Cognome dei figli: normativa, giurisprudenza nazionale e Corte Edu

e le sei proposte in Parlamento
Colori
Ph. Fabio Toto / Colori

È iniziato al Senato l’esame dei sei disegni di legge sulla disciplina civilistica relativa al cognome ai figli, che prevedono, con diverse soluzioni, l'attribuzione anche del cognome materno.

Alcune delle proposte di legge, poi, intervengono anche sulla normativa civilistica relativa al cognome dei coniugi. Le tante proposte riusciranno nell’intento di superare l'attribuzione automatica del cognome paterno, indicato dalla Corte Costituzionale, come un “retaggio di una concezione patriarcale della famiglia”?

 

Cognome dei figli: quadro normativo

Cognome dei figli in Costituzione: Il diritto al nome trova riconoscimento a livello costituzionale nell'art. 22 Cost., secondo cui "nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza e del nome", da leggersi in combinato disposto con l'art. 2 Cost., che riconosce e garantisce in via generale i diritti inviolabili dell'uomo, tra i quali è pacificamente annoverato il diritto all'identità personale.

Il nome, secondo la Corte costituzionale, "assume la caratteristica del segno distintivo ed identificativo della persona nella sua vita di relazione (...) accanto alla tradizionale funzione del cognome quale segno identificativo della discendenza familiare" (Sentenza n. 13/1994).

Cognome dei figli nel Codice Civile: L'art. 6 del codice civile specifica che ogni persona ha diritto al nome comprensivo del prenome (ossia il nome) e del cognome, per i quali non sono ammessi cambiamenti o rettifiche se non nei casi e con le formalità richieste dalla legge. Per quanto concerne più direttamente la questione relativa alla scelta del cognome l'ordinamento italiano non contiene una norma che disciplina espressamente l'attribuzione del cognome al figlio legittimo.

La trasmissione del patronimico sembra doversi desumere da una lettura sistematica delle norme afferenti al cognome.

Preliminarmente alla disamina della normativa è opportuno osservare che tale disciplina è stata oggetto di un recente intervento della Corte costituzionale, la quale ha dichiarato l'illegittimità di ogni forma di automatica attribuzione del cognome paterno. In particolare, per quanto concerne il codice civile, l'art. 237, secondo comma c.c. in tema di possesso di stato, poneva - già nella sua formulazione anteriore al d.lgs. 154/2013 - come elemento costitutivo l'aver sempre portato il cognome del padre che si pretende di avere, per l’esame dell’articolo: Art. 237 del Codice civile.

L'art. 262 c.c., poi, prevede che "il figlio nato fuori dal matrimonio deve assumere il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto; se il riconoscimento è contemporaneo di entrambi i genitori, il figlio assume il cognome del padre". Quando però la paternità viene accertata successivamente al riconoscimento della madre, spetta al figlio decidere se vuole assumere il cognome del padre aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo a quello della madre; se, invece, la filiazione è stata accertata o riconosciuta dopo l'attribuzione del cognome da parte dell'ufficiale dello stato civile, il figlio può mantenere il cognome precedentemente attribuitogli se è ormai diventato segno della sua identità personale, aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo a quello del genitore che successivamente l'ha riconosciuto.

Nel caso in cui il figlio sia minore la decisione sul cognome compete al giudice, previo ascolto del minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento. L'adottato di maggiore d'età aggiunge ai sensi dell'art. 299 c.c. il cognome dell'adottante premettendolo al proprio. La disposizione precisa che, nel caso di adozione compiuta da coniugi, l'adottato debba assumere il cognome del marito.

Ulteriori disposizioni in tema di nome sono poi dettate dal Regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile di cui al d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396. L'attuale art. 29, secondo co. del d.P.R. 396/2000 richiede - in relazione alla dichiarazione di nascita- l'enunciazione del prenome che si vuole attribuire. L'art. 33, co. 1, del DPR 396/2000, poi, prevede che "il figlio legittimato ha il cognome del padre, ma egli, se maggiore di età alla data della legittimazione, può scegliere, entro un anno dal giorno in cui ne viene a conoscenza, di mantenere il cognome portato precedentemente, se diverso, ovvero di aggiungere o di anteporre ad esso, a sua scelta, quello del genitore che lo ha legittimato".

Da ultimo l'art. 34 del d.P.R. n. 396 del 2000 vieta di imporre al bambino lo stesso prenome del padre vivente, allo scopo di evitare omonimie dovute all'identità del cognome.

 

Cognome dei figli nelle fonti sovranazionali

A livello di fonti sovranazionali, la Carta di Nizza (2000) sui diritti fondamentali dell’Unione Europea, vincolante a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, vieta ogni forma di discriminazione basata sul sesso (art. 21) nonché l’obbligo di assicurare la parità tra uomini e donne in tutti i campi (art. 23).

Per quanto riguarda in particolare l'attribuzione del cognome l'articolo 16 della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti della donna (adottata a New York il 18 dicembre 1979 e ratificata dall’Italia con legge 14 marzo 1985 n. 132) impegna gli Stati aderenti a prendere tutte le misure adeguate per eliminare la discriminazione nei confronti della donna in tutte le questioni derivanti dal matrimonio e nei rapporti familiari, ed in particolare ad assicurare, in condizioni di parità con gli uomini, gli stessi diritti personali al marito e alla moglie, compresa la scelta del cognome (lett. g).

Ancora, le raccomandazioni n. 1271 del 1995 e n. 1362 del 1998 (e ancor prima con la risoluzione 37/1978), del Consiglio d'Europa hanno affermato che il mantenimento di previsioni discriminatorie tra donne e uomini riguardo alla scelta del nome di famiglia non è compatibile con il principio di eguaglianza sostenuto dal Consiglio stesso, ha raccomandato agli Stati inadempienti di realizzare la piena eguaglianza tra madre e padre nell’attribuzione del cognome dei loro figli, di assicurare la piena eguaglianza in occasione del matrimonio in relazione alla scelta del cognome comune ai due partners, di eliminare ogni discriminazione nel sistema legale per il conferimento del cognome tra figli nati nel e fuori del matrimonio.

Infine gli articoli 8 e 14 della CEDU sanciscono rispettivamente il diritto al rispetto della vita privata e familiare (norma che involge comunque ogni aspetto della identificazione personale) e il divieto di ogni forma di discriminazione.

 

Cognome dei figli e le sentenze Corte Edu

Proprio per la violazione di tali disposizioni l'Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la Sentenza 7 gennaio 2014 (Cusan e Fazio c. Italia).

Il giudice di Strasburgo - mutando in parte il proprio precedente orientamento (Sentenze - di inammissibilità- 12.4.1996, ric. 22940/93 e 6.5.2008, ric. 33572/02) - ha ritenuto la preclusione all’assegnazione al figlio del solo cognome materno una forma di discriminazione basata sul sesso che viola il principio di uguaglianza tra uomo e donna. In proposito la Corte ha rammentato che “l’articolo 8 della Convenzione non contiene alcuna disposizione esplicita in materia di cognome ma che, in quanto mezzo determinante di identificazione personale (Johansson c. Finlandia, n. 10163/02, § 37, 6 settembre 2007, e Daróczy c. Ungheria, n. 44378/05, § 26, 1° luglio 2008) e di ricongiungimento ad una famiglia, ciò non di meno il cognome di una persona ha a che fare con la vita privata e familiare di questa. Il fatto che lo Stato e la società abbiano interesse a regolamentarne l’uso non è sufficiente ad escludere la questione del cognome delle persone dal campo della vita privata e familiare, intesa come comprendente, in certa misura, il diritto dell’individuo di allacciare relazioni con i propri simili”.

In relazione all’art. 14 della Convenzione, si legge nella sentenza che “nella sua giurisprudenza, la Corte ha stabilito che per discriminazione si intende il fatto di trattare in maniera diversa, senza giustificazione oggettiva e ragionevole, persone che si trovano, in un determinato campo, in situazioni comparabili”; in relazione al caso dedotto in giudizio “la Corte è del parere che, nell’ambito della determinazione del cognome da attribuire al «figlio legittimo», persone che si trovavano in situazioni simili, vale a dire il ricorrente e la ricorrente, rispettivamente padre e madre del bambino, siano stati trattati in maniera diversa. Infatti, a differenza del padre, la madre non ha potuto ottenere l’attribuzione del suo cognome al neonato, e ciò nonostante il consenso del coniuge”.

Più in generale, la Corte di Strasburgo è intervenuta su diversi profili afferenti al diritto al nome: dalla libertà dei genitori di scegliere il prenome dei figli (Sentenze 24.10.1996 ric. 22500/93 e 6. 12.2007 ric. 10163/02), ai requisiti per ottenere il cambiamento del cognome (Sentenza 25.11.1994, ric. 18131/91), alla conservazione di un cognome già acquisito e diventato segno identificativo della personalità (Sentenza 22.2.1994 ric. 16213/90).

Per quanto concerne la giurisprudenza della Corte di giustizia UE, il tema dell'attribuzione del cognome ai figli è affrontato in particolare in due Sentenze del 2003 e del 2008. Nella decisione 2 ottobre 2003 (caso C-148/02, Carlos Garcia Avello c. Belgio), la Corte di Lussemburgo ha affermato che costituisce discriminazione in base alla nazionalità (e dunque violazione degli artt. 12 e 17 del Trattato) il rifiuto da parte dell'autorità amministrativa di uno Stato membro di consentire che un minore avente doppia nazionalità possa essere registrato allo stato civile col cognome cui avrebbe diritto secondo le leggi applicabili nell'altro Stato membro (nel caso di specie, i minori in questione - aventi nazionalità belga e spagnola - erano stati registrati dall'ufficiale di stato civile belga con il doppio cognome del padre, in ottemperanza alla legge belga che attribuisce ai figli lo stesso cognome del padre, invece che col primo cognome del padre seguito dal cognome della madre, come previsto dalle leggi e dalle consuetudini spagnole.

Conseguentemente, detti minori risultavano chiamarsi Garcia Avello in Belgio e Garcia Weber in Spagna, con conseguenti problemi di carattere pratico, oltre che personale). Facendo seguito alla Sentenza del 2003, il Tribunale di Bologna, con decreto del 9 giugno 2004, ha stabilito che "la doppia cittadinanza del minore legittima i suoi genitori a pretendere che vengano riconosciuti nell'ordinamento italiano il diritto e la tradizione spagnoli per cui il cognome dei figli si determina attribuendo congiuntamente il primo cognome paterno e materno: solo così sono garantiti al minore il diritto ad avere riconosciuta nell'ambito dell'Unione una sola identità personale e familiare e ad esercitare tutti i diritti fondamentali attribuiti da ciascuna delle normative nazionali, spagnola ed italiana, cui egli è legato da vincoli di pari grado e intensità".

La sentenza 14 ottobre 2008 (caso C353/06, Grunkin v. Germania) costituisce il corollario della precedente decisione. Le circostanze di fatto appaiono in parte diverse dal precedente caso: il figlio dei coniugi Grunkin ha la sola cittadinanza tedesca e i suoi genitori chiedono non allo Stato ospitante, la Danimarca, bensì allo Stato di origine, la Germania, il riconoscimento del doppio cognome attribuito secondo legislazione danese. In questo caso non viene evidentemente in rilievo una disparità di trattamento fondata sulla nazionalità atteso che le autorità hanno applicato al minore la stessa regola riservata a tutti cittadini tedeschi.

Trovano invece applicazione i principi relativi alla cittadinanza europea e alla libertà di circolazione: il cittadino di uno Stato membro che abbia circolato in un altro Stato ha il diritto di conservare il cognome attribuito secondo la legislazione dello Stato di residenza; il cognome così attratto alla sfera del diritto comunitario prevale su norme interne dello Stato di origine eventualmente difformi.

Pur in assenza di un parametro testuale espressamente dedicato al nome, applicando i principi comunitari di cittadinanza europea, libertà di circolazione e divieto di discriminazione in base alla nazionalità, la giurisprudenza europea consegue l'effetto di tutelare l'identità personale del singolo, come soggetto che deve essere registrato e conosciuto come la stessa e unica persona in tutti gli Stati membri.

 

Cognome dei figli e la giurisprudenza nazionale

La questione relativa all'attribuzione del cognome è stata oggetto poi di un ampio dibattito anche nella giurisprudenza nazionale.

Per quanto concerne la giurisprudenza costituzionale, si segnala la sentenza 8 novembre 2016, n. 286, con la quale la Corte costituzionale ha accolto la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di appello di Genova sul cognome del figlio di una coppia italo brasiliana, dichiarando l’illegittimità della norma (desumibile dagli artt. 237, 262 e 299 c.c., 33 e 34 del d.P.R. 396/2000) che non consente ai coniugi di comune accordo di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno; nonché degli art. 262, primo comma e 299, terzo comma, c.c nella parte in cui - con riguardo ai figli nati fuori dal matrimonio e agli adottati - prevedono l’automatica attribuzione del cognome paterno, in presenza di una diversa volontà dei genitori.

Tale decisione prende le mosse dalla rimessione effettuata nel 2013 dalla Corte d’appello di Genova, la quale ha sollevato − in riferimento agli artt. 2, 3, 29, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione – questione di legittimità costituzionale della norma desumibile dagli artt. 237, 262 e 299 del codice civile, 72, primo comma, del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile) e 33 e 34 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127), nella parte in cui prevede "l’automatica attribuzione del cognome paterno al figlio legittimo, in presenza di una diversa contraria volontà dei genitori".

Il giudice rimettente denuncia, in primo luogo, la violazione dell’art. 2 Cost., in quanto verrebbe compresso il diritto all’identità personale, che implica il diritto del singolo individuo di vedersi riconoscere i segni di identificazione di entrambi i rami genitoriali.

Viene, inoltre, evidenziato il contrasto con gli artt. 3 e 29, secondo comma, Cost., poiché sarebbe leso il diritto di uguaglianza e pari dignità dei genitori nei confronti dei figli e dei coniugi tra di loro.

La Corte Costituzionale, nell’esaminare la questione sottopostale, l’ha ritenuta fondata, censurando la norma sull’automatica attribuzione del cognome paterno nella parte in cui non consente ai genitori – i quali ne facciano concorde richiesta al momento della nascita – di attribuire al figlio anche il cognome materno.

La Corte rileva come a distanza di molti anni dalla precedente sentenza del 2006 (vedi supra) nel nostro ordinamento non sia stato ancora introdotto un “criterio diverso, più rispettoso dell’autonomia dei coniugi”; neppure con il decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219), con cui il legislatore ha posto le basi per la completa equiparazione della disciplina dello status di figlio legittimo, figlio naturale e figlio adottato, riconoscendo l’unicità dello status di figlio, è stata scalfita la norma oggi censurata.

Nella famiglia fondata sul matrimonio resta così attualmente preclusa la possibilità per la madre di attribuire al figlio, sin dalla nascita, il proprio cognome, nonché la possibilità per il figlio di essere identificato, sin dalla nascita, anche con il cognome materno.

La Consulta ritiene, in linea con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che tale preclusione pregiudichi il diritto all’identità personale del minore e, al contempo, costituisca un’irragionevole disparità di trattamento tra i coniugi, che non trova alcuna giustificazione nella finalità di salvaguardia dell’unità familiare.

Per tutte queste motivazioni la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme del codice civile richiamate anche se solo nella parte in cui, impongono, anche in presenza di una diversa e comune volontà dei coniugi, l'automatica trasmissione del cognome paterno.

In assenza dell’accordo dei genitori, pertanto, residua la generale previsione dell’attribuzione del cognome paterno.

In precedenza la Consulta era stata chiamata a pronunciarsi su un caso simile, in cui si chiedeva di sostituire il cognome materno a quello paterno (sentenza n. 61 del 2006).

In quell'occasione i giudici, pur definendo l'attribuzione automatica del cognome paterno un “retaggio di una concezione patriarcale della famiglia”, dichiararono inammissibile la questione, con una pronuncia in sostanza di “incostituzionalità accertata, ma non dichiarata”.

La Corte, infatti, pur riscontrando l'illegittimità della disciplina impugnata, ha ritenuto di pronunciarsi per l'inammissibilità della questione sollevata in ragione della necessità di non invadere con una sentenza di tipo manipolativo la sfera di discrezionalità politica riservata al legislatore.

Sul tema del cognome è recentemente re intervenuto il Giudice delle leggi, che, con l’ordinanza 11 febbraio 2021, n. 18 ha sollevato, disponendone la trattazione innanzi a sé, la questione di legittimità costituzionale del primo comma dell'articolo 262 c.c. nella parte in cui, in mancanza di diverso accordo dei genitori, impone l’acquisizione alla nascita del cognome paterno, anziché dei cognomi di entrambi i genitori.

Secondo la Consulta la suddetta disposizione del codice civile si porrebbe in contrasto con gli articoli 2, 3 e 117, primo comma della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

La Corte, in questo caso giudice a quo della questione, era stata a sua volta investita dal Tribunale di Bolzano. Il giudice altoatesino, chiamato a decidere sul ricorso proposto dal PM, ai sensi dell’art. 95 del d.P.R. n. 396/2000 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile), al fine di ottenere la rettificazione dell’atto di nascita di una bambina, cui i genitori, non uniti in matrimonio, avevano concordemente voluto attribuire il solo cognome materno, prendeva atto che tale scelta dovesse considerarsi preclusa dal primo comma dell'articolo 262 c.c.

Questa disposizione, anche come interpretata dalla Sentenza n. 286 del 2016 della Corte costituzionale, non sembra riconoscere la possibilità per genitori, di comune accordo, di trasmettere al figlio, al momento della nascita, il solo cognome materno, essendo unicamente consentita l'assunzione in aggiunta al patronimico del cognome della madre.

Il Tribunale dubitava quindi della compatibilità costituzionale di tale preclusione, la quale si sarebbe posta in contrasto con l’art. 2 della Costituzione, sotto il profilo della tutela dell’identità personale; l’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’uguaglianza tra donna e uomo, e con l’art. 117, I c., Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 della CEDU, che trovano corrispondenza negli artt. 7 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.

Il Giudice delle leggi richiama nell'ordinanza la propria pronuncia n. 286/2016. Dopo aver rilevato come il proprio monito ad una sollecita rimodulazione della disciplina non abbia avuto séguito, la Corte ritiene di non potersi esimere, ai fini della definizione del giudizio, dal risolvere pregiudizialmente le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, c.c., nella parte in cui, in mancanza di diverso accordo dei genitori, impone l’automatica acquisizione del cognome paterno, anziché dei cognomi di entrambi i genitori, per contrasto con gli artt. 2, 3 e 117, c. I, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU.

Con l'ordinanza n. 18 il Giudice costituzionale ha quindi disposto la rimessione davanti a sé delle questioni di legittimità costituzionale del primo comma dell'articolo 262 c.c., nella parte in cui, in mancanza di diverso accordo dei genitori, impone l’acquisizione alla nascita del cognome paterno, anziché dei cognomi di entrambi i genitori, in riferimento agli 2,3 e 117 Cost., poiché lo stesso meccanismo consensuale – che il rimettente vorrebbe estendere all’opzione del solo cognome materno – non porrebbe rimedio allo squilibrio e alla disparità tra i genitori.

Relativamente alla giurisprudenza di legittimità, (successiva alla sentenza del 2006 della Corte costituzionale), si segnala in primo luogo la decisione 14 luglio 2006, n. 16093 con la quale la Corte di Cassazione, seguendo le indicazioni della Consulta, conferma la sentenza con la quale si era negato ai ricorrenti l'accoglimento della domanda diretta ad ottenere la rettificazione dell'atto di nascita del minore in favore del cognome materno.

Successivamente la Corte di Cassazione ha ritenuto di modificare la propria posizione, (in ragione della sopravvenuta interpretazione dell'art. 117, co. 1 Cost, data dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 348 e 349 del 2007) con l'ordinanza interlocutoria 22 settembre 2008, n. 23934(1) (le cui argomentazioni sono peraltro riprese dal Giudice costituzionale nella sentenza del 2016). Con tale ordinanza la prima sezione della Cassazione - ritenendo che, in virtù del rinvio mobile contenuto nell'art, 117 Cost, l'art. 16 della Convenzione di New York e gli artt. 8 e 14 della CEDU dovessero imporsi sulla regola del patronimico- chiedeva infatti al Primo Presidente di valutare "se possa essere adottata un'interpretazione della norma di sistema (che impone nel caso di filiazione legittima l'attribuzione del cognome paterno) costituzionalmente orientata ovvero- se tale soluzione sia ritenuta esorbitante dai limiti dell'attività interpretativa- la questione possa essere rimessa nuovamente alla Corte costituzionale".

La Suprema Corte, peraltro, al fine di fugare ogni dubbio circa il possibile vuoto normativo derivante da un eventuale intervento manipolativo della Consulta, sempre in quella sede precisava che "la soluzione...appare... a rima obbligata, perché non si tratta di scegliere tra una pluralità di alternative, ma solo tra l'ammettere o escludere la possibilità di deroga alla norma di sistema, in un contesto in cui le altre fattispecie non resterebbero prive di regole, dovendo alle stesse comunque applicarsi la predetta norma implicita (ovvero la regola del cognome del padre)".

La giurisprudenza ha delineato la strada da percorrere, sarà in grado il Legislatore di dare una risposta in tempi brevi? Non vorremmo dover aspettare Godot.