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Legge Pinto: quanto costa allo Stato l’irragionevole durata del processo?

Paradiso di ghiaccio
Ph. Luca Martini / Paradiso di ghiaccio

“La malattia che affligge la giustizia italiana è grave. Il paziente è grave”.

Queste sono le parole che lo scorso 4 settembre la Ministra Cartabia ha usato durante la 47° edizione del Forum Ambrosetti, tenutosi a Cernobbio per descrivere i tempi del processo italiano.

Il quadro è eloquente ed un sistema giustizia che arranca senza stare al passo con un mondo sempre più ad alta velocità non è il miglior biglietto da visita che il nostro paese possa offrire a potenziali investitori esteri. Perlomeno sui lunghi tempi del processo italiano, la Dea bendata dovrà prima o poi aprire gli occhi.

D’altronde, chiunque abbia a che fare con la macchina della giustizia in Italia può facilmente toccare con proprie mani le lungaggini che la affliggono. Falle procedurali, disorganizzazioni amministrative, carenza di personale, sono tutti elementi che concorrono ai ritardi nel giungere a sentenza.

Da anni si varano riforme volte all’abbattimento dei tempi ma di risultati concreti non vi è traccia. Al contrario, l’irragionevole durata del processo è oggi stadio patologico di un sistema sempre più farraginoso ed ancorato a precetti del passato.

Sul punto, tutti gli operatori del diritto, che siano magistrati o avvocati o ausiliari, concordano: un giusto processo, nel senso del termine dell’art. 111 Costituzione, non può prescindere da istanze di celerità e tempi adeguati. Sempre secondo la nostra carta fondamentale “la legge ne assicura la ragionevole durata”. O dovrebbe, perlomeno. Eppure, i dati ci dicono il contrario.

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha più volte espresso preoccupazioni circa gli interminabili tempi che i giudici italiani impiegano nel chiudere un procedimento. E a Strasburgo, dagli appelli alle autorità competenti, sono poi passati ai fatti: 1.202 condanne allo Stato italiano dal 1959 ad oggi per violazione dell’art. 6 della CEDU. Più di ogni altro dei 47 paesi su cui si estende la giurisdizione della corte in seno al Consiglio d’Europa. Per meglio comprendere la portata di questo triste primato, basta pensare che al secondo posto tra i paesi di più “lenta giustizia” figura la Turchia con 608 condanne, al terzo la Francia con 284, e soltanto a seguire la Germania (102), la Gran Bretagna (30) e la Spagna (solamente 16).

Per rispondere a tale violazione di diritti, nel 2001 il Parlamento ha approvato la c.d. “Legge Pinto” (l. n. 89/2001), che ha introdotto un procedimento che consente a tutti coloro che abbiano preso parte, indipendentemente dalla posizione assunta in giudizio, a processi conclusisi in tempi “oltre la ragionevole durata”, di richiedere allo Stato un indennizzo per il danno subito. Più che uno strumento per risolvere alla radice il problema, una legge per alleviare le pene dei malcapitati a processo, con costi interamente alle spalle dei contribuenti.

Sia chiaro, un risarcimento giusto e dovuto. Ma che, senza una riforma organica del sistema giustizia in campo penale, civile ed amministrativo, si è risolto in una voce di bilancio in più per le casse dello Stato. La Legge Pinto, in un sistema giustizia celere e puntuale, sarebbe strumento di civiltà a presidio di coloro che, in casi limite ed eccezionali, subiscano processi troppo lunghi. In Italia, dove il ritardo nel giungere a sentenza è prassi consolidata di tribunali e corti d’appello, è invece specchietto di impietose statistiche.

Dal 2015 al 2020, lo Stato ha liquidato più di 573 milioni e 779 mila euro per danni derivanti da irragionevole durata del processo. In questo arco temporale, i decreti di equa riparazione emessi ex Legge Pinto sono stati 95.412. Ciò significa che negli ultimi cinque anni “95 mila 412 persone sono rimaste in attesa di giustizia più a lungo del dovuto”, riportando le parole della Ministra Cartabia incalzata dalla stampa a Cernobbio sul tema. Soltanto nel 2020, a fronte di un numero totale di procedimenti per presunta irragionevole durata del processo pari a 14.429 mila, sono stati emessi 11.867 mila decreti di equa riparazione con un impatto sul bilancio dello Stato di poco più di 105 milioni e 798 mila euro.

Cifre consistenti che potrebbero essere impiegate per un riassetto complessivo del sistema giustizia che garantisca in futuro processi equi e celeri, a garanzia di tutte le parti processuali.

Ma vi è di più: spesso è la stessa attuazione delle decisioni assunte in base alla Legge Pinto ad avvenire oltre tempo massimo. In altre parole, i danni riconosciuti dai tribunali italiani a titolo di equa riparazione per irragionevole durata del processo sono a loro volta liquidati con ritardo dallo Stato. Secondo la normativa, l’amministrazione è tenuta al pagamento entro e non oltre 6 mesi dalla data in cui il ricorrente ha assolto l’obbligo di trasmissione relativo alla dichiarazione attestante la mancata riscossione delle somme dovute.

Tale termine non viene quasi mai rispettato. Al contrario, secondo le stime della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, il pagamento avviene, in oltre i 65 % dei casi, con un ritardo medio di 19 mesi dalla pronuncia del decreto di equa riparazione.

Come diretta conseguenza un classico paradosso all’italiana: si innestano procedimenti ex Legge Pinto per danno da ritardo nell’accredito degli indennizzi dovuti sempre ex Legge Pinto per irragionevole durata del processo a monte. Dunque, ci troviamo di fronte ad indennizzi per il ritardo con cui lo Stato paga le eque riparazioni dovute per il ritardo nel giungere a sentenza. Sembra un gioco di parole con il termine “ritardo” a far da sovrano ma è triste realtà.

Per far fronte al moltiplicarsi dei pagamenti conseguenti ai contenziosi ex Legge Pinto, lo Stato è stato costretto negli anni a destinare ingenti somme di denaro per ripianare tanto gli accumulati debiti pregressi quanto le perdite contabili degli esercizi in corso. Secondo i dati consultabili sul sito del Ministero della Giustizia, riportati nella tabella del seguente pdf (Corte dei Conti, Relazione sul rendiconto generale dello Stato 2020) dal 2011 al 2020 sono stati stanziati 1 miliardo e 360 milioni di euro per coprire i buchi di bilancio per indennizzi dovuti a titolo di equa riparazione per irragionevole durata del processo. Una cifra iperbolica.

Nel 2018, a fronte di un debito pregresso di 328 milioni, ne sono stati stanziati solo 212; nel 2019 a fronte di debiti per 327 milioni, gli stanziamenti sono stati pari a 300 milioni di euro; nel 2020, con un debito al 31 dicembre pari a 377 milioni, lo Stato ha destinato somme per soli 118 milioni di euro.

Dunque, dai dati riportati nella tabella sopracitata, si evince un’unica costante: gli stanziamenti definitivi sono ogni anno insufficienti rispetto al fabbisogno, mai in grado di determinare un azzeramento del debito arretrato.

In questo quadro desolante, nel 2015 è stato adottato un piano straordinario di rientro in forza del quale le Corti d’Appello sono onerate dello smaltimento dei soli debiti pregressi, con delega alla Banca d’Italia di procedere ai pagamenti dei decreti di equa riparazione sopravvenienti. Un’operazione che ha consentito una lieve riduzione del debito totale, vanificata dalla scadenza dell’accordo con la banca centrale in data 31 dicembre 2018. Un nuovo piano straordinario è stato dunque sottoscritto il 20 febbraio 2020, con effetti positivi in riduzione del debito consolidato ancora fin troppo modesti.

Sempre in tale logica, al fine di limitare gli esborsi dello Stato, la Legge di stabilità 2016 ha ridotto l’entità dell’indennizzo dovuto a titolo di equa riparazione, portandolo ad un minimo di 400 fino ad un massimo di 800 euro per ciascun anno che eccede i termini di ragionevole durata del processo. Tali termini sono stati fissati nel corso della XVI legislatura dal decreto legge n. 83/2012: 3 anni per il primo grado; 2 anni per il secondo grado; 1 anno per il giudizio di legittimità dinnanzi alla Suprema Corte di Cassazione; 3 anni per i procedimenti di esecuzione forzata; 6 anni per le procedure concorsuali. Inoltre, la durata ragionevole si intende in ogni caso rispettata qualora il procedimento giunga a sentenza irrevocabile entro 6 anni.

Ancora nell’ottica di razionalizzazione delle spese, la Legge Pinto subordina l’accesso agli indennizzi al previo esperimento, almeno 6 mesi prima dello spirare del termine di ragionevole durata, di rimedi preventivi posti a pena di inammissibilità delle domande di equa riparazione.

In particolare, nel processo civile è richiesta la proposizione del giudizio con rito sommario o l’istanza di passaggio dal rito ordinario al rito sommario; nel processo penale ed in quello contabile è necessario il previo esperimento di un’istanza di accelerazione; nel processo amministrativo la presentazione di un’istanza di prelievo. Dinnanzi alla Corte di Cassazione, è invece richiesta la presentazione di una istanza di accelerazione almeno 2 mesi prima della scadenza del termine di ragionevole durata.

Tuttavia, nonostante i tentativi di limitare gli esborsi derivanti dall’applicazione della Legge Pinto, le lungaggini del sistema giustizia impattano ancora sensibilmente sul bilancio dello Stato. Ma l’aspetto che più deve far riflettere è l’elevato numero di casi riguardanti la violazione del diritto, tutelato dalla CEDU oltre che costituzionalmente garantito, ad un equo processo di ragionevole durata.

La riduzione dei tempi della giustizia è indubbiamente il principale obiettivo delle prossime riforme del processo penale e civile. Riforme le cui leggi delega sono state approvate dal Parlamento rispettivamente lo scorso 27 settembre e 25 novembre, in anticipo rispetto al termine ultimo fissato nel Piano Nazionale Ripresa e Resilienza (PNRR) al 31 dicembre di quest’anno. D’altronde, nelle trattative tra l’ultimo Governo Conte e la Commissione Europea, il tema dell’efficientamento del sistema giustizia ha costituito una delle condizioni preminenti per l’erogazione a favore dell’Italia dei 209 miliardi di euro del Next Generation EU.

In tal senso, è la stessa Ministra Cartabia ad aver chiarito che entro i 5 anni del PNRR devono essere ridotti i tempi dei processi nella misura del 25 per cento per il penale e del 40 per cento per il civile. Un obiettivo ambizioso, che l’ex Presidente della Corte Costituzionale intende perseguire anche con il tanto chiacchierato “nuovo ufficio del processo” e l’assunzione per concorso di 8171 unità di personale a tempo determinato presso il Ministero della Giustizia, le cui selezioni si sono tenute dal 24 al 26 novembre 2021 nei principali centri italiani.

È presto per dire se le mosse messe in campo dal Governo saranno abbastanza. Tutto dipenderà dalle normative di dettaglio che l’esecutivo approverà entro un anno secondo i principi generali espressi nelle leggi delega.

L’auspicio di chi scrive è che un eventuale riduzione dei tempi non si traduca in maggiori difficoltà di accesso alla giustizia da parte dei cittadini. In ogni caso, solo in un sistema celere e puntuale la Legge Pinto potrà esser applicata per come originariamente concepita: strumento di riparazione per casi eccezionali di processi conclusisi in tempi oltre la ragionevole durata.

Fonti:

  • Intervista alla Ministra Marta Cartabia, Forum Ambrosetti 47° edizione, Cernobbio, 4 settembre 2021
  • Legge Pinto: come ottenere l’equa riparazione per l’eccessiva durata dei processi, Altalex, 2 marzo 2020
  • Ragionevole durata del processo, Camera dei Deputati Servizio Studi XVIII Legislatura, 22 marzo 2018
  • Relazione sul Rendiconto Generale dello Stato, documento XIV n.4, Volume II Tomo I, Corte dei Conti, 23 giugno 2021