Figli esposti: lo sharenting alla prova del diritto

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Figli esposti: lo sharenting alla prova del diritto

 

“Ciò che condividiamo oggi sui nostri figli diventa parte della loro identità domani.” Nel tempo dell’iperconnessione, dove ogni gesto è potenzialmente documentabile e condivisibile, anche l’amore genitoriale può diventare pubblico. È il caso dello sharenting, crasi tra sharing e parenting, che definisce la pratica, ormai pervasiva, di pubblicare online fotografie, video, racconti ed ecografie dei propri figli. Un gesto che, pur mosso da tenerezza, apre a interrogativi giuridici e morali profondi: può un genitore esporre un figlio al giudizio della rete? È legittimo costruire, a sua insaputa, una presenza digitale che lo accompagnerà per il resto della vita? Nell’era digitale, l’identità di un minore può iniziare a formarsi ancor prima della sua nascita. La condivisione di ecografie, dettagli sulla gravidanza, primi sorrisi e primi passi, è ormai parte di una narrazione affettiva familiare che, tuttavia, non si limita al privato. Il confine tra amore e sovraesposizione, tra ricordo e rischio, è sottile. Dal punto di vista giuridico, ciò impone una riflessione sull’equilibrio tra la libertà del genitore di esprimere la propria dimensione familiare e il diritto del figlio alla riservatezza, alla protezione dei dati personali e alla costruzione autonoma della propria immagine nel mondo. Il diritto italiano ed europeo offre un quadro normativo articolato. Ai sensi del Regolamento UE 2016/679 (GDPR) e del D.lgs. 196/2003, ogni trattamento di dati personali di minori richiede il consenso esplicito dei titolari della responsabilità genitoriale. Ma ciò non significa che tale consenso sia illimitato o incondizionato. La Cassazione civile, con la sentenza n. 20618/2021, ha affermato con chiarezza che la responsabilità genitoriale va esercitata nell’interesse esclusivo del minore, non secondo la discrezionalità assoluta dei genitori. Il diritto all’immagine (art. 10 c.c.; artt. 96 e 97 L. 633/1941) e il diritto alla riservatezza sono diritti personalissimi, anche quando il titolare non ha ancora l’età per farli valere in prima persona. Può il genitore, dunque, rilasciare un consenso che potenzialmente danneggia il figlio? La questione, tutt’altro che teorica, si concretizza nella pubblicazione di contenuti umilianti, goffi, intimi o semplicemente non desiderati dal minore, anche a distanza di anni. Le immagini non sono solo documenti visivi: costruiscono reputazione, identità, percezione sociale. Il diritto all’oblio digitale, l’autodeterminazione informativa e il principio di non interferenza arbitraria nella vita privata (art. 16 Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia, art. 8 CEDU) impongono una lettura prudente e restrittiva del concetto di consenso “familiare”. Documentare la crescita dei figli è un diritto affettivo e familiare. Le riprese scolastiche, le fotografie durante gite o recite, rientrano nell’ambito del trattamento a fini esclusivamente personali, esente da obblighi di legge se destinato a un contesto privato. Il problema nasce nel passaggio dalla memoria al social network. Pubblicare immagini su Instagram, Facebook, TikTok o inoltrarle in gruppi WhatsApp trasforma un atto personale in un atto di diffusione pubblica, soggetto pienamente alla normativa sulla protezione dei dati. In tal caso, non solo è necessario il consenso di entrambi i genitori (art. 316 c.c.), ma anche – se altri minori o adulti sono presenti – di tutti i soggetti ritratti. L’identità digitale non è un concetto astratto. La presenza di immagini e dati personali online espone i minori a pericoli reali: furto d’identità profilazione commerciale non autorizzata, cyberbullismo e body shaming, digital kidnapping (furto e uso improprio di immagini da parte di sconosciuti). L’irreversibilità della condivisione online impone una domanda etica profonda: abbiamo il diritto di esporre altri, e in particolare i più vulnerabili, alle conseguenze di scelte che non hanno potuto compiere? Lo sharenting non è un illecito in sé, ma diventa problematico quando manca la consapevolezza delle sue implicazioni. Il genitore, in quanto garante dei diritti del figlio, ha il compito di proteggere non solo la salute e l’educazione, ma anche la dignità e la privacy digitale del minore. Serve una nuova cultura giuridica e relazionale, che riconosca il minore come soggetto di diritti autonomi, non come oggetto della narrazione genitoriale. Le istituzioni, la scuola, i professionisti dell’infanzia devono contribuire a costruire una genitorialità digitale consapevole, fondata sul rispetto, la discrezione e l’empatia. In un’epoca in cui tutto può essere condiviso, occorre chiedersi se ciò che è lecito sia sempre anche giusto. Il diritto ci offre strumenti per tutelare i più piccoli, ma è solo la responsabilità affettiva ed etica dei grandi che può trasformare una norma in protezione reale. I figli non sono il nostro biglietto da visita sul mondo. Sono persone. E ogni loro immagine pubblicata merita rispetto, misura e silenziosa attenzione.