La distorsione “inconsapevole” del parlato in ambito giudiziario
La distorsione “inconsapevole” del parlato in ambito giudiziario
In questi giorni di inattività operativa, senza udienze, sono particolarmente solerte nello studio e nelle letture dei fascicoli processuali.
In tal modo, forse, inconsciamente esorcizzo la mancanza dell’aula, che comincia a farsi sentire per chi è abituato a respirare l’agone dibattimentale.
Tra le mani ho un verbale di un interrogatorio di un mio assistito, accusato di tentato omicidio. Lo leggo e trasecolo.
Le parole trascritte, non possono essere e non sono, quelle dette da un ragazzo di bassa scolarizzazione e vissuto da sempre in un ambiente criminogeno. Paolo, nome di fantasia, usa un linguaggio colorito ed infarcito da parole dialettali.
Il linguaggio verbalizzato è surreale: “L’ho puncicato” diventa: “Gli vibravo un fendente con un coltello a scatto”. Ed ancora “semo andati via al volo” si tramuta: “A quel punto siamo montati in macchina per scappare a velocità sostenuta”.
Mi chiedo se un domani venisse usato il verbale per delle contestazioni ai ricordi di Paolo, lui sarebbe in grado di capire il lessico che gli è stato cucito indosso?
Mi viene in mente L’Estate Fredda di Gianrico Carofiglio, Einaudi, 2016, con il collaboratore di giustizia Lopez che riempie pagine e pagine di verbali. Con chiamate di correità e descrizione analitica di omicidi, estorsioni e l’utilizzo di termini strettamente tecnico giuridici da parte del verbalizzante.
Un passo del libro: “Riflettevo su ciò che scriviamo nei verbali, nelle informative. Oggi per esempio, in una frase attribuita a Lopez, si parla di consorterie criminali. Ovviamente lui non ha idea di cosa significhi consorteria”.
Ebbene, l’uso in buona fede da parte del verbalizzante di parole non pronunciate dal collaboratore di giustizia potrebbero avere un peso determinante sulla valutazione della credibilità di quest’ultimo. Pensiamo all’aula dibattimentale e al controesame del Lopez da parte degli avvocati della difesa. Alla domanda cosa vuole indicare con la parola consorteria? Il collaborante non saprebbe rispondere. Le sue difficoltà, il suo impaccio nel comprendere una parola che gli viene attribuita come saranno valutate dal Giudicante?
Inconsapevolmente gli “addetti ai lavori”, avvocati, giudici, carabinieri creano una lingua in una modalità ormai automatica. Anzi, si potrebbe scomodare Italo Calvino e dire che si crea una “antilingua”.
Caratteristica principale dell’antilingua giuridica è quella di tramutare in linguaggio giuridico i vocaboli in uso nella vita comune, nello slang giovanile, nel dialetto.
Ma questa trasformazione converte le parole pronunciate in vocaboli vaghi e sfuggenti. Proprio così, vago e sfuggente, perché l’antilingua giuridica trasporta le parole e quindi il loro significato a un livello che, nelle intenzioni di chi scrive, potrebbe essere “superiore” o “colto”, ma che nella realtà genera confusione e caos.
Un esempio calzante di antilingua giuridica è questo passaggio dell’articolo di Italo Calvino, pubblicato sul quotidiano “Il Giorno” il 3 febbraio 1965.
Il brigadiere è davanti alla macchina da scrivere. L’interrogato, seduto davanti a lui, risponde alle domande un po’ balbettando, ma attento a dire tutto quel che ha da dire nel modo più preciso e senza una parola di troppo: “Stamattina presto andavo in cantina ad accendere la stufa e ho trovato tutti quei fiaschi di vino dietro la cassa del carbone. Ne ho preso uno per bermelo a cena. Non ne sapevo niente che la bottiglieria di sopra era stata scassinata”. Impassibile, il brigadiere batte veloce sui tasti la sua fedele trascrizione: “Il sottoscritto essendosi recato nelle prime ore antimeridiane nei locali dello scantinato per eseguire l’avviamento dell’impianto termico, dichiara d’essere casualmente incorso nel rinvenimento di un quantitativo di prodotti vinicoli, situati in posizione retrostante al recipiente adibito al contenimento del combustibile, e di aver effettuato l’asportazione di uno dei detti articoli nell’intento di consumarlo durante il pasto pomeridiano, non essendo a conoscenza dell’avvenuta effrazione dell’esercizio soprastante”.
Il racconto dell’interrogato inizialmente chiaro e conciso quanto è diventato vago e sfuggente.
Insegnava Euripide che: “La verità ha un linguaggio semplice e non bisogna complicarlo”.
Riflettiamo, su quanto possa essere minato di insidie il percorso della ricerca della verità. Anche, nella stesura di semplici verbali, che a detta di molti Giudici dovrebbero essere acquisiti de plano nel fascicolo processuale.
“Suvvia che necessità c’è di ascoltare il verbalizzante? La prego non perdiamo tempo”. (Così dimenticando, che la realtà non è come ci appare in natura come nelle umane cose) .