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Uomini che odiano le donne e istituzioni che non le proteggono

Nota a Corte EDU, prima sezione, causa DG c. Italia, sentenza del 16 giugno 2022
women at work
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Premessa

La prima sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo (di seguito Corte EDU) ha definito con sentenza del 16 giugno 2022 la controversia DG c. Italia (ricorso n. 23735/2019), dichiarando che lo Stato convenuto ha violato l’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (di seguito CEDU).

 

Il ricorso

La ricorrente (di seguito anche SDG) ha convenuto dinanzi la Corte EDU la Repubblica italiana, imputandole la violazione degli artt. 3 e 8 della CEDU per non avere ricevuto la protezione e l’assistenza dovute a fronte delle violenze domestiche che le sarebbero state inflitte dal marito (di seguito anche LB).

Dal ricorso si apprende che SDG sposò LB assieme al quale procreò tre figli.

Si separarono nel 2013 e il marito iniziò a perseguitarla con molestie e minacce.

Si rinvia alla sentenza per la riassunzione dei molteplici episodi di violenza che, secondo SDG, a partire da allora la videro vittima, delle sue denunce alle varie autorità istituzionali competenti e delle risposte deludenti e minimizzatrici ricevute da queste.

 

La risposta della Corte EDU

a. La dedotta violazione dell’art. 3 CEDU

…In punto di ricevibilità del ricorso

Il Governo italiano ha eccepito l’irricevibilità del ricorso sotto il profilo del mancato esaurimento delle vie interne di ricorso, osservando che la ricorrente non aveva proposto opposizione avverso la richiesta di archiviazione presentata dalla procura nel 2016, e non aveva né avviato un'azione civile contro LB, né proposto un ricorso ai sensi della legge Pinto per lamentare la eccessiva durata del procedimento istruttorio ed aggiungendo che le è possibile costituirsi parte civile nel procedimento penale a carico di suo marito.

La Corte ha rilevato anzitutto che la ricorrente ha proposto opposizione avverso la richiesta di archiviazione parziale presentata dalla procura (si veda il paragrafo 24 supra), e che non poteva costituirsi parte civile, poiché il procedimento era ancora pendente e si trovava nella fase delle indagini preliminari al momento della presentazione del ricorso. Riguardo a un'eventuale azione di responsabilità civile contro LB o un ricorso riguardante la eccessiva durata delle indagini, ha aggiunto che la prima avrebbe potuto portare al versamento di un risarcimento ma non all'azione penale nei confronti del responsabile degli atti di violenza domestica (azione penale che, ai sensi della legge italiana, per i reati in questione può essere avviata solo dal giudice dopo l'indagine del procuratore). Pertanto, queste azioni non sarebbero state di natura tale da consentire allo Stato di adempiere all'obbligo procedurale che l'articolo 3 gli impone in materia di indagini su tali atti di violenza.

Ha quindi dichiarato ricevibile il ricorso.

 

…Nel merito

Dopo avere preso come di consueto in rassegna le opposte considerazioni delle parti ed esposto la propria giurisprudenza pertinente al caso controverso, la Corte EDU ha ritenuto anzitutto che il trattamento complessivamente inflitto a SDG dal marito abbia oltrepassato il livello minimo di gravità richiesto dall’art. 3.

Ha di seguito ricordato che “spetta alle autorità nazionali adottare delle misure di protezione di una persona la cui integrità fisica o psicologica è minacciata dagli atti criminali di un suo familiare o del suo partner e che “L’ingerenza delle autorità nella vita privata e familiare può divenire necessaria per proteggere la salute e i diritti di una vittima o per prevenire degli atti criminali in alcune circostanze”, specificando inoltre che le predette autorità, quand’anche non siano rimaste totalmente passive, non sono giustificabili se non hanno comunque rispettato gli obblighi ad esse imposti ai sensi dell’articolo 3, in quanto le misure da esse adottate non hanno impedito all’aggressore di perpetrare nuove violenze contro la vittima.

Gli obblighi positivi di intervento comportano, in primo luogo, l’obbligo di mettere in atto un quadro legislativo e regolamentare di protezione; in secondo luogo, in alcune circostanze ben definite, l’obbligo di adottare delle misure operative per proteggere delle persone ben precise da un rischio di trattamenti contrari a tale disposizione; e, in terzo luogo, l’obbligo di condurre un’indagine effettiva su delle accuse difendibili relative all’inflizione di tali trattamenti. In generale, i primi due aspetti di questi obblighi positivi sono definiti «materiali», mentre il terzo corrisponde all’obbligo positivo «procedurale» che spetta allo Stato.

Più nel dettaglio: a) le autorità devono reagire immediatamente alle denunce di violenza domestica; b) quando tali denunce vengono portate a loro conoscenza, le autorità devono accertare se esista un rischio reale e immediato per la vita altrui delle vittime di violenza domestica che sono state identificate e, per farlo, devono compiere una valutazione del rischio che sia autonoma, proattiva ed esaustiva; esse devono tenere debitamente conto del contesto particolare dei casi di violenza domestica nel valutare il carattere reale e immediato del rischio; c) non appena tale valutazione evidenzia l’esistenza di un rischio reale e immediato per la vita altrui, le autorità hanno l’obbligo di adottare misure operative preventive; tali misure devono essere adeguate e proporzionate al livello di rischio rilevato.

Premessi questi principi giurisprudenziali, la Corte ha ritenuto in via generale che il quadro giuridico italiano era idoneo ad assicurare una protezione contro atti di violenza che possono essere commessi da privati in una determinata causa e che l’ampia serie di misure giuridiche e operative disponibili nel sistema legislativo nazionale offriva alle autorità interessate una varietà sufficiente di possibilità adeguate e proporzionate rispetto al livello di rischio esistente nel caso di specie.

Ha per contro ritenuto che, mentre i carabinieri hanno reagito senza indugio alle denunce presentate dalla ricorrente nel novembre 2015, e sono intervenuti durante i litigi e in occasione degli episodi violenti, i procuratori, invece, informati più volte dai carabinieri, non hanno chiesto al GIP la misura di protezione richiesta dai carabinieri e non hanno condotto un’indagine rapida e effettiva, dato che sette anni dopo i fatti il procedimento è ancora pendente in primo grado per l’aggressione del 20 novembre 2015; l’indagine per i fatti denunciati tra il 2016 e il 2017 è ancora pendente e, invece, non è stata condotta alcuna indagine a seguito dei maltrattamenti segnalati dai servizi sociali nel 2018.

Ne ha tratto la conclusione che la procura competente avrebbe potuto e dovuto condurre indagini ben più rapide.

Ha ancora ricordato che, nel febbraio 2018, dopo la segnalazione fatta dai servizi sociali dei maltrattamenti subiti dai minori (che la ricorrente aveva riportato varie volte nelle sue precedenti denunce), non è stata condotta alcuna misura di indagine, dato che i minori non sono stati sentiti e che LB non è stato a tutt’oggi oggetto di alcuna indagine per il reato di maltrattamenti.

Ha quindi considerato che, anche se i carabinieri hanno proceduto a una valutazione del rischio autonoma, proattiva ed esaustiva tenendo debitamente conto del contesto particolare delle cause in materia di violenza domestica, chiedendo delle misure di protezione, alla luce della presunta esistenza di un rischio reale e immediato per la vita della ricorrente e dei suoi figli, il procuratore che aveva il compito di valutare tali richieste non ha dimostrato la particolare diligenza necessaria al fine di reagire immediatamente alle accuse di violenza domestica formulate dalla ricorrente.

La stessa valutazione negativa ha fatto riguardo alla valutazione di rischi, osservando che: “Le autorità non hanno mai seguìto una procedura di valutazione dei rischi della situazione della ricorrente e di quella dei suoi figli. I procuratori non hanno dimostrato, nell'esaminare le denunce della ricorrente, di aver preso coscienza del carattere e della dinamica specifici della violenza domestica, sebbene fossero presenti tutti gli indizi, ossia, in particolare, lo schema di escalation delle violenze subite dalla ricorrente (e dai suoi figli), l’aggressione del 20 novembre 2015, le minacce proferite e le molestie. Le autorità non hanno considerato che, trattandosi di una situazione di violenza domestica, le denunce meritavano un intervento attivo: al contrario, le denunce sono state considerate poco dettagliate e non sono stati sentiti i minori nonostante le molteplici segnalazioni della ricorrente relative ai maltrattamenti che questi ultimi subivano […] Anche se è vero che la Corte non può mettere in discussione il fatto che delle misure di protezione potessero essere applicate solo in caso di convivenza, come ha affermato il tribunale civile di P., essa osserva che questo stesso tribunale, al quale si era rivolta la ricorrente, ha sottovalutato la situazione, negando la misura di protezione richiesta (paragrafo 22 supra) ritenendo che si trattasse di una situazione tipica di un conflitto all’interno di una coppia che si stava separando. Le autorità non hanno messo in atto misure di protezione nonostante tali misure fossero state richieste dai carabinieri. I rischi di violenza ricorrente non sono stati correttamente valutati né presi in considerazione”.

La Corte ha proseguito riconoscendo che “le autorità nazionali sapessero o avrebbero dovuto sapere che sussisteva un rischio reale e immediato di violenza ricorrente a causa delle violenze commesse da LB, e che le stesse avessero l’obbligo di valutare il rischio che tali violenze si ripetessero e di adottare delle misure adeguate e sufficienti per proteggere la ricorrente e i suoi figli” e che “di fronte alle denunce di escalation delle violenze domestiche che formulava la ricorrente, le autorità non abbiano dimostrato la diligenza richiesta. Esse non hanno proceduto a una valutazione del rischio di maltrattamenti che avrebbe caratterizzato in modo specifico il contesto delle violenze domestiche, e in particolare la situazione della ricorrente e dei suoi figli, e che avrebbe giustificato l’adozione di misure preventive concrete allo scopo di proteggerli da un tale rischio. Pertanto, essa ritiene che le autorità si siano sottratte al loro obbligo positivo derivante dall’articolo 3 di proteggere la ricorrente e i minori dalle violenze domestiche commesse da LB”.

Quanto all’obbligo di condurre un’indagine effettiva “La Corte considera che lasciare la ricorrente da sola in una situazione di violenza domestica accertata equivale per lo Stato a sottrarsi al proprio obbligo di indagare su tutti i casi di maltrattamento […] rammenta su questo punto che il semplice passare del tempo può nuocere all’indagine e comprometterne definitivamente le possibilità di esito positivo […] rammenta anche che il tempo che passa intacca inevitabilmente la quantità e la qualità delle prove disponibili e che, inoltre, l’apparenza di una mancanza di diligenza solleva un dubbio sulla buona fede con la quale sono condotte le indagini e fa perdurare le sofferenze che subiscono i denuncianti […] e ritiene conclusivamente che […] lo Stato si sia sottratto al suo dovere di indagare sui maltrattamenti subiti dalla ricorrente [e dai suoi figli] e che anche il modo in cui le autorità interne hanno condotto l’azione penale nella presente causa dimostra una passività giudiziaria e non si può considerare tale da soddisfare le esigenze dell’articolo 3 della Convenzione

La Corte ha pertanto ritenuto che vi sia stata violazione degli aspetti materiali e procedurali dell’articolo 3 della Convenzione.

 

b. La dedotta violazione dell’art. 8 CEDU

La Corte, “Avendo già concluso che vi è stata violazione dell’articolo 3 della Convenzione (paragrafo 90 supra), […] ritiene che non sia necessario esaminare gli stessi fatti dal punto di vista di tale disposizione”.

 

Il fenomeno della violenza contro le donne

L’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ha acceso da molti anni un riflettore sul grave fenomeno della violenza contro le donne.

I risultati, costantemente aggiornati, della sua attività di ricerca e classificazione sono disponibili a questo link, dal quale si accede a una ricca sezione di dati.

Ne fa parte anche un report in forma di slide curato da Maria Giuseppina Muratore, dal titolo “Un viaggio nel sistema informativo sulla violenza contro le donne attraverso i dati”, reperibile a questo link.

Il report è stato curato nell’ambito del convegno scientifico “Conoscere per decidere: l’attuazione del piano nazionale sulla violenza contro le donne attraverso i dati”, tenuto il 23 marzo di quest’anno.

Nella quinta slide del report si legge questo:

La violenza è:

  • un fenomeno grave, diffuso e trasversale tra i diversi status sociali;
  • le donne difficilmente guardano alla violenza subita come ad un crimine, anche in presenza di ferite
    •  più frequentemente è considerata come solo qualcosa che è accaduto
    • molte giovani che subiscono lo stupro dal fidanzato non lo riconoscono come reato
  • la violenza si perpetua…. da genitori a figli: è elevata la trasmissione intergenerazionale della violenza;
  • si è socializzati alla normalità della violenza;
  • le donne spesso non parlano con nessuno della violenza subita e poche denunciano alle forze dell’ordine;
  • parlare della violenza aiuta ad uscire dalla violenza e soprattutto aiuta rivolgersi alle istituzioni”.

Tesi pienamente condivisibili, considerando peraltro i ripetuti episodi criminali che le cronache ci propongono con allarmante continuità, e tali da ritenere la violenza contro le donne un’emergenza nazionale.

Il report ci dice che le donne fanno fatica a considerare la violenza come tale, non parlano e denunciano poco e che bisognerebbe che lo  facciano di più, rivolgendosi alle istituzioni e chiedendo aiuto.

È un auspicio condivisibile ma difficilmente realizzabile se non si capiscono le ragioni di quella fatica e di quella sfiducia.

Il caso oggetto della sentenza che ha dato spunto a questo scritto offre una buona spiegazione di entrambe e interpella e inquieta la coscienza di ognuno di noi.