Minori, giustizia e legalità: una risposta al Professor Castellano

Note a margine della vicenda dei “minori nel bosco”

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Minori, giustizia e legalità: una risposta al Professor Castellano

Note a margine della vicenda dei “minori nel bosco”

 

È con sincero apprezzamento che mi inserisco nel dibattito aperto dal Professor Castellano su questa rivista, il cui recente contributo offre una riflessione densa, colta e non priva di coraggio intellettuale sul caso dei cosiddetti “minori nel bosco”[1]. L’impostazione del Professore, come sempre accade quando si incrociano sensibilità raffinate e lunga esperienza scientifica, ha il merito di costringere il giurista a misurarsi con domande che non si esauriscono dentro gli angusti confini della norma, ma chiedono di interrogare la legge a partire da ciò che la precede: l’uomo, i suoi fragili equilibri, il suo tumultuoso rapporto con la libertà e con la responsabilità.

Proprio per questo, il suo testo merita di essere preso sul serio, nella sua ambizione di portare la giustizia — quella con la “g” minuscola delle relazioni concrete, e quella con la “G” maiuscola delle idealità — al cospetto delle forme giuridiche. Mi permetto, tuttavia, di proseguire quella riflessione da una prospettiva diversa, più aderente alla logica dell’ordinamento positivo e ai suoi limiti fisiologici. Se il Professore spinge lo sguardo laddove il diritto fatica a seguirlo, io vorrei tornare sul terreno — forse meno affascinante, ma non per questo meno decisivo — degli strumenti che il sistema giuridico oggi effettivamente offre, senza forzature e senza la praetensio di completare ciò che solo il legislatore potrebbe ridisegnare.

In un mio recente contributo[2] ho provato a ricostruire, in termini strettamente tecnico-giuridici, il quadro normativo applicabile alle decisioni che coinvolgono i minori, e in particolare i criteri — consolidati nella giurisprudenza — che regolano l’intervento pubblico nei casi in cui l’autodeterminazione degli adulti si intrecci con la vulnerabilità dei figli. La trama che ne emerge, allo stato attuale, è quella di un sistema che non delega alla percezione soggettiva della “giustizia” il compito di definire i confini dell’azione amministrativa e giudiziaria, ma che affida la tutela del minore a parametri legali più sobri, più verificabili e, se vogliamo, anche più prosaici.

È proprio qui che si innesta il richiamo al principio di legalità sostanziale, che l’art. 25 Cost. e l’art. 7 CEDU configurano come ben più di un vincolo burocratico: esso è una garanzia democratica, la condizione che impedisce al potere pubblico di modulare i propri interventi sulla base di percezioni morali o culturali contingenti. La lex certa non irrigidisce il sistema, lo protegge; permette di evitare che l’interesse del minore — che il diritto sovranazionale qualifica come il best interest of the child — sia sacrificato sull’altare di giudizi di valore mutevoli o di una “giustizia” emotivamente comprensibile ma giuridicamente inafferrabile. Nel diritto minorile, questo principio opera come un baluardo contro l’arbitrio, soprattutto quando si giudicano stili di vita non mainstream: è ciò che impedisce allo Stato di intervenire perché “non ci piace” il modo in cui una famiglia vive o educa.

A ciò si aggiunge un ulteriore presidio, ancor più rigoroso nel contesto delle relazioni familiari: il principio di proporzionalità e necessarietà, come interpretato dalla Corte EDU nell’ambito dell’art. 8 CEDU. Ogni ingerenza nella vita dei genitori e dei figli richiede motivazioni particolarmente serie e convincenti, e lo Stato non può sostituire le proprie opinioni educative a quelle della famiglia; le misure devono essere non semplicemente opportune, ma necessarie in una società democratica. È una bussola che orienta l’interprete e che, soprattutto, impedisce derive etico-moralistiche travestite da tutela istituzionale.

In questa luce, i richiami del Professore a esperienze risalenti ma significative — comunità montane, scuole pluriclasse immerse nell’isolamento, famiglie che vivevano secondo condizioni materiali oggi impensabili — sono preziosi per ricordarci quanto la vita reale sfugga a ogni schema astratto. Tuttavia, proprio perché quei contesti erano espressione di forme di vita condivise, radicate in un tessuto comunitario, essi rispondono a logiche molto diverse rispetto al caso odierno. Lì non vi erano scelte eccentriche o auto-segregative, ma condizioni ambientali diffuse, accettate e conosciute dalla collettività e dalle stesse istituzioni statali, che vi operavano senza percepirvi una lesione dei diritti dei minori.

Trasporre quelle esperienze su una situazione di isolamento familiare volontario rischierebbe dunque di sovrapporre piani eterogenei. La valutazione minorile, oggi come allora, non può essere costruita per analogie culturali o per suggestioni storiche, ma deve rimanere ancorata alla concretezza del rischio attuale per quel singolo minore, evitando automatismi e parallelismi impropri. È un’esigenza che la giurisprudenza italiana ha costantemente ribadito, proprio per scongiurare che forme di vita non convenzionali siano lette attraverso categorie che appartenevano — e appartengono — a realtà comunitarie profondamente diverse.

Ciò non significa ridurre la vita familiare dentro una griglia di razionalità astratta: rispondendo all’accenno del Professore a un supposto “postilluminismo razionalista”, va ricordato che il diritto non pretende di esaurire la complessità dei vissuti umani, né di comprimere la spontaneità degli affetti. La razionalità giuridica svolge un’altra funzione: traduce in criteri controllabili ciò che, altrimenti, scivolerebbe nell’arbitrio morale. Senza limiti e senza forma, la tutela dei minori diventerebbe inevitabilmente paternalistica; con i limiti, trova invece la sua coerenza e, paradossalmente, la sua umanità.

La centralità del minore come soggetto — e non come estensione delle aspirazioni degli adulti — affonda le sue radici nell’art. 2 Cost., che fonda la dignità e la vulnerabilità come categorie giuridiche, non meramente etiche. Il diritto minorile si prende cura proprio attraverso queste categorie: non giudica il modo di essere delle persone, ma valuta se vi sia una lesione concreta degli spazi di sviluppo del minore. È una differenza sottile e decisiva.

E qui si coglie forse il punto più delicato dell’intero dibattito: la giustizia sostanziale, se sganciata dalla legalità, diventa imprevedibile. È sempre “giustizia” per qualcuno e, inevitabilmente, “ingiustizia” per qualcun altro. Nei casi che coinvolgono l’integrità del minore, la fedeltà alla norma non rappresenta una fuga dalla giustizia, ma la sua forma più responsabile. La legge non è il limite alla giustizia: ne è la condicio sine qua non.

Ed è questo, in definitiva, il contributo che intendo portare al confronto aperto dal Professore: non una contrapposizione tra la profondità etica del suo sguardo e la prudenza operativa del diritto, ma il riconoscimento che è proprio nel dialogo – talvolta teso, talvolta imperfetto – tra queste due dimensioni che si protegge davvero il minore. Quando la giustizia mostra i suoi limiti e la complessità dell’esistenza supera le categorie morali, la legalità rimane l’unico terreno sicuro su cui edificare decisioni che non tradiscano la dignità delle persone coinvolte. È in questa fedeltà alla forma che il diritto minorile trova, paradossalmente, la sua sostanza più autentica.

 

[1]https://www.filodiritto.com/la-famiglia-nel-bosco-autodeterminazione-e-diritto

[2]https://www.altalex.com/documents/news/2025/11/25/casa-bosco-tra-fiaba-diritto