75 anni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo: bilancio giuridico e prospettive di evoluzione sistemica
75 anni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo: bilancio giuridico e prospettive di evoluzione sistemica
Il 4 novembre 2025 segna un anniversario che trascende la mera commemorazione storica: settantacinque anni dalla firma della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), avvenuta a Roma nel 1950 sotto l’egida del Consiglio d’Europa. È il compleanno di un testo che, pur concepito nel dopoguerra, conserva un’attualità straordinaria, al punto da costituire ancora oggi la spina dorsale della tutela multilivello dei diritti fondamentali in Europa. La Convenzione – ETS n. 5, entrata in vigore il 3 settembre 1953 – rappresentò la prima codificazione sovranazionale di diritti fondamentali dotata di forza vincolante erga omnes partes. In un continente lacerato dalle devastazioni del secondo conflitto mondiale, la decisione di affidare la protezione dei diritti non più soltanto alla sovranità statale, ma anche a un giudice internazionale ad hoc, la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, segnò un passaggio epocale: la nascita di una sorta di costituzione dei diritti europei ante litteram. La CEDU si innesta nel solco tracciato dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948, ma ne amplifica la portata trasformando l’istanza etica in garanzia giuridica effettiva. Non si tratta di un manifesto di principi, bensì di un trattato internazionale vincolante ai sensi dell’art. 26 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati (1969), che obbliga gli Stati contraenti ad assicurare i diritti riconosciuti “nel loro ambito di giurisdizione” (art. 1 CEDU). La struttura normativa della Convenzione rivela una cristallina architettura giuridica: la Sezione I (artt. 2–18) consacra il catalogo dei diritti e delle libertà fondamentali; la Sezione II (artt. 19–51) disciplina la Corte e la procedura contenziosa; la Sezione III contiene le disposizioni finali. Tra le norme più emblematiche si ricordano: l’art. 2 (diritto alla vita), l’art. 3 (divieto assoluto di tortura e trattamenti inumani o degradanti), l’art. 5 (libertà personale), l’art. 6 (diritto a un equo processo), l’art. 8 (vita privata e familiare), l’art. 10 (libertà di espressione) e l’art. 14 (divieto di discriminazione). A questi si aggiungono i Protocolli addizionali, fra cui il n. 1 (diritto di proprietà, istruzione e libere elezioni), il n. 6 e il n. 13 (abolizione della pena di morte) e il n. 14 (riforma del meccanismo giurisdizionale e rafforzamento dell’efficienza della Corte). La Corte di Strasburgo, istituita nella sua forma permanente dal Protocollo n. 11 (1998), rappresenta l’architrave dell’intero sistema convenzionale. Essa conosce dei ricorsi interstatali (art. 33 CEDU) e individuali (art. 34), dopo l’esaurimento dei rimedi interni (art. 35), e le sue decisioni vincolano lo Stato condannato (art. 46). Non si tratta di soft law, ma di diritto giurisprudenziale vivente, dotato di forza persuasiva e conformativa. Nel corso dei decenni, la Corte ha costruito un corpus normativo dinamico, in cui due principi assumono rilievo paradigmatico: quello della “living instrument doctrine”, secondo cui la Convenzione è uno strumento vivente da interpretare alla luce delle condizioni attuali (Tyrer c. Regno Unito, 1978), e quello del margine di apprezzamento statale, volto a bilanciare uniformità interpretativa e pluralismo giuridico (Handyside c. Regno Unito, 1976). Tali principi hanno permesso una progressiva espansione semantica dei diritti convenzionali: il diritto alla vita privata (art. 8) si è esteso alla tutela dei dati personali, dell’identità digitale e dell’autodeterminazione sanitaria; il diritto a un equo processo (art. 6) è divenuto parametro sostanziale per la valutazione dell’indipendenza e imparzialità del giudice, nonché della ragionevole durata del procedimento; il divieto di trattamenti inumani o degradanti (art. 3) ha assunto centralità nei casi di espulsioni, detenzioni e misure di sicurezza (Soering c. Regno Unito, 1989; M.S.S. c. Belgio e Grecia, 2011). Nel contesto italiano, la CEDU ha trovato progressiva integrazione grazie all’art. 117, comma 1, Cost., che impone il rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. Con le sentenze nn. 348 e 349 del 2007, la Corte costituzionale ha sancito che le norme della Convenzione assumono valore di parametro interposto di costituzionalità, imponendo al legislatore e al giudice ordinario un dovere di interpretazione conforme ai principi elaborati a Strasburgo. Il dialogo tra le Corti è divenuto, da allora, un laboratorio di living constitutionalism europeo: si pensi all’equa riparazione per la durata irragionevole del processo (L. n. 89/2001, c.d. legge Pinto, letta alla luce dell’art. 6 CEDU), alle garanzie della libertà personale e delle misure cautelari, alla tutela dei minori e dei soggetti vulnerabili. A completare il quadro di compatibilità costituzionale concorrono l’art. 10 Cost. (primato del diritto internazionale generalmente riconosciuto) e l’art. 11 Cost. (limitazioni di sovranità necessarie per un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni). Oggi la CEDU è chiamata a confrontarsi con sfide che i suoi redattori non avrebbero potuto prevedere. L’art. 15, che consente deroghe “in caso di emergenza pubblica che minacci la vita della nazione”, è stato invocato durante la pandemia da COVID-19, evidenziando la necessità di un bilanciamento delicatissimo tra salute pubblica e libertà fondamentali. Allo stesso modo, la crescente incidenza delle tecnologie di sorveglianza di massa, dell’intelligenza artificiale e della profilazione algoritmica sollecita un’interpretazione evolutiva degli artt. 8 e 10 CEDU, in dialogo con gli artt. 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e con il Regolamento (UE) 2016/679 (GDPR). Sul piano geopolitico, i conflitti internazionali e le crisi migratorie mettono alla prova l’effettività del principio di non-refoulement (art. 3 CEDU e art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951), imponendo alla Corte un difficile equilibrio tra sicurezza collettiva e tutela della dignità umana. Ancora irrisolta rimane la questione dell’adesione dell’Unione europea alla CEDU, prevista dall’art. 6, par. 2, TUE, ma sospesa dopo il Parere 2/13 della Corte di giustizia dell’Unione europea, che ha rilevato profili di incompatibilità strutturale tra i due ordinamenti. Una futura adesione rappresenterebbe, tuttavia, un passo decisivo verso l’unitarietà del sistema europeo dei diritti fondamentali, fondendo le garanzie della Convenzione con quelle della Carta di Nizza. Nel frattempo, la Corte di Strasburgo continua a fungere da bussola interpretativa per il diritto dell’Unione, in un dialogo giurisprudenziale complesso ma fecondo, che rafforza il principio di rule of law, oggi minacciato da derive illiberali in alcuni Stati membri del Consiglio d’Europa. A settantacinque anni da Roma 1950, la CEDU non è più soltanto un trattato: è un organismo giuridico vivente, una grammatica comune dei diritti europei. La sua forza risiede non nell’immutabilità, ma nella capacità di adattarsi alle metamorfosi della società e del diritto. Per l’Italia – come per ogni Stato parte – l’anniversario impone un esercizio di onestà giuridica: verificare l’effettività dei rimedi interni, la tempestività dell’esecuzione delle sentenze di Strasburgo (art. 46 CEDU), la coerenza dei sistemi penale, processuale e amministrativo con gli standard convenzionali. È un richiamo congiunto alla responsabilità costituzionale e internazionale del legislatore, del giudice e dell’amministrazione attiva, garanti dell’effettività del diritto convenzionale. Celebrarne i settantacinque anni significa, dunque, riconoscere nella CEDU non un monumento statico, ma un orizzonte mobile, una clausola di civiltà giuridica che obbliga a riconsiderare quotidianamente il rapporto tra potere e libertà, tra sovranità e dignità, tra norma e giustizia. Come ricordava il giudice islandese Teitur Thorgeirson nella celebre sentenza Tyrer c. Regno Unito (1978), “la Convenzione è uno strumento vivente, che deve essere interpretato alla luce delle condizioni attuali”. È in quella vitalità interpretativa che risiede, ancora oggi, la vera modernità della CEDU e la promessa inesaurita del suo progetto di civiltà giuridica europea. E se è vero che i diritti, come i popoli, evolvono, allora il miglior modo di celebrare la CEDU è continuare a farla vivere, nel diritto e nella coscienza giuridica dell’Europa.