La proporzionalità come antidoto: l'articolo 8 della CEDU e il confine tra tutela del minore e moralismo giudiziario.

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Ph. Cinzia Falcinelli / in volo

La proporzionalità come antidoto: l'articolo 8 della CEDU e il confine tra tutela del minore e moralismo giudiziario.

 

Nei procedimenti che incidono in modo radicale sulla vita privata e familiare, la questione centrale non è mai soltanto che cosa lo Stato intenda proteggere, ma come scelga di farlo. È a partire da questo interrogativo che va letta la recente decisione “M.P. e altri c. Grecia” della Corte europea dei diritti dell’uomo, relativa all'inadeguatezza del vaglio svolto circa la possibilità di ascoltare i minori nell’ambito delle procedure di rientro internazionale.

La pronuncia si colloca nel solco di una giurisprudenza ormai consolidata, ma assume un rilievo che va oltre il profilo, pur centrale, delle garanzie procedurali. Essa richiama con forza un dato di metodo: la tutela del minore, per essere conforme alla Convenzione, non può mai risolversi in un atto autoritativo sganciato da una verifica concreta, individualizzata e proporzionata dell’ingerenza nella vita privata e familiare. Anche – e soprattutto – quando l’intervento pubblico è animato da finalità dichiaratamente protettive.

Nel diritto minorile contemporaneo, infatti, il nodo centrale non è se lo Stato possa intervenire nella sfera familiare, ma come tale intervento venga costruito e giustificato sul piano giuridico. È in questo spazio argomentativo che il principio di proporzionalità, così come declinato dall’art. 8 CEDU, svolge una funzione essenziale: non quella di orientare il giudice verso una soluzione “giusta” in senso morale, ma quella di vincolare l’esercizio del potere pubblico entro confini razionali, controllabili e verificabili. La Convenzione non tutela modelli educativi ideali né assetti familiari ritenuti socialmente preferibili; tutela, piuttosto, la vita privata e familiare come ambito di autodeterminazione, sottratto a interferenze non strettamente necessarie.

La giurisprudenza della Corte EDU è costante nel richiedere che ogni ingerenza sia sorretta da un pressing social need e da motivazioni particolarmente serie e convincenti. Non è sufficiente richiamare, in termini apodittici, il best interest of the child o una generica esigenza di protezione: occorre dimostrare, hic et nunc, che la misura adottata sia idonea allo scopo, che non esistano alternative meno intrusive e che il sacrificio imposto alla vita familiare non ecceda quanto strettamente necessario. In questa prospettiva, la proporzionalità non rappresenta un mero esercizio di bilanciamento astratto, ma un autentico criterio di legittimazione della decisione giudiziaria.

È proprio l’abbandono di questo metodo che apre la strada al rischio del moralismo giudiziario. Quando l’intervento nel diritto minorile non è ancorato a dati fattuali specifici, ma si fonda su valutazioni elastiche di adeguatezza, normalità o “buona genitorialità”, il giudizio smette di essere giuridico e diventa valutativo. Il passaggio è spesso impercettibile, ma decisivo: dall’accertamento di un pregiudizio concreto si scivola verso la censura dello stile di vita; dalla tutela del minore si passa alla correzione dell’adulto. In questi casi, l’interesse del minore rischia di trasformarsi in una clausola retorica, idonea a legittimare qualsiasi ingerenza purché sorretta da una narrazione eticamente persuasiva.

L’art. 8 CEDU, al contrario, si pone come argine a questa deriva. Esso non attribuisce al giudice il compito di individuare il “miglior” contesto familiare possibile, ma gli impone di verificare se l’intervento pubblico sia davvero indispensabile per prevenire un danno concreto. La Corte EDU ha più volte chiarito che non spetta alle autorità statali sostituirsi ai genitori nelle scelte educative o affettive, salvo che tali scelte non si traducano in una compromissione effettiva dei diritti del minore. In difetto di tale dimostrazione, l’ingerenza non è soltanto sproporzionata, ma incompatibile con la Convenzione, perché rompe l’equilibrio tra protezione e libertà che l’art. 8 è chiamato a presidiare.

In questo quadro, l’insistenza su criteri verificabili non costituisce una rinuncia alla sensibilità per il caso concreto, ma la sua razionalizzazione. Ancorare la decisione a parametri oggettivi significa sottrarre il giudizio alla suggestione morale e renderlo motivabile, sindacabile, prevedibile. È una scelta di metodo che riflette una precisa idea di diritto: non come strumento di redenzione sociale, ma come limite al potere. Fiat iustitia, certo, ma non a prezzo della trasformazione del giudice in un arbitro dei valori. Quando la legalità viene liquidata come un orpello formale e si afferma che la giustizia non può restare prigioniera delle leggi ingiuste, il confine tra interpretazione e sovversione dell’ordinamento diventa pericolosamente labile.

Talune ricostruzioni teoriche, spesso ammantate di raffinata filosofia del diritto, sembrano muovere proprio in questa direzione, fino a evocare una funzione quasi salvifica, se non addirittura palingenetica, della giurisdizione. In questa prospettiva, il riferimento a criteri extra-giuridici – quali un preteso ordine naturale delle cose o una giustizia sostanziale previamente definita e assunta come parametro superiore – finisce per svuotare di contenuto i test di necessità e proporzionalità elaborati dalla giurisprudenza convenzionale, attribuendo al giudice un potere valutativo che non trova fondamento né nella Convenzione né nel diritto positivo. Il giudice sarebbe così chiamato a “disobbedire” al diritto vigente ogniqualvolta esso non rifletta quell’ideale di presunta giustizia sostanziale, talora con l’esplicito richiamo a una necessaria presa di coscienza collettiva, a una sorta di reazione culturale o sociale contro l’ordine giuridico esistente.

Una simile impostazione, trasposta sul piano applicativo, non emancipa il diritto, ma finisce per esporlo a una deriva difficilmente controllabile. Nel momento in cui si legittima l’interprete a correggere la legge in nome di un sentire etico ritenuto più autentico, la decisione giudiziaria cessa di fondarsi su criteri comuni e diventa funzione della sensibilità individuale o, peggio, del clima ideologico del momento. Il rischio è quello di una giurisdizione che non si limita più a bilanciare diritti, ma aspira a orientare le coscienze, sostituendo al controllo di legalità una pretesa rappresentanza morale di una indistinta “maggioranza”.

Nel diritto minorile, più che in altri settori, questa deriva appare particolarmente insidiosa. Proprio perché il minore è soggetto vulnerabile, la decisione che lo riguarda deve essere tanto più rigorosa sul piano argomentativo. La fedeltà alla proporzionalità e ai principi scolpiti nella giurisprudenza convenzionale non rappresenta una scelta difensiva o conservatrice, ma la condizione stessa di una tutela effettiva. È rinunciando alla pretesa di stabilire ciò che è “giusto” in astratto che il giudice riesce, paradossalmente, a proteggere meglio il minore nel concreto. In questo senso, la proporzionalità non è un compromesso al ribasso, ma l’antidoto più efficace contro la trasformazione della tutela in giudizio morale e del diritto in una forma di pedagogia autoritativa mascherata da decisione giurisdizionale.