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Licenziamento disciplinare tardivo: la Corte di Cassazione chiarisce quando è affetto da nullità, ma restano alcune perplessità

Il licenziamento comunicato in ritardo non risulta sempre affetto da nullità, poiché è differente a seconda della natura formale o sostanziale della violazione procedurale commesso
cento di questi cieli
Ph. Luca Martini / cento di questi cieli

Licenziamento disciplinare tardivo: la Corte di Cassazione chiarisce quando è affetto da nullità, ma restano alcune perplessità

Abstract: Nell’ambito del licenziamento disciplinare, ovvero del recesso intimato dal datore di lavoro a fronte di un inadempimento del dipendente ai propri doveri e che assume dunque la forma del licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo a seconda della gravità dell’infrazione disciplinare, il ritardo con cui lo stesso viene comunicato non determina sempre la nullità del relativo atto, dovendosi distinguere in base alla natura formale o sostanziale della violazione procedurale commessa.
 

Indice

Il licenziamento tardivo nell’ambito del procedimento disciplinare
 Le tutele del dipendente tardivamente licenziato nell’ambito dell’art. 18 Stat. Lav.
La violazione del principio di tempestività della contestazione nella giurisprudenza della Corte di Cassazione: tra violazioni procedurali formali e violazioni procedurali sostanziali
La conferma di Corte di Cassazione, Sez. Lav., n. 10802 del 21 aprile 2023
Le perplessità residue relative ad un “ritardo notevole e non giustificato”

 

Il licenziamento tardivo nell’ambito del procedimento disciplinare

Il licenziamento disciplinare costituisce una forma di risoluzione unilaterale del contratto di lavoro subordinato da parte del datore di lavoro a fronte di un inadempimento, contrattuale ma non solo, del dipendente rispetto ai propri doveri: come tale, la categoria in questione si compone del licenziamento per giusta causa e del licenziamento per giustificato motivo soggettivo, che si distinguono l’un l’altro per la gravità dell’infrazione disciplinare commessa dal lavoratore, maggiore nel primo caso e tale da giustificare l’interruzione “in tronco” del rapporto senza alcun diritto al preavviso, minore nel secondo nel qual caso resta dunque imprescindibile il rispetto del periodo di preavviso stabilito dal CCNL applicato o, in alternativa, il pagamento della relativa indennità sostitutiva.

Le due differenti tipologie di licenziamento risultano però accomunate dal doveroso ossequio della procedura disciplinare scandita dall’art. 7, L. n. 300/1970 (c.d. “Statuto dei Lavoratori”) con il concorso delle fonti negoziali, ovvero dei contratti collettivi nazionali di lavoro di volta in volta applicati dalle singole aziende: se infatti la norma di legge fissa i principi cardine della materia, quali pubblicità e tempestività della procedura disciplinare o il diritto di difesa e al contraddittorio del dipendente, alla norma di contratto collettivo è invece offerta l’occasione di integrare la disciplina legale specificando ulteriori elementi dell’iter procedurale, ad esempio fissando un termine ultimo per l’emanazione del provvedimento disciplinare.

Ed è quanto appunto avvenuto nel caso sottoposto all’attenzione della Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, Sent. n. 10802 del 21 aprile 2023, scaturito dall’impugnazione del licenziamento intimato in ritardo rispetto al termine stabilito dalla contrattazione collettiva di settore per l’emanazione del provvedimento disciplinare finale.


Le tutele del dipendente tardivamente licenziato nell’ambito dell’art. 18 Stat. Lav.

Il mancato rispetto del termine contrattuale entro cui adottare il provvedimento configura quindi una violazione della procedura disciplinare da parte del datore di lavoro, naturalmente non priva di conseguenze sul piano giuridico; essa incide infatti negativamente sul principio di tempestività che per legge deve reggere la reazione datoriale all’infrazione del lavoratore, inficiando dunque la regolarità del procedimento di contestazione disciplinare, seppur in misura diversa rispetto ad altri inadempimenti di analoga natura procedurale.

Nell’ambito dunque delle tutele offerte dall’art. 18 Stat. Lav. ai lavoratori ricadenti sotto il proprio ambito di applicazione, ovvero i dipendenti di imprese con un organico non inferiore alle 15 unità lavorative assunti prima della data del 7 marzo 2015, le violazioni della procedura definita dall’art. 7 della medesima legge sono sanzionate con la tutela obbligatoria “debole” ex comma 6, consistente nel pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in base alla gravità del fatto accertato, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità, senza perciò diritto alla reintegrazione sul posto di lavoro. La tutela indennitaria si rafforza invece a fronte dell’insussistenza degli estremi della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo, punita dal comma successivo sempre sul piano meramente obbligatorio ma con il riconoscimento di un’indennità compresa tra le dodici e le ventiquattro mensilità.

La tutela reale viene infatti riservata dall’architettura statutaria (comma 4 dell’art. 18) esclusivamente alle ipotesi di insussistenza del fatto materiale posto a fondamento della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo di licenziamento, data la maggiore gravità di tale falla in quanto densa di natura sostanziale o, meglio, tale da incidere in maniera sostanziale sui diritti di difesa e di contraddittorio del lavoratore, a differenza di altre mancanze procedurali che invece possono impattare su un piano meramente formale rispetto alle suddette garanzie di legge, che di fatto restano tutto sommato impregiudicate.


La violazione del principio di tempestività della contestazione secondo le Sezioni Unite: tra violazioni procedurali formali e violazioni procedurali sostanziali

Questa sottile classificazione insita nel dato normativo è stata poi ripresa e valorizzata dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, incentrata, in materia di vizi della procedura disciplinare, sulla decisiva pronuncia rilasciata dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 30985 del 2017, che ha tratteggiato la “distinzione concettuale” tra l’inosservanza di regole procedurali meramente formali che scandiscono i tempi dell’intero iter procedimentale e la violazione invece di norme procedurali che però determinano una lesione sostanziale del principio generale della tempestività dell’azione datoriale.

In quell’occasione, infatti, è stato specificato come nel primo caso venga in rilievo il semplice rispetto di regole certamente essenziali ma di natura squisitamente formale, in quanto tali da incanalare nella sanzione prevista dal comma 6 dell’art. 18 e dunque nei ranghi della tutela indennitaria debole, quali possono essere le ipotesi di insufficiente descrizione della condotta censurata dal datore di lavoro o la violazione dell’obbligo di consentire al lavoratore di difendersi preventivamente o, ancora e come nel caso sottoposto a Cass., Sez. Lav., Sent. 10802/2023, il superamento del termine entro il quale adottare il provvedimento disciplinare.

Diversamente, invece, nel secondo caso, la violazione sostanziale al principio di tempestività è stata ravvisata nella totale assenza di contestazione dell’addebito o, ancora, nell’ipotesi di “ritardo notevole e non giustificato” della contestazione su cui si fonda il provvedimento espulsivo; si tratta, cioè, di violazioni idonee a ledere non solo il diritto di difesa del lavoratore, ma anche il legittimo affidamento del medesimo rispetto all’esercizio solo eventuale del potere disciplinare da parte del datore di lavoro e dunque circa la mancanza di connotazione disciplinare del fatto incriminabile, con il rischio pertanto di abbandonarlo alla minaccia perpetua di una punizione futura.

Per tale motivo, quindi, simili violazioni vengono dalle Sezioni Unite ricondotte nell’alveo di una protezione maggiore rispetto a quella offerta dalla tutela indennitaria debole, ma che a sua volta si distingue nuovamente, minando ancora una volta e ancora di più le aspettative riposte dagli operatori rispetto alla certezza del diritto.

Secondo l’arresto nomofilattico, infatti, solo la completa carenza di contestazione può determinare l’inesistenza dell’intero procedimento disciplinare e, perciò, configurare quel “difetto di giustificazione del licenziamento” che, a norma del comma 6, può giustificare l’esperimento, tra le altre, anche dell’azione di reintegrazione attenuata di cui al comma 4, mentre la diversa ipotesi del “ritardo colpevole e non giustificato”, configurando ugualmente un “difetto di giustificazione” ma di minore entità, risulterà protetta dalla tutela indennitaria forte ex comma 5 cui rimanda alternativamente lo stesso comma 6.

In altre parole, pur incidendo entrambe in maniera sostanziale sulla violazione del principio di tempestività, la prima fattispecie sarebbe idonea a legittimare la protezione reale debole mentre la seconda giustificherebbe al massimo la tutela obbligatoria forte.

Ed è su questo punto che si condensano le maggiori critiche della dottrina rispetto all’arresto giurisprudenziale del 2017, reo secondo le accuse di aver correttamente inquadrato la tempestività come un requisito sostanziale ed essenziale del licenziamento ma di aver poi “tradito” l’insegnamento classico secondo cui la mancanza di un elemento essenziale determina la nullità dell’atto e, dunque, il ripristino della situazione anteriore allo stesso. Si lamenta, in altri termini, la considerazione astratta del vizio in questione come potenziale motivo di nullità, contraddetta dall’esclusione in concreto di ogni possibilità di attivazione dei regimi di tutela previsti per riparare alle ipotesi di nullità dell’atto, che nell’ambito del licenziamento coincidono appunto con le azioni di reintegrazione.

La conferma di Corte di Cassazione, Sez. Lav., n. 10802 del 21 aprile 2023

Esaurita dunque la precisa ricostruzione del panorama giurisprudenziale di legittimità, gli Ermellini hanno poi proceduto alla decisione del caso sottoposto alla propria attenzione, cassando con rinvio al giudice della Corte d’Appello in diversa composizione la sentenza con cui il datore di lavoro ritardatario nell’invio della lettera di licenziamento è stato sanzionato con la tutela reale attenuata in luogo di quella obbligatoria debole, in contrasto con l’insegnamento delle Sezioni Unite.

Nella fattispecie in commento, infatti, l’infrazione procedurale, consistente nel superamento del termine stabilito dal CCNL per l’adozione del provvedimento disciplinare, esaurisce i propri effetti sul piano meramente formale, considerata la regolarità invece delle restanti fasi della procedura, senza per ciò comprimere eccessivamente le indefettibili prerogative del lavoratore, ugualmente messo nelle condizioni di esercitare il proprio diritto di difesa e al contraddittorio, e suggerendo dunque l’applicazione della tutela indennitaria “debole” ex comma 6.


Le perplessità residue relative ad un “ritardo notevole e non giustificato”

La conferma da parte della sentenza in commento del quadro esegetico fatto proprio dalle Sezioni Unite lascia tuttavia vive le perplessità già manifestate rispetto allo stesso, relative appunto alla controversa disciplina applicabile all’ipotesi del ritardo considerevole e ingiustificato della contestazione o del licenziamento, considerato sì un vizio procedurale di natura sostanziale ma tutelato sul piano meramente indennitario, al contrario di quanto avviene solitamente con le violazioni dal carattere sostanziale.

Perplessità che, inoltre, vengono alimentate da un recente precedente di merito (Trib. Ravenna, Sez. Civile, Sett. Lavoro. Ordinanza 12.01.2022) che, pur condividendo le corrette premesse dell’arresto del 2017, porta a compimento le naturali conseguenze delle stesse, propendendo quindi per la tutela reale attenuata a fronte di un “ritardo notevole e non giustificato” che, come tale, farebbe venir meno l’antigiuridicità della condotta censurabile e, con essa, la sussistenza giuridica della stessa, inidonea dunque a reggere un licenziamento.

Né si può escludere che simili considerazioni e conclusioni possano “colpire” anche il regime di “tutele crescenti” tipizzato dal Jobs Act (D. Lgs. n. 23/2015), che pure prevede la tutela reale in caso di insussistenza del fatto materiale posto alla base della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo, fattispecie in cui gli interpreti maggiormente garantisti delle istanze di protezione del lavoratore potrebbero forzatamente farvi rientrare anche l’ipotesi del “ritardo notevole e non giustificato” della contestazione o del licenziamento in quanto violazione dal carattere squisitamente sostanziale.

Nonostante quindi una copiosa giurisprudenza, anche di legittimità, sul punto, la questione relativa al licenziamento eccessivamente e ingiustificatamente tardivo non può dirsi del tutto pacifica, complice la contraddittorietà dell’arresto delle Sezioni Unite; per l’operatore del diritto così come per il datore di lavoro, in definitiva, la bussola nella gestione dei rapporti di lavoro non può allora che essere il principio di prudenza, volto certamente a rallentare, se non ingolfare, la macchina organizzativa aziendale, ma sicuramente utile per mettere la stessa al riparo da spiacevoli sorprese in sede giudiziaria.