. La Scuola di Chicago pensava agli individui come a creature complesse in grado di adottare degli stili di vita largamente diversi e considerò la comunità come principale elemento di influenza sul comportamento dei singoli”. Senza dubbio, le città statunitensi, all'epoca della Scuola di Chicago, avevano intrapreso nuove avventure modernistiche, quali il boom edilizio, l'industrializzazione post-agricola e l'accoglienza necessaria di un numero enorme di lavoratori non autoctoni. Il grande dilemma della Scuola di Chiacago era se la povertà e la ghettizzazione giocassero o meno un ruolo di criminogenesi, o, viceversa, se la delittuosità non fosse tassativamente e dogmaticamente connessa con la povertà e la precarietà abitativa. All'interno della corrente di pensiero qui in parola spiccava l'opera di Park, il quale teorizzava un “ approccio organico” nello studio delle devianze di Chicago.

Come asserito da Melossi (2002)[20], Park scoprì che “la città [non solo di Chicago, ndr] è un insieme di cerchi concentrici distinti, che si irradiano a partire dal quartiere centrale degli affari […]. La mappa delle città evidenzia [quasi sempre] che l'incidenza dei problemi sociali e della criminalità è inversamente proporzionale alla distanza dal centro: dunque, la crescita della città, la dislocazione delle aree e dei problemi sociali non avvengono casualmente, ma obbediscono ad un preciso modello; vi sono usi dominanti del territorio all'interno di ogni zona”. A parere di chi commenta, siffatto modello criminologico di Park non si attaglia, tuttavia, ai piccoli borghi del sud degli USA, privi di quello che solitamente si definisce “centro storico”.

Altrettanto interessanti, sempre all'interno della Scuola di pensiero qui menzionata, sono stati Shaw e McKay, i quali, come riferito da Bandini & Gatti & Gualco & Malfatti & Marugo & Verde (2004)[21] “sulla base delle premesse [di Park] posero in relazione la struttura spaziale della città di Chicago e le sue varie tipologie di insediamento, sia con particolari caratteristiche demografiche, quali la composizione della popolazione immigrata, sia con indicatori di varie patologie sociali, quali il tasso di criminalità ed il tasso di malattie mentali, considerati area per area […]. Furono [così] scoperte delle correlazioni tra la frequenza del fenomeno della delinquenza nelle diverse aree e la distanza di queste ultime dal centro della città”. Grazie a tale mappatura, Shaw e McKay distinsero, nella città di Chicago della loro epoca, cinque “circonvallazioni” a criminogenesi ascendente, ovverosia la zona centrale, la zona di transizione, il quartiere con le case degli operai, la zona residenziale e l'area dei pendolari. Di nuovo, tuttavia, chi redige ribadisce che tale modello teorico, negli USA, non è idoneo per le numerose città prive di un c.d. “centro storico”.

La Pubblicazione maggiormente importante di Shaw è la juvenile Delinquency and Urban Areas, la cui edizione definitiva risale al 1942. La prima edizione, del 1929, è suddivisa in quattro parti. Nella prima parte, Shaw analizza l'ecologia demografica ed architettonica di Chicago. Nella seconda sezione, è affrontato il problema della residenza dei minorenni (dai 10 ai 17 anni) che hanno delinquito dal 1900 al 1927, sempre nelle varie circonvallazioni della città di Chicago. Il terzo capitolo passa in rassegna i vari delitti commessi. Infine, la quarta ed ultima parte contiene un accurato report sulla recidiva a Chicago nei periodi 1900-1906 e 1917-1923. In particolar modo, Shaw ha calcolato il c.d. “tasso di delinquenza” effettuando il rapporto algebrico tra il numero di infrattori residenti nella circonvallazione e la totalità dei residenti del medesimo genere e della medesima età.

In totale, nella Juvenile Delinquency and Urban Areas, Chicago venne suddivisa in quattro “mappe” di un miglio quadrato ciascuna: la mappa dei casi, la mappa dei tassi di delinquenza delle “square mile areas”, le mappe radiali e le mappe zonali. In definitiva, come notato da Bandini & Gatti & Gualco & Malfatti & Marugo & Verde (ibidem)[22], “dalle diverse mappe emerse che il deterioramento fisico dell'ambiente urbano era collegato ad aree con alti tassi di delinquenza giovanile e di criminalità adulta, nonché da alti tassi di inadempienza scolastica”. Ecco, di nuovo, lo stretto legame tra degrado urbano e criminalità, soprattutto nelle circonvallazioni più lontane dal centro. Anzi, come riportato da Balloni (1983)[23], Shaw e McKay, nell'edizione definitiva del 1942 e analizzando altre 13 città statunitensi, poterono confermare che i quartieri più degradati sono anche quelli ove la precarietà abitativa si associa a maggiori tassi di delinquenza ed abbandono scolastico; più nel dettaglio, Shaw e McKay, per la prima volta nella storia della Criminologia occidentale, hanno acclarato che “le aree ad alto tasso di delinquenza presentano [anche] altri sintomi di disorganizzazione sociale (p.e., alto numero di assistiti [dai servizi sociali] e di suicidi). Secondo il punto di vista ecologico, dunque, le forme di patologia sociale non derivano tanto da qualità proprie degli individui, ma da attributi della zona fisica e socio-culturale in cui essi vivono”.

 

L'ecologia urbana di Brantingham & Brantingham e di Newman

La Scuola di Chicago ha aperto la strada a nuova ricerche di ecologia ambientale. Negli Anni Settanta del Novecento, infatti, nei Paesi anglofoni ebbero un notevole sviluppo il design ambientale a, soprattutto, la c.d. “Criminologia geografica”. Più nel dettaglio, Harries (1999)[24] specifica che “è proprio dal 1970 che si è verificata una notevole evoluzione nel campo degli studi ecologici; in particolare, si può fare riferimento al contributo della Crime Pattern Theory di Brantingham & Brantingham nell'ambito della criminologia ambientale, e della teoria dello spazio difendibile di Newman”.. Ovverosia, come messo in evidenza da Bandini & Gatti & Gualco & Malfatti & Marugo & Verde (ibidem)[25], “[Brantingham & Brantingham e Newman] parlarono di environmental Criminology, ossia di Criminologia ambientale, affermando che la Criminologia ambientale è un campo in continua espansione, che esplora come gli eventi criminali derivino dall'interazione tra motivazioni e fattori sociali, economici, giuridici e fisici”. A parere di chi redige, nella environmental Criminology il rischio, come purtroppo accaduto in Shaw e McKay, è quello di adottare un approccio deterministico, che ipostatizza l'ecologia residenziale giungendo a negare il deliberato consenso degli infrattori. L'anti-socialità e l'anti-giuridicità vanno approcciate con una prospettiva multi-fattoriale, in cui la libera scelta del singolo non è deterministicamente annichilita dall'ambiente circostante.

Brantingham & Brantingham effettuarono un censimento criminologico sui furti in appartamento consumati nel 1975 nella città di Tallahassee, in Florida. I due predetti Dottrinari suddivisero Tallahassee in aree, basandosi sul differente valore degli affitti da zona a zona. Ora, come riferito da Bandini & Gatti & Gualco & Malfatti & Marugo & Verde (ibidem)[26], Brantingham & Brantingham “rilevarono che gli isolati che si trovano al confine [periferico] di ciascuna area hanno tassi di vittimizzazione molto superiori a quelli collocati nel centro [dei vari blocchi residenziali]. […] . [Dunque] bisogna minimizzare la dimensione dei confini [tra un quartiere e l'altro], allo scopo preciso di diminuire il rischio di vittimizzazione […] [E'] sicura una città con una struttura spaziale a mosaico, le cui vie penetrano creando vicoli ciechi, riducendo così le opportunità criminali (evitando, ad esempio, la fuga di un criminale), le quali, al contrario, aumentano grazie ad uno sviluppo urbano che si dirama lungo le grandi vie di comunicazione”.

Basilare, nella storia dell'environmental Criminology, è pure la Teoria dello spazio difendibile elaborata da Newman nel 1972. A tal proposito, Carrer (ibidem)[27] riconosce a Newman di aver scoperto o, comunque, sottolineato “il legame, sempre più esplicito, fra determinati comportamenti delinquenziali e devianti e l'ambiente fisico in cui si sviluppano e talora si estrinsecano, e l'importanza di una progettazione e di un'esecuzione quanto più possibile ragionata e corretta degli insediamenti e degli edifici”. Secondo Newman, in buona sostanza, le occasioni criminogene e, specularmente, la percezione sociale e personale del crimine dipendono molto dalla maniera in cui un quartiere o un blocco abitativo è stato progettato sotto il profilo architettonico. P.e., la criminogenesi è acuita da abitazioni con un'entrata posteriore, ingressi scarsamente illuminati e cortili o giardini posizionati sul retro della residenza. Dunque, come messo in risalto da Triventi (2007)[28] “Newman affermò che un mezzo adeguato di prevenzione è costituito da un certo tipo di progettazione architettonica che massimizzi lo spazio difendibile da parte della comunità dei residenti. Da questa Teoria prende vita, quindi, un orientamento di policy volto alla riduzione dei tassi di criminalità e della percezione dell'insicurezza, operando le giuste modifiche all'arredo urbano: la costruzione di edifici con entrate ed uscite ben visibili, la riduzione delle zone male illuminate, la collocazione di giardini o cortili in prossimità di vie non isolate, la suddivisione della città in aree di minore estensione più facilmente controllabili dalla popolazione e dalle forze dell'ordine”. A parere di chi scrive, gli asserti di Newman rendono pienamente l'idea statunitense di una proprietà privata oltranzisticamente reputata come sacra ed inviolabile. Newman, più o meno esplicitamente, sposa quel securitarismo che oggi costituisce un pilastro della Giuspenalistica degli USA. In effetti, anche Ragonese (2008)[29] non nasconde il sottile neo-retribuzionismo della Teoria dello spazio difendibile, ovverosia “l'architetto Oscar Newman […] offrì una risposta operativa e formale alle esigenze di sicurezza delle città statunitensi […]. Bisognava sensibilizzare l'opinione pubblica e comunicare che, davanti al dilagare della criminalità, esistevano mezzi concreti, visibili, capaci di contrastare questa tendenza ed innescare processi di socializzazione minacciati dall'insicurezza”. Ragonese (ibidem)[30] rende bene l'idea di un'ecologia abitativa statunitense fondata sulla estremizzazione della privacy e su un Diritto Penale giustizialista e populista.

 

La Broken Windows Theory

Nella Criminologia statunitense degli Anni Duemila, la Teoria dello spazio difendibile è tutt'oggi largamente condivisa. Dunque, secondo gli architetti e gli urbanisti degli USA, sussiste un legame stretto tra criminogenesi e blocchi residenziali che favoriscono la violazione predatoria della proprietà privata. Nel Nordamerica, la regola principale della environmental Criminology è quella di creare quartieri ordinati e puliti, ove non vi sia nemmeno il minimo segno di degrado. L'importanza essenziale di un arredo urbano ben curato è stata ripresa da Wilson e Kelling, nel 1982, con la Broken Windows Theory (Teoria delle finestre rotte). Secondo Ragonese (ibidem)[31] “il concetto-base di questa teoria è rappresentato dal fatto che se in un edificio non vengono riparati i vetri rotti, alcuni vandali potranno romperne altri, sino ad arrivare ad occupare l'edificio e a compiere altri atti delinquenziali (come danneggiarne gli interni o appiccare incendi). Se, quindi, in un edificio ci sono vetri infranti e nessuno li sostituisce, poco dopo tutte le finestre subiranno la stessa sorte. Ciò accade non perché quel determinato quartiere sia invaso da delinquenti o vandali, ma perché le finestre rotte indicano che nessuno dei residenti del quartiere è disposto a difendere i beni altrui contro atti di danneggiamento.

Questo studio si rivelò vincente ed ebbe una diffusione talmente ampia da fungere da base per molte politiche anticrimine degli Stati Uniti, compresa la politica della zero tolerance dell'ex sindaco di New York Rudolph Giuliani”. Come si nota, la Broken Windows Theory consacra l'apoteosi di un Diritto Penale onnipresente che non tollera nemmeno “una modica quantità di crimine”, la quale, come sosteneva Christie, è e sarà sempre fisiologica in qualunque tessuto sociale. Nell'ottica di Wilson e Kelling, un arredo urbano danneggiato e non immediatamente ripristinato cagiona disinibizione presso i gruppi di devianti che frequentano la zona. Carrer (ibidem)[32] evidenzia che, secondo la Broken Windows Theory, “ogni danneggiamento non subito riparato può essere considerato come un incoraggiamento al degrado, all'abbandono e, di conseguenza, all'emarginazione della zona in cui è posto […] I criminali possono supporre che i residenti di quel determinato quartiere non sono capaci di controllarne le situazioni di degrado, oppure sono indifferenti a questa condizione. Ogni danno […] costituisce un invito a continuare i danneggiamenti. Il disordine può essere contagioso ed auto-propagarsi, favorendo, quindi, con il passare del tempo, l'aumento della criminalità, che si annida proprio in quegli spazi lasciati all'incuria ed all'abbandono”

 

 

[1]Carrer, La polizia di prossimità. La partecipazione del cittadino alla gestione della sicurezza nel panorama internazionale, Franco Angeli, Milano, 2003

 

[2]Carrer, op. cit.

 

[3]Bauman, Voglia di comunità, Laterza, Bari, 2001

[4]Bauman, op. cit.

 

[5]Zani, Sentirsi insicuri in città, Il Mulino, Bologna, 2003

 

[6]Zani, op. cit.

 

[7]Roché. Sociologie politique de l'insecurité, Presses Universitaires Francaises, Paris, 1998

 

[8]Roché, op. cit.

 

[9]Vianello & Padovan, Criminalità e paura: la costruzione sociale dell'insicurezza, 1997

 

[10]Vianello & Padovan, op. cit.

 

[11]Zani, op. cit.

 

[12]Zani, op. cit.

 

[13]Vianello & Padovan, op. cit.

 

[14]Vianello & Padovan, op. cit.

 

[15]Balloni, La voce delle vittime nella realtà quotidiana: una negligenza che parte da lontano, in Balloni & Bisi & Costantino, Legalità e comunicazione. Una sfida ai processi di vittimizzazione, Franco Angeli, Milano, 2008

 

[16]Balloni, op. cit.

 

[17]Bisi, Luoghi di cambiamento tra limite e possibilità, in Bisi, Vittimologia. Dinamiche relazionali tra vittimizzazione e mediazione, Franco Angeli, Milano, 2004

 

[18]Bisi, op. cit.

 

[19]Williams & McShane, Devianza e criminalità, Il Mulino, Bologna, 2002

 

[20]Melossi, Stato, controllo sociale, devianza, Mondadori, Milano, 2002

 

[21]Bandini & Gatti & Gualco & Malfatti & Marugo & Verde, Criminologia. Il contributo della ricerca alla conoscenza del crimine e della reazione sociale, Volume II, Giuffrè, Milano, 2004

[22]Bandini & Gatti & Gualco & Malfatti & Marugo & Verde, op. cit.

 

[23]Balloni, Criminologia in prospettiva, Clueb, Bologna, 1983

 

[24]Harries, Mapping Crime: principle and practice, 1999

 

[25]Bandini & Gatti & Gualco & Malfatti & Marugo & Verde, op. cit.

 

[26]Bandini & Gatti & Gualco & Malfatti & Marugo & Verde, op. cit.

 

[27]Carrer, op. cit.

 

[28]Triventi, Segni di inciviltà sul territorio e paura del crimine. Un'analisi dei dati dell'indagine sulla sicurezza dei cittadini, Trento, 2007

 

[29]Ragonese, Pauropolis. Pianificare il controllo attraverso il progetto della sicurezza, tesi di dottorato in Progettazione architettonica e urbana, Università degli Studi di Trieste, XX Ciclo, 2008

 

[30]Ragonese, op. cit.

 

[31]Ragonese, op. cit.

 

[32]Carrer, op. cit.