Perquisizione e sequestro: quali sono i nostri diritti?

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Perquisizione e sequestro: quali sono i nostri diritti?

 

Abstract: Il presente contributo si propone di analizzare i casi in cui le perquisizioni e i sequestri, disposti dall’Autorità Giudiziaria o eseguiti d’iniziativa dalle Forze dell’Ordine, devono considerarsi invalidi o inefficaci perché lesivi dei diritti dei cittadini.

Abstract ENG: this paper focuses on the cases in which the searches and seizures, whether ordered by the Judicial Authority or carried out on the initiative of the Police, should be considered invalid or ineffective because they harm citizens' rights.

 

SOMMARIO: 1. Premessa. 2. La perquisizione e il sequestro probatorio. 3. La documentazione degli atti e la necessità della convalida. 4. Le ipotesi di invalidità/inefficacia delle perquisizioni e sequestri. 4.1. Le nullità “documentali”. 4.2. Le nullità “procedurali”. 4.3. Le ipotesi di invalidità e inefficacia connesse all’inidoneità della convalida. 5. L’inutilizzabilità “derivata” e il mito del sequestro come atto dovuto. 5.1. Riforma Cartabia e inutilizzabilità derivata: un’occasione mancata. 6. La ritenuta inefficacia dei “verbali scarni” in alcuni casi particolari. 7. La ritenuta necessità di una “testimonianza rafforzata” in caso di verbali incompleti. 8. Le ipotesi di responsabilità penale e disciplinare degli agenti.

 

 

1. Premessa.

La perquisizione personale o locale, così come il sequestro probatorio, sono strumenti d’indagine estremamente invasivi che, se utilizzati impropriamente, possono ledere gravemente i diritti fondamentali dei cittadini, dalla libertà personale (art. 13 Cost.), all’inviolabilità del domicilio (art. 14 Cost.), alla proprietà (art. 42 Cost.).

La difesa di questi diritti è essa stessa un diritto involabile ai sensi dell’art. 24 Costituzione.

Si impone pertanto un’analisi dei presupposti legittimanti l’uso di questi strumenti investigativi, al fine di assicurare ai lettori i mezzi per agire e difendersi davanti agli abusi dell’Autorità Giudiziaria.

 

 

2. La perquisizione e il sequestro probatorio.

Il codice di procedura penale annovera la perquisizione e il sequestro probatorio tra i mezzi di ricerca della prova di cui al Libro III, Titolo III, ossia tra quegli strumenti funzionali alla ricerca e all’acquisizione di elementi idonei ad assumere rilevanza probatoria.

La perquisizione in particolare viene disposta, ai sensi dell’art. 247 c.p.p., «quando vi è fondato motivo di ritenere che taluno occulti sulla persona il corpo del reato o cose pertinenti al reato» (perquisizione personale), «quando vi è fondato motivo di ritenere che tali cose si trovino in un determinato luogo ovvero che in esso possa eseguirsi l'arresto dell'imputato o dell'evaso» (perquisizione locale) o, ancora, «quando vi è fondato motivo di ritenere che dati, informazioni, programmi informatici o tracce comunque pertinenti al reato si trovino in un sistema informatico o telematico» (perquisizione informatica).

Il sequestro probatorio è un mezzo di ricerca della prova disciplinato dagli artt. 253 c.p.p. e finalizzato ad assicurare una cosa mobile od immobile al procedimento per finalità probatorie. Esso in particolare ha ad oggetto il corpo del reato (e cioè ex art. 253, comma 2, c.p.p. «le cose sulle quali o mediante le quali il reato è stato commesso nonché le cose che ne costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo») o cose pertinenti al reato (ossia le cose indirettamente collegate alla fattispecie criminosa).

Gli artt. 13 e 14 Costituzione prevedono che ogni forma di limitazione della libertà personale (compresa quella insita nelle perquisizioni personali) e perquisizione o sequestro domiciliare possa essere disposta solo con «atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge». A tale principio può derogarsi unicamente «in casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge», nei quali l’autorità di pubblica sicurezza può adottare «provvedimenti provvisori» soggetti a convalida da parte dell’autorità giudiziaria, in difetto della quale essi «si intendono revocati e restano privi di ogni effetto».

I casi principali in cui è legittimato l’intervento eccezionale delle forze di polizia sono disciplinati dal codice di procedura penale agli artt. 352 e 354.

In particolare gli ufficiali di polizia giudiziaria possono procedere a perquisizione personale o locale, in caso di flagranza del reato, nel caso di evasione e quando si deve procedere alla esecuzione di un'ordinanza che dispone la custodia cautelare.

In occasione delle perquisizioni o degli accertamenti urgenti sui luoghi o sulle cose, la polizia giudiziaria procede, se del caso, al sequestro del corpo del reato e delle cose pertinenti al reato.

Ulteriori casi nei quali la polizia giudiziaria può procedere a ispezioni e perquisizioni d’iniziativa sono previsti dalle leggi speciali. In particolare, accanto alle ipotesi previste   dall’art. 33 l. 4/1929 (che permette la perquisizione domiciliare nel caso di notizia o fondato sospetto di violazioni delle leggi finanziarie costituenti reato), dall’art. 41 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (che permette la perquisizione domiciliare per la ricerca delle armi della cui esistenza, in locali pubblici o privati, la polizia abbia notizia, anche per indizio), dall’art. 27 L. 55/1990 (per la prevenzione o repressione di delitti di criminalità organizzata), dall’art. 25bis decreto legge 306/1992 (sulla perquisizione di edifici per rintracciare armi, latitanti o evasi in relazione a delitti di terrorismo e assimilabili) e dell’art. 12,comma 7, d.lgs. 286/1998 (per il contrasto all’immigrazione clandestina), le fattispecie certamente più ricorrenti nella pratica sono quelle previste dall’art. 4 della legge 22 maggio 1975, n. 152 e dall’art. 103 del d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico sulla droga).

Nel dettaglio, l’art. 4 della L. 152/1975, consente, nel corso di operazioni di polizia e nei casi eccezionali di necessità e urgenza, la perquisizione, per la ricerca di armi e strumenti di effrazione, di persone il cui atteggiamento o la cui presenza non appaiano giustificabili, in relazione a specifiche e concrete circostanze di luogo e di tempo.

I commi 2 e 3 del citato art. 103 del testo unico della droga consentono invece alla polizia giudiziaria di procedere – nel corso di operazioni finalizzate alla prevenzione e alla repressione del traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope – rispettivamente, all’ispezione dei mezzi di trasporto, dei bagagli e degli effetti personali, e a perquisizioni, personali e domiciliari, allorché vi sia «fondato motivo» di ritenere che possano essere rinvenute tali sostanze e ricorrano, altresì – nel caso delle perquisizioni – «motivi di particolare necessità ed urgenza che non consentano di richiedere l’autorizzazione telefonica del magistrato competente».

 

3. La documentazione degli atti e la necessità della convalida.

Le predette operazioni di ricerca della prova devono essere documentate dalla polizia giudiziaria.

La stessa deve invero annotare secondo le modalità ritenute idonee ai fini delle indagini, anche sommariamente, tutte le attività svolte, comprese quelle dirette alla individuazione delle fonti di prova.

Per quanto riguarda specificamente le perquisizioni e i sequestri, ai sensi dell’art. 357, comma 2, lett. d), c.p.p., deve essere redatto apposito verbale.

Ai sensi dell’art. 136 (richiamato dal combinato disposto degli artt. 357, comma 3, e 373, comma 2, c.p.p.) il verbale deve in particolare contenere «la menzione del luogo, dell'anno, del mese, del giorno e, quando occorre, dell'ora in cui è cominciato e chiuso, le generalità delle persone intervenute, l'indicazione delle cause, se conosciute, della mancata presenza di coloro che sarebbero dovuti intervenire, la descrizione di quanto l'ausiliario ha fatto o ha constatato o di quanto è avvenuto in sua presenza nonché le dichiarazioni ricevute da lui o da altro pubblico ufficiale che egli assiste»

Inoltre «per ogni dichiarazione è indicato se è stata resa spontaneamente o previa domanda e, in tale caso, è riprodotta anche la domanda…».

Nel caso in cui abbia proceduto a sequestro, la polizia giudiziaria, ai sensi dell’art. 355 c.p.p., deve inoltre enunciare «nel relativo verbale il motivo del provvedimento» e deve consegnarne «copia alla persona alla quale le cose sono state sequestrate»

L’obbligo di redigere il verbale delle attività di cui all’art. 357, comma 2, c.p.p. non impone anche la redazione di un autonomo verbale per ciascuna delle attività svolte, specie ove vi sia una contestualità di tempo e di luogo, non essendo ciò prescritto da alcuna disposizione di legge. Può pertanto essere pacificamente redatto un verbale di perquisizione personale o locale e di contestuale sequestro.

Il verbale deve in ogni caso essere trasmesso al Pubblico Ministero.

Delle operazioni compiute la polizia giudiziaria deve infatti dare notizia, entro quarantotto ore, al Pubblico Ministero, il quale deve procedere a convalidarle nelle quarantotto ore successive con decreto motivato, sempre che ne sussistano i presupposti (v., in generale, gli artt. 352, comma 4, e 355 c.p.p.).

La convalida è altresì necessaria nel caso in cui il Pubblico Ministero disponga il sequestro di beni senza indicare specificamente le cose da sottoporre a vincolo, rimettendo alla discrezionalità della polizia giudiziaria delegata l'esatta individuazione delle stesse (così Cass., sez. II pen., 15 ottobre 2021, n. 42517 nel stabilire che il sequestro, in caso di mancata convalida, non è impugnabile mediante riesame, con la conseguenza che, qualora il pubblico ministero non disponga la restituzione ai sensi dell' art. 355, comma 2, c.p.p. , l'interessato può avanzare al medesimo la relativa istanza, con facoltà di proporre opposizione al giudice per le indagini preliminari nell'ipotesi di diniego).

Nell’ipotesi in cui il Pubblico Ministero decidesse di esercitare l’azione penale, i verbali di perquisizione e sequestro, a differenza dell’annotazioni di servizio, confluiscono nel fascicolo per il dibattimento (consultabile dal giudice ai fini della decisione) ai sensi dell’art. 431, comma 1, lett. b), c.p.p., facendo prova di quando ivi documentato.

 

4. Le ipotesi di invalidità/inefficacia delle perquisizioni e sequestri.

Descritta la procedura che presiede gli atti di perquisizione e sequestro, occorre considerare i casi in cui tali atti devono ritenersi invalidi.

 

4.1. Le nullità “documentali”.

Innanzitutto, ai sensi dell’art. 142 c.p.p., richiamato dal combinato disposto degli artt. 357, comma 3, e 373, comma 2, «il verbale» di perquisizione e sequestro «è nullo se vi è incertezza assoluta sulle persone intervenute o se manca la sottoscrizione del pubblico ufficiale che lo ha redatto»

Accanto a questa ipotesi, l’unico altro vizio “documentale” invalidante il verbale di perquisizione e sequestro è quello consistente nel mancato utilizzo della lingua italiana (art. 109 c.p.p.).

Al di fuori di queste ipotesi, le violazioni di prescrizioni inerenti alle modalità di documentazione degli atti, secondo la giurisprudenza, non ravvisando ipotesi di nullità di ordine generale previste dall’art. 178 c.p.p., danno luogo a mere irregolarità.

 

4.2. Le nullità “procedurali”.

Accanto alle nullità concernenti la documentazione dell’atto, vi sono nullità inerenti le modalità di esecuzione o di convalida della perquisizione o sequestro.

Sotto il primo profilo, l’art. 114 disp. att. c.p.p. prevede che «nel procedere al compimento degli atti indicati nell'articolo 356 del codice», e quindi alle perquisizioni personali o locali (art. 352), all’immediata apertura di plichi (353, comma 2), agli accertamenti urgenti sui luoghi, sulle cose e sulle persone e al sequestro (354), «la polizia giudiziaria avverte la persona sottoposta alle indagini, se presente, che ha facoltà di farsi assistere dal difensore di fiducia».

Trattandosi di un avvertimento incidente sulla «assistenza» dell’indagato/imputato nel procedimento penale e quindi sul diritto di difesa, la sua esecuzione è prevista a pena di nullità (v. art. 178, lett. c), eccepibile ai sensi dell’art. 182, comma 2, c.p.p. (cfr. Cass., sez. II pen., 12 aprile 2011, n. 19100).

Tanto detto, sebbene il combinato disposto degli artt. 136, 357 e 373 c.p.p. prescriva che il verbale contenga «la descrizione di quanto l'ausiliario ha fatto o ha constatato o di quanto è avvenuto in sua presenza», secondo la più recente giurisprudenza non vi sarebbe “l'obbligo di dare conto nel verbale redatto dalla Polizia giudiziaria dell'avvenuto avviso di farsi assistere da un difensore”, potendo essere fornita prova dell’avviso orale “mediante testimonianza” (Cass., sez. IV, 29 aprile 2021, n. 18349 , nel richiamare Cass., sez. IV pen., 5 giugno 2018, n. 34806, Cass., sez. IV pen., 10 maggio 2007, n. 25521,oltre alla poca attinente Cass., sez. V pen., 12 dicembre 2015, n. 25799;).

Tale giurisprudenza, certamente funzionale a “salvare” l’operato delle forze di polizia, non è però condivisibile.

Leggendo la motivazione della sentenza richiamata - per cui “la prova dell'avviso di cui all'art. 114 disp. att. c.p.p., non deve essere offerta esclusivamente in base al contenuto del verbale di cui all'art. 357 c.p.p., in cui, secondo quanto stabilito dall'art. 115 disp. att. c.p.p., l'annotazione di tale adempimento non è prescritta” -  la Corte ha invero fatto erroneamente riferimento ad un articolo (l’art. 115 disp. att. c.p.p.), che concerne le annotazioni di polizia giudiziaria, redatte “secondo le modalità ritenute idonee” e anche “sommariamente” ai sensi dell’art. 357, comma 1, c.p.p. (richiamato appunto dalla disposizione).

I verbali di perquisizione e sequestro sono invece disciplinati dai commi 2 e 3 dell’art. 357 c.p.p. e, quanto al contenuto, dagli art. 373 e dalle disposizioni di cui al titolo III del libro II del codice.

Inoltre, affinché il diritto di difesa sia effettivamente garantito, si ritiene, contrariamente alla giurisprudenza di legittimità (v. Cass., sez. IV pen., 20 luglio 2017, n. 41178), che la polizia giudiziaria prima di procedere a perquisizione o sequestro debba attendere l’eventuale arrivo del difensore eventualmente nominato.

D’altronde la perquisizione e il sequestro, quali tipici atti a sorpresa, rientrano tra gli «atti ai quali il difensore ha diritto di assistere senza previo avviso» di cui all’art. 365 c.p.p.  Inoltre gli artt. 249 (per la perquisizione personale) e 250 (per quella locale) prevedono espressamente che il perquisito ha la facoltà di farsi assistere da persona di fiducia purché prontamente reperibile.

Tali disposizioni, pur facendo riferimento alla generica categoria dei “testimoni ad atti del procedimento” chiamati a garantirne la regolarità ai sensi dell’art. 120 c.p.p., possono invero certamente riferirsi anche al difensore di fiducia.

Chi infatti può garantire il regolare svolgimento dell’atto più del difensore?

 

4.3. Le ipotesi di invalidità e inefficacia connesse all’inidoneità della convalida.

Come anticipato, vi sono anche nullità che possono riguardare le modalità di convalida della perquisizione o sequestro.

Ai sensi degli artt. 352, comma 3, e 355 c.p.p. il Pubblico Ministero convalida le perquisizioni e i sequestri eseguiti d’iniziativa dalla polizia giudiziaria mediante “decreto motivato”.

In mancanza del prescritto decreto motivato (si pensi al classico caso in cui il Pubblico Ministero si limiti a scrivere “visto si convalida” sul verbale della polizia giudiziaria), l’atto deve ritenersi nullo ai sensi dell’art. 125, comma 3, c.p.p.

Ed infatti, come chiarito dalla Corte di Cassazione “la motivazione del decreto di sequestro (così come del decreto di convalida del sequestro operato dalla polizia giudiziaria) deve contenere, a pena di nullità, la descrizione della condotta ipotizzata a carico dell'indagato, la sua riconduzione ad una fattispecie incriminatrice, la natura dei beni da vincolare e la loro relazione con tale ipotesi criminosa, non essendo esaustiva l'indicazione della sola norma violata” (Cass. sez. III pen., 25 ottobre 2022, n. 922), oltre che idonea motivazione circa “la concreta finalità perseguita per l'accertamento dei fatti” (Cass., sez. III pen., 6 marzo 2013, n. 13044).

Ovviamente, laddove il sequestro sia seguito ad una perquisizione (come normalmente accade), il decreto di convalida deve contenere un’analitica motivazione anche in relazione alla sussistenza dei presupposti legittimanti la perquisizione, rimanendo altrimenti frustrata la ratio della garanzia apprestata dall’art. 13 Cost., la quale presuppone l’effettività del controllo sulla legalità degli atti di polizia.

In questo caso, nell’eventualità in cui la convalida della perquisizione non sia adeguatamente motivata e quindi nulla, ai sensi dell’art. 185 c.p. deve ritenersi parimenti invalido anche il sequestro.

La disposizione richiamata prevede invero che «la nullità di un atto rende invalidi gli atti consecutivi che dipendono da quello dichiarato nullo».

In ogni caso, dovendo il Pubblico Ministero procedere alla convalida della perquisizione e/o del sequestro entro 48 ore dalla ricezione del verbale (v. art. 352, comma 4, e 355 c.p.p.), tali atti sono suscettibili di perdere efficacia nel caso in cui la convalida, pur motivata, intervenga tardivamente.

Ovviamente, come precisato dalla Corte di Cassazione “in caso di sequestro probatorio eseguito d'iniziativa dalla polizia giudiziaria e divenuto inefficace per la mancata tempestiva convalida da parte del pubblico ministero, è a questi inibito di estrarre copia del compendio appreso, al fine di farne probatoriamente uso” (Cass., sez. II pen., 28 maggio 2021, n. 33520).

 

5. L’inutilizzabilità “derivata” e il mito del sequestro come atto dovuto.

Ci si è sempre domandati se, al di fuori dalle ipotesi tipiche di nullità, l'eventuale illegittimità dell'atto di perquisizione non comporti effetti invalidanti sul successivo sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato. Se sia cioè configurabile l’inutilizzabilità derivata del sequestro.

Vi è infatti un evidente rapporto di logica consequenzialità tra perquisizione e sequestro. L’art. 252 c.p.p. prevede invero che «le cose rinvenute a seguito della perquisizione sono sottoposte a sequestro».

Secondo un primo orientamento, l’inutilizzabilità derivata non può trovare accoglimento nel nostro ordinamento (teoria del “male captum bene retentum”).

L’art. 191 c.p.p. sulle “prove illegittimamente acquisite”, nello stabilire in generale che «le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate», non prevede infatti -  come invece fa l’art. 185, comma 1, c.p.p. in materia di nullità -  che l’inutilizzabilità di un atto rende inutilizzabili gli atti consecutivi che dipendono da quello dichiarato inutilizzabile.

Un secondo orientamento di pensiero sostiene invece che una piena tutela dei diritti fondamentali della persone (libertà personale e l’inviolabilità del domicilio inclusi) impone di ritenere che l’illegittimità/inutilizzabilità di una prova (o mezzo di prova) si estenda necessariamente ad altra prova il cui reperimento sia stato determinato dalla prima.

Si tratta della «teoria dei frutti dell'albero avvelenato», accolta dalla giurisprudenza nordamericana a partire dalla sentenza Silverthorne Lumber Co. V. United States del 1920.

Tale teoria– che nella giurisprudenza americana soffre eccezioni nei soli casi di prova acquisibile attraverso un fonte indipendente dalla prova viziata, di scoperta inevitabile e di atto in buona fede (si pensi alla perquisizione effettuata sulla base di un mandato successivamente dichiarato invalido) – troverebbe specifica applicazione in Italia nell’art. 271 c.p.p. (che prevede l'inutilizzabilità dei “risultati” delle intercettazioni illegittime) e nell’art. 103, comma 7, c.p.p. (che sancisce l’inutilizzabilità dei “risultati” delle ispezioni, perquisizioni, sequestri, eseguiti in violazione delle disposizioni che regolano le ispezioni e perquisizioni negli uffici dei difensori), oltre che nel citato art. 185 c.p.p. in tema di nullità.

Pertanto, un’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme in gioco imporrebbe di riconoscere l’inutilizzabilità derivata come categoria generalmente riconosciuta.

Diversamente opinando, infatti, si troverebbero irrazionalmente a convivere, in violazione del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. (che impone di trattare in modo uguale situazioni uguali ed in modo diverso situazioni ragionevolmente diverse), ipotesi legislativamente sanzionate di prove acquisite illegalmente e ipotesi analoghe non sanzionate (il sequestro conseguente a perquisizione illegittima).

Senza contare che si attribuirebbe alla polizia giudiziaria il potere di ledere «ad libitum» la libertà personale e domiciliare dell’individuo, vanificando le garanzie costituzionali a tutela dei diritti inviolabili (art. 2 Cost.), in violazione dell’art. 97 Cost. che sottopone in via generale l’azione dei pubblici poteri al principio di legalità e dell’ art. 117 Cost, con riferimento all’art. 8 della CEDU, che impone l’adozione di efficaci disincentivi agli abusi delle forze di polizia che implichino indebite interferenze nella vita privata della persona o nel suo domicilio.

Questa teoria, accolta da un parte della dottrina e della giurisprudenza di merito, non ha tuttavia ottenuto il favore delle giurisprudenza di legittimità e costituzionale.

A partire dalla sentenza Sezioni Unite Penali, 27 marzo- 6 maggio 1996, n. 5021, la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha infatti sempre ritenuto valido il sequestro conseguente a una perquisizione eseguita fuori dai casi e dai modi previsti dalla legge, allorché abbia ad oggetto il corpo del reato o cose pertinenti al reato, posto che, in tal caso, il sequestro costituirebbe un atto dovuto ai sensi dell’art. 253, comma 1, cod. proc. pen., che non potrebbe essere omesso dalla polizia giudiziaria solo a causa dell’abuso compiuto.

Le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 191 c.p.p., nel tempo sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 14, 24, 97, comma 2, e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU, sono invece state sempre respinte dalla Corte Costituzionale anche sul rilievo che il loro accoglimento avrebbe richiesto una pronuncia fortemente "manipolativa", dato che l'ordinamento italiano non contempla legislativamente la figura dell'«inutilizzabilità derivata», espressiva della cosiddetta «teoria dei frutti dell'albero avvelenato» (in tal senso cfr. sentenze 9 dicembre 2022, n. 247; 9 maggio 2022, n. 116; 26 novembre 2020, n. 252; 3 ottobre 209, n. 219).

In altri termini la disciplina dell’inutilizzabilità derivata costituisce frutto di scelte di “politica processuale” che soltanto il Legislatore è abilitato, nei limiti della ragionevolezza, ad esercitare.

E’ stato da ultimo rilevato da più voci dottrinati che la regola dettata dall’art. 185 c.p.p. per la nullità non potrebbe estendersi analogicamente all’inutilizzabilità, vigendo in materia il principio di tassatività (art. 177 c.p.p.), il cui corollario è appunto il divieto di analogia.

 

5.1.Riforma Cartabia e inutilizzabilità derivata: un’occasione mancata.

Questo consolidato orientamento giurisprudenziale sull’inapplicabilità della teoria del frutto dell’albero avvelenato non è stato scalfito nemmeno dalla nuova disciplina introdotta agli artt. 252-bis e 352, comma 4 bis, cod. proc. pen. in materia di perquisizioni illegittime.

Come noto, le norme citate sono state introdotte dalla Riforma Cartabia (D.lgs 150/2022) al dichiarato fine di colmare il vuoto di tutela segnalato dalla Corte Edu, sez. I, con sentenza 27 settembre 2018, n. 57278 (Brazzi c. Italia). Sentenza con cui l’Italia è stata condannata per violazione dell’art. 8 della Convenzione (diritto al rispetto della vita privata), non prevedendo la normativa nazionale in tema di perquisizioni “sufficienti garanzie a monte o a valle contro i rischi di abuso di potere o di arbitrarietà da parte delle autorità, in quanto non contempla un effettivo e tempestivo controllo giurisdizionale”. 

Nell’adeguarsi alle prescrizione della Corte di Strasburgo, il Legislatore italiano si è limitato però ad introdurre un nuovo mezzo di impugnazione privo di conseguenze concrete (in tal senso v. Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, Relazione su novità normativa la “Riforma Cartabia”, p.54/55), se non quella di legittimare un’eventuale denuncia per perquisizione arbitraria ex art. 609 c.p.

Nella prospettiva che qui interessa, i nuovi artt. 252-bis e 352, comma 4 bis, c.p.p. - nel prevedere l’opponibilità del decreto di perquisizione del Pubblico Ministero e/o del decreto di convalida della perquisizione eseguita d’iniziativa dalla Polizia Giudiziaria – trovano applicazione soltanto nei casi in cui alla perquisizione non sia seguito il sequestro e cioè fuori dai casi in cui verrebbe in rilevo la questione dell’inutilizzabilità derivata.

Ed infatti, nella Relazione illustrativa della Riforma è stato evidenziato che la soluzione individuata è stata «calibrata in modo da soddisfare pienamente l’interesse dell’opponente all’accertamento dell’illegittimità della perquisizione subìta, senza tuttavia sfociare nell’invalidazione processuale del decreto oggetto di opposizione (e/o delle relative risultanze)» (pag. 100).

Si può quindi ritenere che il Legislatore abbia perso l’occasione di introdurre la tanto agognata “inutilizzabilità derivata”, confermando l’orientamento giurisprudenziale a favore della teoria del “male captum bene retentum”.

 

6. La ritenuta inefficacia dei “verbali scarni” in alcuni casi particolari.

A prescindere dalle superiori considerazioni sulle ipotesi tipiche di invalidità ed inefficacia e sulla non configurabilità dell’inutilizzabilità derivata, si ritiene che vi siano casi in cui l’incompletezza dei verbali di perquisizione e sequestro redatti dalla polizia giudiziaria debba comunque determinare, pure in assenza di un disposizione specifica, conseguenze sulla convalidabilità dell’operato della forze dell’ordine e quindi sull’efficacia degli atti compiuti.

Tra questi l’ipotesi della perquisizione disposta ai sensi dell’art. 4 L.152/1975 per accertare il possesso di armi e cioè per accertare la sussistenza di vari reati (v. artt. 699 c.p.; 2, 4 e 7 L. 895/1967;10, 12 e 14 L. 497/1974; 23 L. 110/1975, ecc.), tra cui quello di porto di arma impropria di cui all’art. 4, comma 2,  L. 110/1975 (porto di armi od oggetti atti ad offendere).

Tale disposizione punisce chi  “senza giustificato motivo”, porti “fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa, bastoni muniti di puntale acuminato, strumenti da punta o da taglio atti ad offendere, mazze, tubi, catene, fionde, bulloni, sfere metalliche, nonché qualsiasi altro strumento non considerato espressamente come arma da punta o da taglio, chiaramente utilizzabile, per le circostanze di tempo e di luogo, per l'offesa alla persona” oltre ai puntatori laser di potenza determinata.

Poiché le “armi improprie” sono strumenti destinati ad usi domestici (forbici, coltelli a singola lama), di lavoro (piccone, cacciavite), sportivo (giavellotto), il porto è lecito (e quindi penalmente irrilevante) soltanto qualora avvenga in funzione del loro normale utilizzo.

Se tanto è vero, nell’ipotesi prevista dall’art. 4, comma secondo, L. 110/1975 il verbale di perquisizione e sequestro dell’arma, oltre a descrivere - in linea con l’art. 4 L. 152/1975 – le “operazioni di polizia” nel corso delle quali è emersa la “necessità e di urgenza” di procedere alla perquisizione e quali siano le “specifiche e concrete circostanze di luogo e di tempo” per cui l’atteggiamento o la presenza della persona perquisita non appaia “giustificabile”, dovrebbe pure descrivere  - sul versante dei presupposti legittimanti il sequestro - l’arma impropria rinvenuta e se l’indagato sia o meno riuscito a fornire una spiegazione ragionevole per giustificare il possesso della stessa.

Ed infatti, come già segnalato, ai sensi del combinato disposto degli artt. 357, commi secondo e terzo, 373, comma secondo, e 136 c.p.p i verbali di perquisizione e di sequestro devono contenere “la descrizione di quanto l'ausiliario ha fatto o ha constatato o di quanto è avvenuto in sua presenza nonché le dichiarazioni ricevute da lui o da altro pubblico ufficiale che egli assiste”. Per ogni dichiarazione deve essere addirittura indicato “se è stata resa spontaneamente o previa domanda”.

Pertanto non è sufficiente verbalizzare che l’atto è avvenuto genericamente “nel corso del servizio” o fare apoditticamente riferimento alle “circostanze di tempo e di luogo” che hanno giustificato il “sospetto” alla base della perquisizione e, per quanto riguarda gli strumenti non considerati espressamente come arma da punta o da taglio (di cui al secondo periodo, del comma secondo dell’art. 4 L. 110/75), alla base della valutazione del pericolo di offesa alla persona.

Né la perquisizione o il sequestro possono ritenersi giustificati quando il perquisito sia gravato da precedenti penali, non essendo i “precedenti” delle circostanze di “tempo” o di “luogo”.

A ritenere diversamente soggetti con precedenti giudiziari o di polizia potrebbero essere sottoposti a perquisizioni personali in ogni tempo (anche a distanza di anni da un’eventuale espiazione della pena) e in ogni luogo, a prescindere dalle circostanze del caso concreto ma per il solo fatto di aver avuto un passato turbolento.

Non solo.

Dovendo il sequestro probatorio di cose costituenti il corpo di reato “essere sorretto da idonea motivazione circa la sussistenza di elementi costitutivi del reato contestato” (Cass., Sez. II pen., 8 febbraio 2021, n. 4875. In tal senso v. anche Cass., sez. V pen., 3 novembre 2017, n. 54018; Cass., sez. III pen., 5 giugno 2008, n. 27508), deve ritenersi non convalidabile il sequestro, il cui verbale ometta di documentare i motivi del possesso dichiarati dall’indagato/indiziato o il rifiuto di fornirli a fronte della domanda specifica degli agenti.

Come può infatti esservi porto “ingiustificato” di arma impropria se non è stata richiesta la giustificazione?

Pertanto, laddove la polizia giudiziaria ometta di richiedere i motivi del possesso dell’arma impropria rinvenuta sul perquisito od ometta di verbalizzare la richiesta e la risposta, il Pubblico Ministero, che ai fini della convalida riceve il solo verbale di perquisizione e sequestro, non potrebbe convalidare l’operato degli agenti per mancanza di uno degli elementi fondamentali richiesti per la sussistenza del reato e per conseguente impossibilità di qualificare il bene sequestrato come “corpo del reato”.

Mancando il reato (o il “fumus comissi delicti) e il corpo del reato, il bene sequestrato dovrebbe essere restituito, non potendosi applicare la confisca prevista dall’art. 4 L. 110/75 (cfr. Cass., sez. I pen., 12 aprile 2016, n. 20508 e Cass., sez. I pen., 15 novembre 2017, n. 54086 nella misura in cui consentono l’ablazione del bene nei soli casi di archiviazione disposta per motivi diversi dall’insussistenza del fatto).

 

7. La ritenuta necessità di una “testimonianza rafforzata” in caso di verbali incompleti.

Come già anticipato, è sempre più diffuso l’orientamento giurisprudenziale incline a ritenere che la testimonianza degli ufficiali di polizia giudiziaria possa superare l’omessa verbalizzazione di adempimenti prescritti dalla legge (si pensi all’obbligo di avvertimento del diritto all'assistenza del difensore sancito all’art. 114 disp. att. c. p.p.) o le carenze descrittive del verbale (si pensi alle “circostanze di tempo e di luogo” che renderebbero uno strumento non considerato espressamente come arma da punta o da taglio, “chiaramente utilizzabile… per l'offesa alla persona”, ai sensi dell’art. 4, comma 2, secondo periodo, L. 110/75)

Anche volendo aderire acriticamente a questo orientamento, si ritiene che, in un ordinamento garantista come pretende di essere quello italiano, l’incompletezza dei verbali debba avere in ogni caso conseguenze sul piano processuale, imponendo a livello probatorio una giustificazione attendibile dell’omessa o incompleta verbalizzazione.

Indicazioni in tal senso si possono trarre dalla già citata sentenza n. 18349 del 29 aprile 2021, in cui la IV sezione penale della Corte di Cassazione, dopo aver affermato che “non vi è l'obbligo di dare conto nel verbale redatto dalla Polizia giudiziaria dell'avvenuto avviso di farsi assistere da un difensore per il prelievo ematico in ospedale”, ha chiarito tuttavia che “se la prova dell'avviso è fornita mediante testimonianza, allora il giudice è tenuto a verificare l'attendibilità delle dichiarazioni rese in merito alla mancata verbalizzazione”.

Nella fattispecie concreta (concernente la validità di un prelievo ematico finalizzato ad accertare la guida in stato di ebbrezza), la Corte ha così annullato la sentenza impugnata, evidenziando la “illogicità e la contraddittorietà” della motivazione fondata sulla testimonianza dell’agente verbalizzante, nella misura in cui si affermava che l'impossibilità della verbalizzazione dell’avvertimento era dovuta all'urgenza del momento, nonostante che dall'intervento dei Carabinieri al trasporto in ospedale per il prelievo ematico fossero trascorsi quaranta minuti.

Se tanto è vero, a fronte della mancata verbalizzazione dell’avvertimento, la testimonianza dell’agente verbalizzate sull’adempimento orale dell’obbligo deve cedere (in quanto inattendibile) di fronte alla testimonianza contraria di “testimoni ad atti del procedimento” (art. 120 c.p.p.)

Si ricorda invero che ai sensi degli artt. 249 e 250 c.p.p., in occasione delle perquisizioni personali e locali (che normalmente precedono il sequestro), il perquisito ha la facoltà (oggetto di uno specifico avvertimento) di farsi assistere da persona di fiducia (anche diversa dall’avvocato) purché prontamente reperibile. Tale persona, partecipando alla svolgimento dell’atto, può essere chiamata a testimoniare sulla regolarità degli adempimenti.

 

8. Le ipotesi di responsabilità penale e disciplinare degli agenti.

Si conclude evidenziando che, quand’anche le norme disciplinanti la perquisizione e il sequestro non siano previste a pena di invalidità/inefficacia, l'inosservanza di tali prescrizioni può determinare a carico di magistrati e agenti di polizia una responsabilità disciplinare ai sensi dell’art. 124 c.p.p.

Tale disposizione invero, dopo aver stabilito che i magistrati, gli ufficiali giudiziari, gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria «sono tenuti a osservare le norme di questo codice anche quando l'inosservanza non importa nullità o altra sanzione processuale» (comma 1), stabilisce che «i dirigenti degli uffici vigilano sull'osservanza delle norme anche ai fini della responsabilità disciplinare» (comma 2).

Non solo.

Nei casi più gravi di perquisizione ingiustificata, gli agenti possono essere denunciati e chiamati a rispondere penalmente di perquisizione arbitraria ai sensi dell’art. 609 c.p.

Tale disposizione invero punisce «il pubblico ufficiale, che, abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni, esegue una perquisizione o un'ispezione personale».

Per pacifica giurisprudenza, il delitto “è configurabile non solo quando siano in concreto assenti le condizioni richieste dalla legge per il compimento dell'atto, ma anche quando esso sia realizzato con modalità illegali” (Cass., sez. III pen., 14 febbraio 2011, n. 25709. V. anche Corte appello di Roma, sez. III pen., 23 giugno 2017, n. 5091).

In tali casi, peraltro, sarebbe addirittura scriminate la violenza, la minaccia, le offese o la resistenza al pubblico ufficiale ai sensi dell’art. 393-bis c.p..

La norma citata invero prevede che «non si applicano le disposizioni degli articoli 336, 337, 338, 339, 339 bis, 341 bis, 342 e 343 quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio ovvero il pubblico impiegato abbia dato causa al fatto preveduto negli stessi articoli, eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni».