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Demolizione non necessaria "in una società democratica" quando colpisce l’unica casa del contravventore

La Corte Europea condanna la Bulgaria ma il principio vale anche per l’Italia
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Demolizione non necessaria "in una società democratica" quando colpisce l’unica casa del contravventore

 

Abstract: Il presente contributo affronta il tema della proporzionalità della demolizione dell'unica casa di abitazione occupata da una madre con figli minori da meno di un anno, alla luce della recente sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo dell'11 aprile 2023 (Case of Simonova v. Bulgaria), e della conseguente necessità da parte del giudice italiano di una interpretazione adeguatrice non solo formale ma sostanziale ed evolutiva, in ragione della "socialità" del diritto di abitazione, annoverato tra i diritti fondamentali della persona, cui si conforma lo Stato democratico.

This legal paper addresses the issue of the proportionality of the demolition of the only house occupied by a mother with minor children for less than a year, according to the recent tuling of the European Court of Human Rights of 11 april 2023 (Case of Simonova v. Bulgaria) and the consequent need of the Italian judge for an adaptive interpretation that is not only formal but substantial and evolutionary as well, due to the "sociality" of the right to housing, counted among the fundamental rights of the person, with which the democratic State complies.  


La vicenda (Case of Simonova v. Bulgaria)

La questione principale affrontata dalla Corte europea con la interessante sentenza depositata l'11 aprile 2023 (domanda n. 30782/2016), era se un ordine di  demolizione di un "edificio costruito illegalmente" costituente "l'unica abitazione della ricorrente, una madre single, e dei suoi figli minori", fosse effettivamente "necessario in una società democratica", alla luce di quanto previsto dall'articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU), secondo cui:

<< 1. Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio (...).

2. Non può esservi ingerenza della pubblica autorità nell'esercizio di tale diritto se non in quanto costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, l'ordine pubblico, il benessere economico del paese, la prevenzione dei reati, la protezione della salute o della morale, o la protezione dei diritti e delle libertà altrui >>.

La Corte ha risolto la questione, dando ragione alla ricorrente, non mancando, tuttavia, di precisare che l'ordine di demolizione, che aveva interferito con il suo diritto al "rispetto" della abitazione, era "conforme alla legge".

Infatti, come nel caso Ivanova e Cherkezov, 21 aprile 2016, § 50 e 51, l'ordine poteva trovare giustificazione in quanto rivolto a uno scopo legittimo, ovvero quello "di non erigere edifici senza i necessari titoli edilizi", in sintonia con le esigenze di "prevenzione del disordine" e di "promozione del benessere economico del Paese" (cfr. Ivanova e Cherkezov cit.).

Nel caso esaminato, oltretutto, "l'edificio era stato quasi interamente costruito su un terreno confinante di proprietà altrui", sicché l'ordine di demolizione poteva essere valutato anche come una forma di "tutela indiretta dei diritti altrui" (Yordanova e altri, § 111, e Bagdonavicius e altri c. Russia, n. 19841/06, § 96, 11 ottobre 2016).

Ciononostante, secondo la Corte, l'ingerenza della pubblica autorità nell'esercizio, da parte della ricorrente, del diritto alla inviolabilità del proprio domicilio vi era stata eccome e non poteva ritenersi "necessaria in una società democratica" come quella del contesto in cui aveva avuto luogo: ciò perché i principi generali già affermati nella sentenza Ivanova e Cherkezov (cit. §§ 53- 55) esigono che le persone che rischiano di perdere la loro unica casa quale conseguenza della disposta demolizione ben possono "chiedere e ottenere un esame adeguato della sua proporzionalità alla luce della loro situazione individuale", pur dovendosi riconoscere che "solo in casi eccezionali queste persone potrebbero riuscire a sostenere che la demolizione sarebbe sproporzionata".

Nella specie, l'ordine di demolizione non faceva alcun accenno alla particolare situazione della ricorrente, risultando dimostrato che l'unica forma di  assistenza  sociale che le era stata  fornita era consistita nell'opera di convincimento a lasciare l'edificio di sua volontà prima della sua demolizione.

Il Tribunale, cui la ricorrente si era rivolta per ottenere tutela, nemmeno aveva approfondito la questione nel suo complesso, essendosi soltanto limitato a constatare che i servizi sociali erano stati informati, né aveva preso in considerazione tutti i fattori in grado di incidere sulla proporzionalità dell'ingerenza, bilanciando, in particolare, l'interesse della ricorrente stessa a continuare a vivere nell'edificio con i suoi figli con le considerazioni che militavano a favore della  sua demolizione (contrasto Pinnock e Walker c. Regno Unito (dec.), no. 31673/11, § 33, 24 settembre 2013).

In altri termini, il Tribunale - ha concluso la Corte - non aveva "ricevuto informazioni esaurienti su tutti questi punti quando ha deciso il caso della ricorrente", né aveva "tentato di chiarirli".

L'unica proposta concreta pare fosse stata quella di collocare temporaneamente i figli in un alloggio gestito dai servizi sociali: e tanto sebbene la ricorrente avesse lamentato che le autorità non avevano mai offerto a lei e ai suoi figli un alloggio comunale, né, peraltro, l'avevano informata della possibilità di mettersi in lista d'attesa per tale alloggio.

Inoltre, non avevano neanche verificato se i parenti presso i quali avrebbe dovuto sistemare i suoi figli potessero accettarli e a quali condizioni.

In ogni caso, era "sproporzionato" permettere che la madre venisse separata dai  suoi figli.

Non priva di rilievo era, infine, la ulteriore circostanza che la demolizione, che era stata programmata durante l'estate, era stata effettuata nel tardo autunno, lasciando la ricorrente e i  suoi figli in una situazione di emergenza, in pratica "senza un riparo durante l'inverno".  

In definitiva, vi era stata una chiara violazione dell'articolo 8 della  Convenzione, anche in ragione del fatto che, come riferito dalla commissione che aveva ispezionato l'edificio nel marzo 2014, risultava accertato che la ricorrente lo utilizzava per scopi residenziali e il periodo di quasi un anno  tra il marzo 2014 e il marzo 2015 - quando era stato emesso l'ordine di demolizione - era da considerarsi sufficientemente lungo per farne derivare che "i legami della ricorrente con l'edificio fossero sufficienti e continui, in modo da qualificarlo come la sua casa (cfr. Ivanova e Cherkezov c. Bulgaria, n. 46577/15, §§ 8, 12 e 49, 21 aprile 2016; Sharxhi e altri c. Albania, n. 10613/16, §§ 9, 11 e 112, 11 gennaio 2018; Ghailan e  altri c. Spagna, no. 36366/14, § 55, 23 marzo 2021, e contrasto Zabor c. Polonia (dec.), no. 33690/06, § 74, 7 gennaio 2014)".

Il Governo, del resto, "non aveva fornito prove che la ricorrente avesse un domicilio altrove (cfr. Gillow v. the United Kingdom, 24 novembre 1986, § 46, Series A no. 109; Prokopovich v. Russia, no. 58255/00, § 38, CEDU 2004-XI (estratti); Hasanali Aliyev e altri c. Azerbaigian, no. 42858/11, § 35, 9 giugno 2022, e contrasto Kaminskas c. Lituania, no. 44817/18, § 43, 4 agosto 2020)"; né la sua situazione poteva essere equiparata a quella dei ricorrenti nella causa Hirtu e altri c. Francia (n. 24720/13, §§ 5 e 65, 14 maggio 2020): mettere la propria roulotte su un terreno per sei mesi non è la stessa cosa che vivere per un anno in un edificio che si è  costruito.


L'orientamento consolidato della Corte EDU in materia di proporzionalità della demolizione di una “abitazione illegale” (Articolo 8  CEDU)

 La sentenza Simonova si inserisce nella scia di un orientamento ormai consolidato in materia di demolizione di una "abitazione illegale", inaugurato con la richiamata pronuncia Ivanova e Cherkezov (che ha un isolato e remoto precedente nella sentenza Moretti e Benedetti c. Italia del 2011), i cui principi generali, alla luce di quanto previsto dall'articolo 8 CEDU, la Corte ha ritenuto pienamente applicabili al caso esaminato, pur ritenendo superfluo ribadirli.

Trattandosi di orientamento consolidato, non vi è dubbio che tali principi siano vincolanti anche per il giudice italiano nei termini precisati dalle sentenze della Corte costituzionale del 26 marzo 2015, n. 49, e del 23 gennaio 2019, n. 66, cui ha fatto seguito la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione penale del 24 ottobre 2019, n. 8544, Genco.

Con tale ultima sentenza, invero, è stato chiarito che, nel sistema convenzionale, l'espansione degli effetti di una decisione della Corte EDU ad altri casi non oggetto di specifica disamina rinviene una base normativa nell'art. 61 del regolamento CEDU, per il quale, ove venga rilevata una violazione strutturale dell'ordinamento statale, in presenza di una pluralità di ricorsi di identico contenuto, é possibile adottare una sentenza "pilota", che indichi allo Stato convenuto la natura della questione sistemica riscontrata e le misure riparatorie da adottare a livello generalizzato per conformarsi al decisum della sentenza stessa, con eventuale rinvio dell'esame di tutti i ricorsi, fondati sulle medesime ragioni, in attesa dell'adozione dei rimedi indicati.

Oltre a tale strumento, viene in considerazione, sul piano normativo, anche il diverso caso, come quello di specie, in cui la pronuncia della Corte sovranazionale assume un rilievo ed una portata generali, perché, sebbene priva dei caratteri  propri  della sentenza pilota e non emessa all'esito della relativa, formalizzata procedura, accerta, comunque, una violazione di  norme convenzionali in tema di diritti della persona, suscettibile di ripetersi con analoghi effetti pregiudizievoli nei riguardi di una pluralità di soggetti diversi dal ricorrente, che, tuttavia, versano nella stessa condizione.

La nozione di sentenza a portata generale trova fondamento positivo nel comma 9 del predetto art. 61, il quale stabilisce testualmente che: «Il Comitato dei Ministri, l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa, il Segretario generale del Consiglio d'Europa e il Commissario per i diritti dell'uomo del Consiglio d'Europa sono informati sistematicamente dell'adozione di una sentenza pilota o di qualsiasi altra sentenza in cui la Corte segnali l'esistenza di un problema strutturale o sistemico all'interno di una Parte contraente».

 In tali situazioni il riscontro della violazione dei diritti individuali del soggetto che ha proposto il ricorso contiene in sé anche l'accertamento di lacune ed imperfezioni normative o di prassi giudiziarie, proprie dell'ordinamento interno scrutinato, contrarie ai precetti della Convenzione, che assumono rilevanza anche per tutti coloro che subiscano identica violazione, sicché l'obbligo di adeguamento dello Stato convenuto trascende la posizione del singolo coinvolto nel caso risolto, investendo tutti quelli caratterizzati dalla sussistenza di una medesima situazione interna a portata generale di contrarietà alle previsioni convenzionali.

La necessità dell'adeguamento trae, poi, ulteriore conferma dalla giurisprudenza della Corte EDU che, sin dalla sentenza della Grande  Camera del  13 luglio 2000  nel caso Scozzari e Giunta c. Italia, ha affermato il principio, più volte ribadito, per il quale «quando  la  Corte constata una violazione, lo Stato convenuto ha  l'obbligo  giuridico  non  solo  di versare agli interessati le somme attribuite a titolo dell'equa soddisfazione prevista dall'art. 41, ma anche di adottare le misure generali e/o, se del caso, individuali necessarie» aventi contenuto ripristinatorio, ossia quegli interventi specificamente suggeriti   dalla   Corte   EDU,   oppure   individuati   in  via   autonoma   dallo Stato condannato, purché idonei ad eliminare il pregiudizio subito dal ricorrente, che deve essere posto, per quanto possibile, in una situazione equivalente a quella in cui si troverebbe se non si fosse verificata  l'inosservanza  delle  norme della  Convenzione (in termini Corte EDU, GC, 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia;  Corte EDU,  GC, 1^ marzo 2006,  Sejdovic  c. Italia; Corte  EDU, GC, 8 aprile 2004,  Assanidze  c. Georgia).

Ulteriori significative indicazioni in tal senso provengono anche dalla giurisprudenza costituzionale, che, impegnatasi più volte nel definire i rapporti tra giudice europeo e giudice interno nell'attività di interpretazione della legge nel rispetto della gerarchia delle fonti di produzione normativa, ha assegnato valore vincolante e fondante l'obbligo conformativo per lo Stato condannato nel giudizio celebrato dinanzi la Corte sovranazionale alla  statuizione contenuta nella sentenza pilota, oppure in quella che, seppur legata alla concretezza della situazione che l'ha originata, «tenda ad assumere un valore generale e di principio» (Corte cost., sent. n. 236 del 2011; sent. n. 49 del 2015).

A fronte di tali presupposti, allo Stato membro ed al suo giudice non è consentito, dunque, negare di dar corso alla decisione adottata dalla Corte di Strasburgo e di eliminare la violazione patita dal cittadino mediante i rimedi apprestati dall'ordinamento interno. 

Qualora,  invece,  non ricorrano tali presupposti, compete al giudice interno applicare ed interpretare le disposizioni di legge, operazione da condursi in conformità alle norme convenzionali ed al significato loro attribuito dall'attività esegetica compiuta dalla Corte EDU, alla quale è rimessa una «funzione interpretativa eminente» sui diritti fondamentali, riconosciuti dalla Convenzione e dai suoi Protocolli secondo quanto previsto dall'articolo 32 CEDU, al fine di realizzare la certezza e la stabilità del diritto (Corte Cost., sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, nonché, in termini, Cass. pen., SS.UU., n. 8544 del 2019, cit.).

Va, pertanto, ribadito che, come riconosciuto anche dalla giurisprudenza nazionale, l’obbligo di osservare il principio di proporzionalità nel dare attuazione all’ordine di demolizione di un immobile illegalmente edificato, adibito ad abituale abitazione di una persona, costituisce principio rispondente all’orientamento consolidato della giurisprudenza della Corte EDU ed è applicabile, da parte del giudice italiano, "in forza di interpretazione sistematica adeguatrice" (v., in tal senso, anche Cass. pen., Sez. III, 14 dicembre 2020, n. 423, Leoni, e Cass. pen., SS. UU., 28 aprile 2016, n. 27620, Dasgupta, nonché, per la rilevabilità di ufficio della violazione dell’articolo 8 CEDU con riferimento all’ordine di demolizione di un immobile abusivo, Cass. pen., Sez. III, 8 ottobre 2021, n. 43608, Giacchini).

Ne deriva che quanto affermato dalla Corte EDU con la sentenza Simonova non possa essere ignorato dal giudice italiano, la cui interpretazione adeguatrice - si badi - non può essere solo formale, affermando, cioè, da un lato, che l'ordinamento non intende violare in astratto il diritto individuale di un soggetto a vivere nel proprio domicilio legittimo e, dall'altro, che deve essere primariamente garantito "il diritto collettivo a rimuovere la lesione di un bene (del pari) costituzionalmente tutelato, come il territorio, eliminando le conseguenze dell'abuso riscontrato", così ripristinando l'equilibrio turbato (v., sul punto, Cass. pen., Sez. III, 26 aprile 2018, n. 24882, Ferrante).

Infatti, anche nel caso Simonova, la Corte, pur dando atto che l'ordine di demolizione, che aveva interferito con il diritto della ricorrente al "rispetto" della abitazione, era "conforme alla legge", ha poi bocciato come sproporzionata e contraria all'articolo 8 CEDU la sanzione adottata nei confronti della ricorrente senza tener conto delle sue "condizioni individuali".

D'altronde, è un dato incontestabile che in Italia, in nessun caso, sino ad oggi, i giudici della esecuzione abbiano ritenuto violato l'articolo 8 CEDU in relazione ad ordini di demolizione aventi ad oggetto case di abitazione, anche di piccole dimensioni.

Per di più, le uniche, poche sentenze della Cassazione favorevoli sul tema hanno affermato la violazione, ad opera degli stessi giudici, del solo obbligo "procedurale" di valutare la proporzionalità della sanzione (Cass. pen., Sez. III, 4 novembre 2022, n, 3482, Senatore; Cass. pen., Sez. III, 17 settembre 2021, n. 34607, V.C. e R.B.; Cass. pen., Sez. III, 14 dicembre 2020, n. 423, Leoni, cit.).


La rilevanza del decorso del tempo nella valutazione della proporzionalità della sanzione

Dopo aver tracciato le coordinate ermeneutiche necessarie alla soluzione del caso, partendo dai principi affermati con la sentenza Ivanova e Cherkezov, quel che più colpisce della pronuncia in commento è la valutazione della Corte in ordine agli effetti del tempo trascorso dall'esercizio dell'attività repressiva.

La Corte, come già ricordato, evidenzia in motivazione che la commissione che aveva ispezionato l'immobile nel marzo 2014 aveva accertato che la ricorrente lo utilizzava per scopi residenziali, aggiungendo, però, che il periodo di quasi un anno  tra il marzo 2014 e il marzo 2015 - quando era stato emesso l'ordine di demolizione - era da considerarsi sufficientemente lungo per farne derivare che "i legami della ricorrente con l'edificio fossero sufficienti e continui, in modo da qualificarlo come la sua casa".

Questa è, a mio avviso, la novità più significativa e, per certi aspetti, più sorprendente della decisione, tenuto conto dell'indirizzo diametralmente opposto della giurisprudenza italiana, sia penale che amministrativa.

La maggior parte delle sentenze della Corte di Cassazione, infatti,  ha ritenuto rispettato il principio di proporzionalità, valutando il tempo a disposizione del destinatario dell’ordine di demolizione per «cercare una soluzione alternativa» (così Sez. III, 11 settembre 2019, n. 48021, Giordano, e Sez. III, 26 aprile 2018, n. 24882, Ferrante cit.).

Ha, poi, affermato Cass. pen., Sez. III, 17 settembre 2021, n. 34607, Ventre e Romeo, che il test di proporzionalità, alla luce della giurisprudenza convenzionale, va condotto “valorizzando, nel contempo, la eventuale consapevolezza della violazione della legge da parte dell’interessato, per non incoraggiare azioni illegali in contrasto con la protezione dell'ambiente, nonchè i tempi a disposizione del medesimo, dopo l’irrevocabilità della sentenza di condanna, per conseguire, se possibile, la sanatoria dell’immobile ovvero per risolvere le proprie esigenze abitative (così Sez.3, n. 423 del 14/12/2020, dep. 08/01/2021, Leoni, Rv. 280270 - 01)”.

Allo stesso modo, ancor più di recente, Cass. pen., Sez. III, 1^ marzo 2022, n. 7127, Palamaro, ha ricordato che, ai fini della valutazione del rispetto del principio di proporzionalità, un rilievo centrale assumono, da un lato, l'eventuale consapevolezza della violazione della legge nello svolgimento dell'attività edificatoria da parte dell'interessato, stante l'esigenza di evitare di incoraggiare azioni illegali in contrasto con la protezione dell'ambiente, e, dall'altro, i tempi intercorrenti tra la definitività delle decisioni giudiziarie di cognizione e l'attivazione del procedimento di esecuzione, per consentire all'interessato di "legalizzare", se possibile, la situazione e di trovare una soluzione alle proprie esigenze abitative.

Ha aggiunto che, ai fini del giudizio circa il rispetto del principio di proporzionalità, sono sicuramente rilevanti le condizioni di età avanzata, povertà e basso reddito dell'interessato; queste condizioni, però, non risultano mai essere considerate, di per sé sole, risolutive, o perché valutate congiuntamente ai tempi intercorrenti tra la definitività delle decisioni giudiziarie di cognizione e l'attivazione del procedimento di esecuzione o perché esplicitamente ritenute recessive in caso di consapevolezza dell'illegalità della edificazione al momento del compimento di tale attività e di concessione di adeguati periodi di tempo per consentire la regolarizzazione, se possibile, della situazione, e per trovare una soluzione alle esigenze abitative.

Pertanto, per quanto non sufficienti per evitare la demolizione della propria abitazione, le condizioni personali dell'interessato, pur non potendo essere ignorate dal giudicante, devono, tuttavia, essere soppesate e "trovare sede nella motivazione del suo provvedere" (...).

Nel caso Palamaro, il Giudice dell’esecuzione aveva evidenziato che il ricorrente aveva anche inviato all'amministrazione comunale istanza urgente di alloggio di edilizia popolare sul rilievo della pendenza dell’esecuzione dell’ordine di demolizione, ma, pur avendo allegato anche condizioni di salute precarie, aveva, comunque, avuto "un congruo tempo per porre rimedio alla situazione giacchè erano decorsi circa ventiquattro anni tra la definitività della decisione giurisdizionale che imponeva l’ordine di demolizione e l’attivazione del procedimento esecutivo".

La Corte di Cassazione ha condiviso, sul punto, il ragionamento del giudice dell'esecuzione, sulla base della seguente motivazione.

  "Non si può ignorare, ai fini del rispetto dei principi di matrice convenzionale sopra individuati, che il ricorrente, destinatario dell’ordine di demolizione fin dal 1998, ha usufruito nel corso di tutto il periodo trascorso tra la definitività del procedimento penale che ha disposto la demolizione e, in virtù della presentazione di una domanda di condono in assenza dei requisiti temporali, di un ulteriore periodo di godimento del bene. Non può essere sottaciuto che incombe, in primo luogo, sul destinatario l'obbligo di provvedere spontaneamente alla demolizione dell’opera abusiva e che solo in presenza di inadempienza subentra l’autorità giurisdizionale. Ora, a fronte dell’iniziativa del Pubblico Ministero, seppur a distanza di anni, il destinatario non può dolersi del tempo trascorso nel quale egli ha indebitamente fruito del bene". 

Alle medesime conclusioni della Cassazione penale è pervenuta sostanzialmente anche la giurisprudenza amministrativa che si è occupata della violazione del legittimo affidamento (in tesi pregiudicato dal notevole lasso di tempo intercorso tra la data di realizzazione dell’abuso e l’adozione del provvedimento demolitorio, lasso di tempo che, in tali casi, dovrebbe spingere l’amministrazione a sostenere con motivazione "rafforzata" l'interesse pubblico all'esercizio del potere sanzionatorio).

In sintesi, la giurisprudenza ha affermato il principio secondo cui va esclusa ogni rilevanza al passaggio del tempo in relazione all'adozione dei provvedimenti repressivi edilizi, negando che in tale materia si possa formare un affidamento tutelabile rispetto al perpetrarsi dell’abuso.

L’irrilevanza del passaggio del tempo è stata, in particolare, affermata con riferimento al lasso temporale tra la realizzazione dell’abuso e l’ordine di rimessione in pristino, ovvero per la stessa adozione della misura ripristinatoria, in quanto il provvedimento di demolizione di una costruzione abusiva, al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né, ancora, alcuna motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare (Cons. Stato, Sez. VI, 21 ottobre 2013, n. 5088; Cons. Stato, Sez. VI, 4 ottobre 2013, n. 4907), né - ancora - che l’interessato possa dolersi del fatto che l’amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi (Cons. Stato, VI, 31 maggio 2013, n. 3010; Cons. Stato, VI, 11 maggio 2011, n. 2781).

In presenza di abusi edilizi, vi è pur sempre un soggetto che pone in essere un comportamento contrastante con le prescrizioni dell’ordinamento, confidando nell’omissione dei controlli o comunque nella persistente inerzia dell’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza.

Va da sé che, in tali casi, il fattore tempo di certo "non agisce in sinergia con l’apparente legittimità dell’azione amministrativa favorevole, a tutela di un’aspettativa conforme alle statuizioni amministrative pregresse" (Cons. Stato, Sez. VI, 21 ottobre 2013, n. 5088; Cons. Stato, Sez. VI, 4 ottobre 2013, n. 4907; Cons. Stato, IV, 4 maggio 2012, n. 2592).

Di affidamento meritevole di tutela si può parlare solo ove il privato, il quale abbia correttamente e in senso compiuto resa nota la propria posizione all’amministrazione, venga indotto da un provvedimento di quest'ultima a ritenere come legittimo il suo operato, non già nel caso in cui sia stato commesso un illecito all’insaputa della stessa (Cons. Stato, Sez. IV, 15 settembre 2009, n. 5509).

Tale orientamento ha, in seguito, ricevuto l’autorevole avallo dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (sentenza del 17 ottobre 2017, n. 9), secondo la quale il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo, non richiede, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, specifica motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legalità violata) che impongono la rimozione dell’abuso.

Il principio in questione - secondo l'Adunanza Plenaria - non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino.


La natura della sanzione demolitoria: sanzione amministrativa ripristinatoria o pena accessoria soggetta a prescrizione?

La giurisprudenza della Cassazione penale italiana, in una a quella dei giudici di merito, ritiene, con orientamento granitico, che l'ordine di demolizione abbia natura amministrativa, configurandosi, per l'esattezza, quale "sanzione accessoria oggettivamente amministrativa, sebbene soggettivamente giurisdizionale", esplicazione, peraltro, di un potere autonomo e non alternativo a quello dell'autorità amministrativa, con il quale può essere coordinato nella fase della esecuzione  (Sez. III, 22 settembre 2016, n. 55295, Fontana; Sez. III, 11  dicembre 2013, n. 3685, Russo; Sez. VI, 10 marzo 1994, n. 6337, Sorrentino; SS.UU. 19 giugno 1996, n. 15, Monterisi).

Stante la natura amministrativa dell'ordine di demolizione, la stessa giurisprudenza ha costantemente escluso l'estinzione della sanzione per il decorso del tempo, ai sensi  dell'articolo  173  c.p.,  la quale  si  riferisce alle sole  pene  principali  e,  comunque, non alle sanzioni amministrative (fra le tante, Sez. III, 17 febbraio 2022, n. 763, Reggio; Sez. III, 10 novembre 2015, n. 49331, Delorier; Sez. III, 7 luglio 2015, n. 36387, Formisano; Sez. III, 10 novembre 2020, n. 43006, La Mela).

È stata negata, altresì, l'estinzione per la prescrizione quinquennale delle sanzioni amministrative, stabilita dall'articolo 28 della legge 24 novembre 1981, n. 689, in quanto riguardante le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva, mentre l'ordine di demolizione integra una sanzione  "ripristinatoria", che configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio (Sez. III, 7 luglio 2015, n. 36387, Formisano, cit., Sez.  III, 18 febbraio 2003, n, 16537, Filippi).

Sulla scorta di tale ricostruzione, è stata anche dichiarata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per violazione degli articoli 3 e 117 Cost., dell'articolo 31 del d.P.R. del 6 giugno 2001, n. 380, per mancata previsione di un termine di prescrizione dell'ordine di demolizione del manufatto abusivo disposto con la sentenza di condanna, in quanto le caratteristiche di detta sanzione amministrativa - che assolve a una funzione ripristinatoria del bene leso, configura un obbligo  di fare per ragioni di tutela del territorio e non ha finalità punitive dato il suo carattere reale, nel senso che produce effetti sul soggetto che si trova in rapporto con il bene, anche se non è l'autore dell'abuso - non consentono di ritenerla "pena" nel significato attribuitole dalla giurisprudenza della Corte EDU, con la conseguenza che è da escludere sia la irragionevolezza della disciplina che la riguarda, rispetto a quella delle sanzioni penali soggette a prescrizione, sia una violazione del parametro interposto di cui all'art. 117 Cost. (così Cass. pen., Sez. III, 27 febbraio 2022, n. 7631, Reggio, cit., nonché Cass. pen., Sez. III, 3 maggio 2016, n. 41475, Porcu).

A diversa conclusione è, tuttavia, approdata la Corte EDU, la quale, con sentenza del 27 febbraio 2008 (in causa Hamer c. Belgio), nella quale si controverteva della legittimità “convenzionale” della esecuzione di un provvedimento sanzionatorio a distanza di 27 anni dalla data della “scoperta dell’abuso”, ha affermato che l’ordine di demolizione per un abuso edilizio costituisce, con certezza, sanzione penale allorquando la sua esecuzione intervenga a distanza di numerosi anni a far data dall’accertamento del fatto e “non sia stata acquisita alcuna prova per dimostrare che in ogni fase del procedimento il richiedente abbia ostacolato il regolare svolgimento delle indagini (...).

La Corte EDU, con tale sentenza, ha innanzitutto confermato l'autonomia del concetto di "accusa penale" nell'articolo 6 della CEDU, precisando che tre sono i criteri che devono essere presi in considerazione per valutare se qualcuno è accusato di aver commesso un atto "criminale": in primo luogo, la classificazione del reato nel diritto nazionale, quindi la natura del reato e infine la natura e gravità della sanzione che l'interessato rischia. Su questa base, la Corte è giunta alla decisione che una misura per procedere alla demolizione dovrebbe effettivamente essere considerata come una "punizione" alla luce della CEDU.

Più specificamente, nel caso esaminato, la Corte ha accertato che, dal rapporto ufficiale del febbraio 1994, il proprietario era stato perseguito in relazione al mantenimento in sito di una costruzione illegale. Il procedimento aveva avuto  una durata compresa tra 8 e 9 anni, di cui più di 5 anni impiegati per il solo periodo delle indagini, che, secondo la Corte, non presentavano nemmeno aspetti di  particolare complessità.

La Corte ha, dunque, accertato che vi era stata effettivamente una violazione dell'articolo 6 della CEDU, come lamentato dalla ricorrente, e che il termine ragionevole era stato superato.

In proposito, va sottolineato che la Corte EDU ha anche affermato che l’esecuzione di una decisione giudiziaria non può essere impedita, inficiata o ritardata in maniera eccessiva (cfr. le sentenze Burdov c. Russia, 7 maggio 2002; Immobiliare Saffi c. Italia, 28 luglio 1999, e Hornsby c. Grecia, 19 marzo 1997), “essendo lo Stato interno tenuto a garantire l’esecuzione delle decisioni pronunciate dai Tribunali, all’uopo dotandosi di un arsenale giuridico adeguato e sufficiente ad assicurare il rispetto delle obbligazioni positive che su di lui incombono”.

Astenendosi, infatti, per un lungo periodo di tempo dal prendere le misure necessarie al fine di eseguire la decisione giudiziaria definitiva ed esecutiva, l’autorità procedente finisce per “privare di ogni effetto utile l’articolo 6 § 1 della Convenzione”, per il quale "ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata ... entro un termine ragionevole".

In ambito penale, peraltro, lo scopo di tale disposizione è quello di “garantire che l'interessato non sia costretto a rivestire la qualità di imputato troppo a lungo e che l'accusa elevata nei suoi confronti venga decisa in tempi, per l'appunto, ragionevoli” (Wemhoff v. Germany, § 18; Kart v. Turkey [GC], § 68).

Il periodo di tempo rilevante ai fini della determinazione della "ragionevole durata" va, comunque, calcolato - secondo la Corte EDU - a partire dal giorno in cui l'interessato viene formalmente accusato (Neumeister v. Austria § 18).

Con specifico riferimento alla durata del processo penale, la Corte ha anche chiarito che il lasso di tempo preso in considerazione dall'articolo 6 copre, di fatto, l'intero procedimento (Kónig v. Consiglio d'Europa / Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, Germany, § 98), incluso il giudizio di appello (Delcourt v. Belgium, §§ 25-26; Kónig v. Germany, § 98; v. the United Kingdom [GC], § 109).

Ne deriva che anche l'esecuzione delle sentenze deve essere considerata parte integrante del processo penale ai fini dell'articolo 6 (Assanidze v. Georgia [GC], § 181).

Ed infatti, “le garanzie previste dalla norma in parola sarebbero illusorie se i sistemi giudiziari ed amministrativi degli Stati Contraenti consentissero che una sentenza definitiva e vincolante (...) potesse rimanere ineseguita” a detrimento della persona interessata o anche di quella nella cui sfera soggettiva debbano riverberarsi i suoi effetti negativi in violazione del principio dell’affidamento incolpevole.

La Corte EDU, nel procedimento Burdov c. Russia, ha anche precisato che il diritto all’equo processo di cui all’articolo 6 § 1 è posto a garanzia, oltre che del corretto svolgimento del processo, anche dell’effettività della sua fase esecutiva.

Inoltre, la ragionevolezza della durata dei procedimenti deve essere determinata alla luce delle circostanze del caso concreto e nell'ottica di una valutazione complessiva (Boddaert v. Belgium, § 36).

Del resto, sebbene alcuni stati e gradi del procedimento siano stati, di per sé, trattati in tempi rapidi, la durata complessiva del procedimento potrebbe comunque eccedere i limiti della ragionevolezza (Dobbertin v. France, § 44).

D'altronde, l'articolo 6 non impone, sic et simpliciter, che i procedimenti giudiziari siano spediti, ma implica anche il più generale principio della corretta amministrazione della giustizia.

Occorre dunque sempre effettuare un equo bilanciamento tra i vari aspetti di tale fondamentale diritto (Boddaert v. Belgium, § 39).

In ogni caso, l’articolo 6 § 1 non impone nemmeno all’esecutato di cooperare attivamente con le autorità giudiziarie, prevedendo, comunque, che gli Stati Contraenti assolvano l'onere di organizzare il proprio sistema giudiziario in maniera tale che le corti nazionali possano rispettare tutti i requisiti ivi previsti (Abdoella v. the Netherlands, § 24; Dobbertin v. France, § 44).

Infine, sebbene un temporaneo carico di lavoro arretrato non implichi, di per sé, la responsabilità degli Stati, a condizione che questi adottino misure adeguate, efficaci e rapide per affrontare una tale situazione eccezionale (Milasi v. Italy, § 18; Baggetta v. Italy,§ 23), il grande carico di lavoro e le misure adottate allo scopo di porvi rimedio sono stati elementi che la Corte ha raramente considerato decisivi (Eckle v. Germany, § 92).


Considerazioni finali

 Tirando le fila del ragionamento, ritengo che, pur avendo la giurisprudenza nazionale ripetutamente affermato che non può essere invocato un assoluto diritto alla casa (che avrebbe un carattere così ampio ed assorbente da superare sempre e comunque - vanificandola del tutto - ogni prescrizione amministrativa o penale in punto di edificabilità dei suoli e tutela del territorio) o un generico diritto alla vita privata e familiare, possa convenirsi sul fatto che la demolizione di un'abitazione, trattandosi di misura particolarmente invasiva, debba formare oggetto, prima di essere portata ad esecuzione, di un approfondito e rigoroso scrutinio sotto il profilo della proporzionalità.   

Infatti, come sottolineato dalla Corte EDU, un conto è proteggere il diritto meramente economico di chi costruisce violando la normativa edilizia ed un altro conto è assicurare che la prima ed unica casa di una persona in difficoltà economica o in una condizione di salute precaria non venga demolita con leggerezza .

E tanto anche perché il giudice delle leggi ha espressamente riconosciuto che:

“Il diritto a una abitazione dignitosa rientra, innegabilmente, fra i diritti fondamentali della persona” (Corte cost., 2 aprile 1999, n. 119).

“Il diritto all'abitazione rientra fra i requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione. Creare le condizioni minime di uno Stato sociale, concorrere a garantire al maggior numero di cittadini possibile un fondamentale diritto sociale, quale quello all'abitazione, contribuire a che la vita di ogni persona rifletta ogni giorno e sotto ogni aspetto l'immagine universale della dignità umana, sono compiti cui lo Stato non può abdicare in nessun caso.” (Corte cost., 25 febbraio 1988, n. 217).

È doveroso da parte della collettività intera impedire che le persone possano rimanere prive di abitazione” (Corte cost. 17 febbraio 1987, n. 49).

 “Indubbiamente l'abitazione costituisce, per la sua fondamentale importanza nella vita dell'individuo, un bene primario il quale deve essere adeguatamente e concretamente tutelato dalla legge” (Corte Cost., 15 luglio 1983, n. 252).

In conclusione, il diritto all'abitazione, pur non volendolo considerare assoluto, è pur sempre un diritto sociale, collocabile fra i diritti inviolabili dell'uomo, poiché, esprimendo il dovere di solidarietà sociale, connota la stessa forma costituzionale dello Stato sociale.

L'abitazione, peraltro, è "il luogo degli affetti, degli interessi e delle abitudini in cui si esprime la vita familiare e si svolge la continuità delle relazioni domestiche, centro di aggregazione e di unificazione dei componenti del nucleo, complesso di beni funzionalmente organizzati per assicurare l'esistenza della comunità familiare" (Cass., SS.UU. civ., 21 luglio 2004, n. 13603; Cass., Sez. III civ., 10 aprile 2019, n. 9990).

Il diritto al rispetto della propria casa ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione tocca inevitabilmente anche questioni di importanza fondamentale per l’integrità fisica e morale dell’individuo, il mantenimento delle relazioni con gli altri e un posto stabile e sicuro nella comunità.

È, pertanto, innegabile che l'esercizio del bilanciamento in base a tale disposizione, "nei casi in cui l’interferenza consista nella perdita della sola casa di una persona, sia di un ordine diverso, con un significato particolare che si riferisce alla portata dell’intrusione nella sfera personale degli interessati" (Corte Edu, Connors, § 82).

È tempo, dunque, che il legislatore nazionale affronti, con la giusta serenità, il problema delle demolizioni, che, comunque, avvengono, nel nostro paese, a macchia di leopardo e senza alcun criterio logico o cronologico, senza farsi condizionare da falsi ideologismi, guardando, appunto, alla giurisprudenza europea per garantire la soluzione migliore e realizzare il giusto contemperamento tra attività repressiva, valori da salvaguardare e diritto alla inviolabilità del domicilio.

L'obbiettivo, in una società democratica come la nostra, basata sul primato della Costituzione e sulla tutela dei diritti fondamentali, è irrinunciabile.