Diritto alla riservatezza: nascita ed evoluzione giurisprudenziale in Italia
Diritto alla riservatezza: nascita ed evoluzione giurisprudenziale in Italia
INTRODUZIONE
Questo lavoro affronta il tema del diritto alla riservatezza attraverso le sentenze con cui, a partire dagli anni cinquanta, la giurisprudenza italiana comincia a delineare e a prendere coscienza dell'esistenza del diritto stesso, fino ad arrivare agli anni settanta in cui il diritto alla riservatezza ottiene espresso riconoscimento.
Donne e uomini del ventunesimo secolo sono abituati a fare i conti con un termine ormai conosciuto, abusato, ma soprattutto sottovalutato: si fa riferimento al concetto di privacy. Nozione che, oggi, di certo impregna qualsiasi rapporto con gli strumenti messi a disposizione dalle nuove tecnologie. Social network, GPS, smartphone, App: sono solo alcuni dei mezzi che ci permettono di restare in contatto anche se ci si trova in zone opposte del globo o di fare acquisti senza lasciare la comodità del proprio divano; di facilitare il lavoro di professionisti di ogni settore; perfino di non sbagliare destinazione durante un viaggio. Tutti strumenti adoperati ogni giorno da milioni di persone, che però mettono a rischio la nostra privacy: ossia i nostri dati personali, le nostre preferenze, le nostre stesse scelte di vita.
PRIVACY E RISERVATEZZA
Ma come nasce, nel nostro ordinamento il concetto di privacy?
Il concetto di privacy è un concetto nato oltreoceano: apparso per la prima volta nel 1890 in un saggio, pubblicato dall’Harvard Law Review, intitolato “The Right to Privacy. The Implicit Made Explicit” [1] ad opera dei giuristi statunitensi Samuel Warren e Louis Brandeis che formularono il “the right to be let alone”: ossia il diritto ad essere lasciati soli nella propria sfera domestica [2].
Nell’ordinamento italiano il concetto di privacy o, meglio, di riservatezza, non corrisponde a quel “right to privacy” di cui abbiamo appena detto, né si può affermare che i giuristi italiani ragionarono sul diritto alla riservatezza partendo dal saggio di Warren e Brandeis. Più in generale, si può affermare che l’analisi della dottrina non si rivolse né alla dottrina né alla giurisprudenza d’oltreoceano. Non solo, ma la dottrina italiana si è occupata della tutela da apprestare al diritto alla privacy solo negli anni Cinquanta e Sessanta dello scorso secolo.
Nel silenzio del legislatore sull’esistenza o meno di un diritto alla riservatezza, è la giurisprudenza a colmare la lacuna.
1953 – TRIBUNALE DI ROMA
La prima sentenza ad asserire sull’esistenza del diritto alla riservatezza è una pronuncia del 1953 del Tribunale di Roma in cui si afferma che il diritto alla riservatezza “si concretizza nel divieto di qualsiasi ingerenza estranea nella sfera della vita privata della persona e di qualsiasi indiscrezione da parte di terzi, su quei fatti o comportamenti personali che, non pubblici per loro natura, non sono destinati alla pubblicità delle persone che essi riguardano”[3].
Il caso riguardava la libertà di espressione artistica, e nello specifico si trattava di una controversia in materia cinematografica riguardante il film “Leggenda di una voce” dedicato alla vita di Enrico Caruso, tenore napoletano, che era stato girato senza il previo consenso degli aventi diritto, che lamentavano la divulgazione di fatti (di cui alcuni non veri) idonei a ledere la riservatezza del cantante[4].
Il Tribunale di Roma evidenziava la possibilità di applicare, per analogia, la legislazione sul diritto all’immagine, nonostante il riconoscimento del diritto alla riservatezza.
All’indomani della pronuncia del Tribunale, Giovanni Pugliese pubblicava sulla rivista Il Foro italiano un articolo intitolato “Il preteso diritto alla riservatezza e le indiscrezioni cinematografiche”[5] nel quale criticava fortemente sia l’affermazione dell’esistenza di un dritto alla riservatezza (a causa dell’assenza di un fondamento normativo autonomo), sia i sostenitori di tale diritto.
A questa critica del pensiero del Tribunale di Roma ribatteva De Cupis, in un articolo pubblicato nella stessa rivista, intitolato “Il diritto alla riservatezza esiste”[6].
Nel 1956 la Corte di Cassazione si pronuncia sul caso affrontato solo tre anni prima dal Tribunale di Roma affermando che “nessuna disposizione di legge autorizza a ritenere che sia stato sancito, come principio generale, il rispetto assoluto della intimità della vita privata”[7]: la Corte sottolineava come la “privatezza non riceve protezione, salvo che l’operato dell’agente, offendendo l’onore, o il decoro o la reputazione della persona, ricada nello schema generale del fatto illecito”[8].
1963 – CORTE DI CASSAZIONE
Con la sentenza del 1963 la Corte di Cassazione torna sul tema e questa volta emana una sentenza che cambiò l’iniziale posizione sul diritto alla riservatezza[9]. La causa era stata intentata dai congiunti di Claretta Petacci, l’amante di Benito Mussolini, contro il settimanale “Tempo” che si era macchiato della pubblicazione di diversi articoli in cui venivano divulgati, in maniera dettagliata, particolari della relazione amorosa della donna con il Duce.
Nella sentenza si legge: “Sebbene non sia ammissibile il diritto tipico alla riservatezza, viola il diritto assoluto di personalità, inteso quale diritto erga omnes alla libertà di autodeterminazione nello svolgimento della personalità dell’uomo come singolo, la divulgazione di notizie relative alla vita privata, in assenza di un consenso almeno implicito, ed ove non sussista, per la natura dell’attività svolta dalla persona e del fatto divulgato, un preminente interesse pubblico di conoscenza”[10].
1975 – CORTE DI CASSAZIONE
Ma è stato con la sentenza n. 2129 del 1975 – il c.d. Caso Soraya - che la Suprema Corte rivoluziona il precedente pensiero sul tema giungendo finalmente ad una definizione esaustiva di un diritto alla riservatezza che viene, adesso, visto come diritto autonomo. Il caso riguardava l’ex-imperatrice di Persia - Soraya Esfandiari[11] – ripudiata e in esilio, che era stata ritratta in atteggiamenti intimi con un uomo, da alcune foto scattate mentre si trovava a Roma all’interno della sua villa. La Suprema Corte, in questo caso, ha affermato che «Il nostro ordinamento riconosce il diritto alla riservatezza, che consiste nella tutela di quelle situazioni e vicende strettamente familiari e personali le quali, anche se verificatesi fuori del domicilio domestico, non hanno per i terzi un interesse socialmente apprezzabile, contro le ingerenze che, sia pure compiute con mezzi leciti, per scopi non esclusivamente speculativi e senza offesa per l’onore, la reputazione o il decoro, non sono giustificate da interessi pubblici preminenti»[12].
Il diritto alla riservatezza ottenne così totale riconoscimento dalla giurisprudenza italiana e la sentenza divenne un leading case.
PRIVACY IN AMBITO EUROPEO
Per cogliere la creazione, e il successivo sviluppo, in Italia del diritto alla riservatezza, bisogna tenere conto anche delle normative europee. In particolare, occorre fare riferimento alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e all'Unione Europea.
Sul piano europeo un ruolo preminente nella protezione della privacy l’ha avuta la CEDU: Convenzione internazionale centrale nell’ambito della tutela e l’affermazione dei diritti in essa contenuti, adottata in seno al Consiglio d’Europa e firmata a Roma nel 1950. Prima ancora della nascita della CECA[13] e quando ancora l’Europa era divisa dalla cortina di ferro, la Convenzione già sanciva, come diritto fondamentale, il diritto alla privacy.
L’art. 8 c.1 sancisce il diritto di ogni persona alla vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza.
Al c.2, invece, esclude qualsiasi ingerenza dell’autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui. L’interpretazione che la Corte EDU ha dato della norma nel caso Niemietz contro Germania[14] è volta ad estendere al massimo le tutele garantite dall’art. 8: è così che si fa rientrare nell’ambito del diritto alla vita privata anche il diritto a stabilire relazioni con altri essere umani, e che l’ambito della norma ricomprende tutte le attività di natura professionale o commerciale svolte dalla persona, poiché “è nel corso della propria vita lavorativa che la maggior parte delle persone ha una possibilità significativa di sviluppare relazioni con il mondo esterno”[15].
Il principio espresso all’art. 8 della CEDU sarà ribadito solo molto più tardi: nel 2000 a Nizza le istituzioni europee proclamano la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che all’art. 7, rubricato “Rispetto della vita privata e della vita familiare” afferma che “Ogni individuo ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e delle sue comunicazioni”[16].
Infatti, la prima affermazione del diritto alla privacy nell’Unione Europea si dovrà attendere fino al 1995, anno in cui la Comunità Europea approva la direttiva 95/46/CE in materia di dati personali, ma il cui obiettivo era opposto a quello della CEDU che intendeva garantire il maggior numero di tutele alla persona.
La Comunità Europea, infatti, si era accorta che la legislazione in materia di protezione dei dati personali apprestate dai vari Paesi membri, ostava all’espansione del libero mercato. Alla base della direttiva vi era la tutela e il rafforzamento di interessi economici, che venivano attuati mediante la protezione dei diritti della persona che, dunque, rappresentava un solo mezzo per fini commerciali.
Tra le innovazioni introdotte con la direttiva, particolare importanza rivestono l’istituzione di Autorità Garanti indipendenti sia rispetto agli stati che ai governi, aventi la funzione di vigilare sulla conformità alla Direttiva delle leggi nazionali e la creazione del Working party 29.
L’art. 29 della direttiva, infatti, istituisce “un Gruppo per la tutela delle persone con riguardo al trattamento dei dati personali. Organismo consultivo ed indipendente, composto da rappresentanti dei garanti della protezione dei dati personali degli Stati membri, che studia i problemi legati alla tutela dei dati individuali nell’ambiente di lavoro”[17].
Solo due anni dopo la Comunità Europea era tornata in tema di privacy emanando la direttiva 97/66/CE che si preoccupava di disciplinare il trattamento dei dati personali nell’ambito delle comunicazioni elettroniche. Questa volta la direttiva mirava ad armonizzare le legislazioni degli Stati membri così da garantire un equivalente livello di protezione dei diritti fondamentali, in primis del diritto alla vita privata, al fine di consentire la libera circolazione di tali dati e delle apparecchiature e dei servizi di telecomunicazione all'interno della Comunità[18].
La direttiva venne poi abrogata nel 2002 ad opera della direttiva 2002/58/CE riguardante il trattamento dei dati personali e la tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche, a sua volta successivamente riformata da una direttiva del 2009.
Le direttive comunitarie in discussione hanno definitivamente fissato il diritto alla protezione dei dati di carattere personale come indipendente dal diritto alla riservatezza, ma non fissano una disciplina puntuale concernente il trattamento dei dati personali in materia di lavoro e lavoratori. Piuttosto l’art. 27 della Direttiva 95/46/CE incoraggia “l’elaborazione di codici di condotta destinati a contribuire, in funzione delle specificità settoriali, alla corretta applicazione delle disposizioni nazionali di attuazione della presente direttiva, adottate dagli stati membri”.
Il recepimento sul piano nazionale della Direttiva 95/46/CE si è tradotto nell’adozione della c.d. legge sulla privacy n. 675 del 31 Dicembre 1996. Questa normativa rappresenta la prima specifica disciplina in merito alla protezione dei dati personali.
La legge era composta di soli 29 articoli, in cui – tra le altre innovazioni – istituiva un’autorità amministrativa indipendente: il Garante per la Protezione dei Dati Personali.
Tuttavia la legge 675/1996 non si limita a riprodurre pedissequamente i principi contenuti nella Direttiva 95/46/CE: la direttiva stabiliva che il trattamento dei dati personali dovesse avvenire nell’osservanza dei diritti e libertà fondamentali degli individui; la disciplina italiana, a questa previsione, aggiunge il dato fondamentale della dignità della persona e che la protezione deve ricomprendere non solo la riservatezza, ma anche l’identità personale. Con questa legge il legislatore italiano ha approntato una disciplina molto più completa ed esaustiva di quella prevista in ambito europeo, dove si arriverà a una simile tutela solo anni dopo.
Successivamente la materia venne riformata con l’approvazione del d.lgs 196 del 2003, denominato “Codice in materia di Protezione dei Dati Personali”, entrato in vigore nel Gennaio 2004. Il c.d. Codice della privacy è un testo unico che riunisce tutta la normativa previgente in tema di protezione dei dati personali, diritto al rispetto della dignità della persona, riservatezza e identità personale.
Il Codice della privacy è stato il culmine di un lento mutamento dell’orientamento giurisprudenziale e della presa di posizione del legislatore su un tema così delicato come quello del diritto alla privacy, alla riservatezza e al trattamento dei dati personali poi. Il mutamento giurisprudenziale, iniziato con il “caso Soraya”, proseguita dal legislatore con l’emanazione della legge n. 675/1996. Ma anche la dottrina ha contribuito all’emersione e alla cristallizzazione del diritto alla riservatezza. Come ben affermato da un autorevole dottrina “il soggetto non ha più diritto a che in assoluto di sé si sappia, mentre ha certamente diritto a conoscere che cosa, perché e come di sé si sa”[19].
Infine l’art. 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, rubricato “protezione dei dati di carattere personale”, disciplina il diritto fondamentale di “Ogni individuo alla protezione dei dati di carattere personale che lo riguardano”[20].
CONCLUSIONI
È attraverso queste tappe che si raggiunge il vertice dell’evoluzione del pensiero e della presa di coscienza dell’esistenza di un diritto alla privacy come diritto complesso, dalle mille sfaccettature, che ricomprende in sé il diritto alla riservatezza, ma anche il diritto alla protezione dei dati personali e il diritto all’identità personale.
[1] S. D. WARREN, L. D. BRANDEIS, The Right to Privacy, in Harward Law Review, IV, 1890.
[2] In quegli anni, infatti, erano apparsi sulla Evening Gazette di Boston diverse indiscrezioni riguardanti la vita coniugale del Sig. e della Sig.ra Warren, che spinsero Warren e Brandeis a riflettere sulla facilità con cui era possibile violare l’intimità dei soggetti.
[3] Tribunale di Roma, 14 settembre 1953, in Foro Italiano, Vol 77 n.4, 1954.
[4] Ibidem.
[5] G. PUGLIESE, Il preteso diritto alla riservatezza e le indiscrezioni cinematografiche, in Foro italiano, 1954, volume 1, pp. 116 e ss.
[6] A. DE CUPIS, Il diritto alla riservatezza esiste, in Foro italiano, 1954, volume 4, pp. 89 e ss. L’autore nell’articolo affermava che il diritto all'immagine era una manifestazione del diritto alla riservatezza, auspicava l’estensione del diritto alla riservatezza e lo distingueva dal diritto all'onore.
[7] Cass., 22 dicembre 1956, n. 4487, in Giur. it., 1957, I, 1, c. 366 ss., con nota di PUGLIESE, Una messa a punto della Cassazione sul preteso diritto alla riservatezza.
[8] Ibidem.
[9] Cass. Civ., 20 aprile 1963, n. 990.
[10] Ibidem.
[11] La principessa era stata ripudiata da quello che poi sarebbe diventato l’ultimo Scià di Persia Mohammad Reza Pahlavi, che la sosteneva economicamente a condizione di comportarsi in maniera da non macchiare l’onore dello Scià. Per un maggiore approfondimento si rinvia a G. GARDINI, Le regole dell'informazione: principi giuridici, strumenti, casi, 2005.
[12] Cass., 27 maggio 1975, n. 2129.
[13] Comunità europea del carbone e dell’acciaio istituita con il Trattato di Parigi del 1951, su https://europa.eu/ecsc/index_it.htm.
[14] Corte EDU, Niemietz contro Germania, 16 dicembre 1992, Grande Camera, ricorso n. 13710/88, su https://hudoc.echr.coe.int/.
[15] Ibidem.
[16] Art.7 Carta dei Diritti fondamentali dell'Unione Europea, in https://fra.europa.eu/it.
[17] M. IASELLI, S. GORLA, Storia della Privacy, Roma, 2015, p. 57.
[18] Direttiva 97/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 15 dicembre 1997 sul trattamento dei dati personali e sulla tutela della vita privata nel settore delle telecomunicazioni.
[19] E. BARRACO, A. STIZIA, Potere di controllo e privacy. Lavoro, riservatezza e nuove tecnologie, Milanofiori Assago (MI), 2016, p. 138.
[20] Art. 8.1 della Carta dei Diritti fondamentali dell'Unione Europea: “Ogni individuo ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che lo riguardano. Tali dati devono essere trattati secondo il principio di lealtà, per finalità determinate e in base al consenso della persona interessata o a un altro fondamento legittimo previsto dalla legge. Ogni individuo ha il diritto di accedere ai dati raccolti che lo riguardano e di ottenerne la rettifica. Il rispetto di tali regole è soggetto al controllo di un'autorità indipendente”, https://fra.europa.eu/it.