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Amministrazione di sostegno  e prodigalità

amministrazione di sostegno
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Amministrazione di sostegno  e prodigalità

La Cassazione si pronuncia su una dibattuta questione, anche alla luce del diritto internazionale e della giurisprudenza Cedu

 

Con ordinanza della prima sezione civile del 28 dicembre 2023 n. 36176 la Corte di Cassazione ha avuto modo nei giorni scorsi di pronunciarsi su una dibattuta questione, concernente la possibilità di attivare la misura dell’amministrazione di sostegno, di cui agli articoli 404 e seguenti del codice civile, a beneficio di coloro che hanno manifestato condotte di prodigalità; concetto che di primo acchito richiama alla memoria la celebre parabola evangelica del “figliol prodigo” e che giuridicamente qualifica la tendenza a spendere e a consumare le proprie sostanze al di là di una misura ragionevole, esponendo chi ne è affetto a rischi di dissesto che possono mettere a repentaglio, oltre a sé, anche la propria famiglia.

La fattispecie, come noto, trova disciplina nell’articolo 415 secondo comma del codice civile del 1942, dunque ben da prima che la Legge 9 gennaio 2004 n.6 introducesse nell’ordinamento italiano la figura dell’amministratore di sostegno.

 La disposizione testè citata è inserita tra le norme in materia di inabilitazione. Dopo un primo comma nel quale si prevede di procedere all’inabilitazione e dunque alla nomina di un curatore per “il maggiore di età infermo di mente, lo stato del quale non è talmente grave da far luogo all’interdizione”, l’articolo 415 dispone che “possono anche essere inabilitati coloro che, per prodigalità (…) espongono sé o la loro famiglia a gravi pregiudizio economici”.

Il concetto di prodigalità ritorna, per inciso, in un’altra norma del codice civile, quella di cui all’articolo 776 secondo comma in tema di donazione fatta dall’inabilitato, ove si stabilisce che il curatore dell’inabilitato per prodigalità può chiedere l’annullamento della donazione, anche se fatta nei sei mesi anteriori all’inizio del giudizio di inabilitazione.

La Cassazione si è per l’appunto trovata a doversi pronunciare su una vicenda di asserita prodigalità in seno ad una famiglia emiliana. Vicenda che ha condotto alla nomina di un amministratore di sostegno da parte del Giudice Tutelare, nomina impugnata con successo dal presunto “prodigo” davanti alla Corte d’Appello di Bologna . A sua volta il decreto della Corte d’ Appello è stato cassato e la questione tornerà alla medesima Corte ma in diversa composizione per il giudizio di rinvio.

Ma al di là della complessa vicenda processuale, ciò che qui preme mettere in luce sono i pronunciamenti della Suprema Corte su almeno un paio di dibattute questioni.

La prima questione è a parere di chi scrive la più semplice e concerne l’ estensione del “nuovo” istituto dell’amministrazione di sostegno alle fattispecie “tradizionalmente” fatte ricadere sotto l’istituto dell’inabilitazione; segnatamente qui ci si riferisce alla prodigalità. Ricordiamo qui che già nei primi anni successivi all’introduzione in Italia dell’amministrazione di sostegno autorevole dottrina perorava la causa di una graduale messa in disparte degli storici istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione, destinati ad essere soppiantati dall’amministrazione di sostegno, molto più duttile e soprattutto molto più in armonia con il mutato spirito dei tempi e con le norme costituzionali, che ponevano l’accento sulla persona più che sul suo patrimonio.

A tale dottrina ha fatto seguito una giurisprudenza di legittimità ormai consolidata (Cassazione n. 5492/2018; n. 20664/2017; n. 18171 /2013), richiamata nella pronuncia qui in esame, secondo cui l’amministrazione di sostegno può pronunciarsi, nell’interesse del beneficiario (interesse reale e concreto inerente alla persona e/o al suo patrimonio) anche in presenza dei presupposti di interdizione e inabilitazione e dunque anche con riguardo alla prodigalità.   

Più interessante e meritevole di maggiore trattazione ci sembra invece un’altra questione. La norma di cui all’articolo 415 del codice civile è stata accusata da taluno di essere improntata ad un eccessivo “paternalismo” e di sacrificare all’eccesso la libertà di autodeterminazione del singolo per quanto riguarda la gestione dei suoi beni.

Va per contro rilevato che, comunque, lo “scialacquatore” (a prescindere dalla verifica se la sua condotta sia riconducibile o meno ad un vizio di mente) pone comunque a repentaglio le sorti della sua famiglia, se ne ha una, e se invece è responsabile solo di se stesso, rischia comunque di pesare a tempo indeterminato sull’assistenza pubblica a causa di una sua scelta di vita volontaria.

Giudizio etico certo non semplice, come si vede, che tuttavia non ha intimorito gli Ermellini che, dopo aver analizzato alcuni importanti principi di diritto internazionale in subiecta materia, hanno espresso, come vedremo, alcune regole significative.

La vicenda in esame originava dalla richiesta di una moglie separata, titolare di assegno di mantenimento di far nominare un amministratore di sostegno al marito, persona con notevoli disponibilità economiche ma affetto, a dire della moglie, da prodigalità.

Il percorso motivazionale della Suprema Corte, ampio ed articolato, si appoggia come detto su significative norme di carattere internazionale. In tali norme viene dato ampio riconoscimento ai diritti delle persone con disabilità: ci si riferisce in primis alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 2006, ratificata dell’Italia con la Legge 3 marzo 2009 n.18, il cui articolo 1 afferma che la convenzione medesima “ha l’obiettivo di promuovere, proteggere ed assicurare alle persone con disabilità il pieno godimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali nel rispetto della dignità umana e riguarda non soltanto le persone c.d. inferme di mente, ma tutte quelle che presentano minorazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali a lungo termine che in interazione con varie barriere possono impedire la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di eguaglianza con gli altri”.

Le motivazioni della Corte si soffermano su vari altri passaggi della citata Convenzione ONU, su cui per ragioni di sintesi non possiamo qui dilungarci. Vale la pena però quanto meno di citare un passaggio importante dell’articolo 12 della Convenzione, ove si afferma che “gli Stati Parti prenderanno tutte le misure appropriate ed efficaci per assicurare l’eguale diritto delle persone con disabilità alla propria od ereditata proprietà, al controllo dei propri affari finanziari e (…) assicureranno che le persone con disabilità non vengano arbitrariamente private della loro proprietà”.

Da questa Convenzione discende la centralità, nel nostro sistema, della norma di cui all’ articolo 407 del codice di rito civile, secondo cui il Giudice Tutelare è inderogabilmente tenuto ad ascoltare il beneficiario dell’amministrazione di sostegno in occasione del procedimento di nomina e a tener conto, compatibilmente con le esigenze di protezione, dei bisogni e delle richieste di questa persona.

La Cassazione richiama inoltra una sua precedente pronuncia ( Cass. n. 786/2017 ) dove in certo modo si circoscriveva entro un perimetro il concetto di prodigalità, definito come un comportamento abituale caratterizzato da larghezza nello spendere, nel regalare o nel rischiare in maniera eccessiva ed esorbitante rispetto alle proprie condizioni socioeconomiche ed al valore oggettivamente attribuibile al denaro, che configura autonoma causa di inabilitazione, indipendentemente da una sua derivazione da specifica malattia o comunque infermità e, quindi, anche quando si traduca in atteggiamenti lucidi, espressione di libera scelta di vita, purchè sia ricollegabile a motivi futili.

L’ordinanza in esame si richiama inoltre alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e ad una recente pronuncia del luglio 2023 della stessa, avente a oggetto proprio l’amministrazione di sostegno in caso di prodigalità secondo la normativa italiana.

In tale sentenza la CEDU poneva dei paletti molto precisi quanto alla possibilità di disporre in casi del genere l’amministrazione di sostegno, poiché “la decisione di sottoporre una persona ad una misura di protezione giuridica può costituire un’ingerenza nella vita privata di tale persona ai sensi dell’art. 8 par. 1 della CEDU, anche quando quest’ultima è stata privata solo in parte della sua capacità giuridica” e “una lesione del diritto di una persona al rispetto della sua vita privata vìola l’articolo 8 se non è prevista dalla legge, se non persegue uno o più scopi legittimi o se non è necessaria in una società democratica nel senso che non è proporzionata agli scopi perseguiti.”.

La corte europea nella fattispecie ritenne che la misura adottata dal giudice italiano non fosse proporzionata ed adeguata al caso concreto.

L’ordinanza della Suprema Corte di cui ci siamo qui occupati merita di essere studiata nella sua interezza dagli interessati alla materia. Dovendo però avviarci a conclusione, ci preme di enucleare l’argomentazione di fondo di questa pronuncia, sulla base della quale la Cassazione, pur consapevole delle importanti indicazioni provenienti da Strasburgo e dall’Onu a favore della tutela in senso lato della libera autodeterminazione anche a livello di spese, ha tuttavia respinto il ricorso e stabilito la piena legittimità dalla nomina dell’amministratore di sostegno a un soggetto che con espressione colloquiale possiamo definire uno “spendaccione”.

“Se una persona è libera -osservano i supremi magistrati- di disporre del proprio patrimonio, anche in misura larga ed ampia, assottigliando ciò di cui legittimamente dispone, non può però ridursi nella condizione in cui non solo non sia più in grado di assicurare i doveri di solidarietà già posti a suo carico (l’aiuto all’ex coniuge) ma finanche quelli che egli ha in favore della propria persona, altrimenti costretta a far ricorso agli strumenti di aiuto pubblico da richiedersi a dispetto delle proprie sostanze. In sostanza, la collettività non può farsi carico dell’eccesso di prodigalità di una persona che con le sue sostanze ha di che vivere dignitosamente.”