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Neuroscienze, Diritto e Criminologia

Esame critico degli sviluppi delle neuroscienze in ambito penalistico
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Neuroscienze, Diritto e Criminologia

 

  1. La presunta onnipotenza risolutoria delle neuroscienze

Secondo Lavazza & Sammicheli (2012), le neuroscienze possono aiutare certamente la valutazione giuridica del grado d’ imputabilità, ma, allo stesso tempo, è pur vero che la moderazione è d’obbligo, in tanto in quanto “questo sapere non è ancora giunto ad approdi certi […]. Alcuni accettano le nuove scoperte come elementi in grado di rivoluzionare le soluzioni giuridiche, ma altri, pur non trascurando l’ importanza delle acquisizioni sul funzionamento cerebrale, rifiutano l’ idea che il Diritto possa essere stravolto dalle neuroscienze”.

Nella Dottrina italiana e italiofona, a differenza di quello che accade negli USA, gli Autori sono maggiormente moderati e non credono, tranne rare eccezioni, nella nuova presunta supremazia delle neuroscienze sul Diritto Penale tradizionale.

A titolo preliminare, Santosuosso & Bottalico (2010) non negano che “l’ intima relazione tra il corpo e le funzioni psichiche è basilare per la nostra identità, e le moderne neuroscienze stanno enfatizzando questa prospettiva: il linguaggio e l’ immaginazione influenzano, infatti […] il nostro modo di percepire il tempo e lo spazio, noi stessi e gli altri”. Pure Zanuso (2009) si dichiara affascinato dalle neuroscienze, le quali hanno rivelato le potenzialità creatrici o, quantomeno, dominatrici della mente umana, nel senso che “la volontà […] decide come rimodellare ogni volta i confini di ciò che esiste”. Anzi, Sommaggio (2010) afferma che taluni, grazie alle scoperte delle neuroscienze, “intendono superare i limiti dell’ individuo, non più fissati dall’ordine naturale, ma dal dominio dell’umano, ovvero del post-umano, sul corpo e sul cervello, considerati come mere entità biologiche”.

In buona sostanza, chi reca un approccio oltranzista e pressoché fanatico nei confronti delle neuroscienze sostiene che la capacità d’intendere e di volere è formata da reazioni chimiche cerebrali. Dunque, la capacità dell’essere umano di auto-determinarsi sarebbe qualificabile con categorie esclusivamente mediche e non più giuridiche. A tal proposito, secondo Intrieri (2009), il cervello dominerebbe ogni atto, anche di natura delinquenziale e “il compito della psichiatria diventerebbe, allora, anche quello di fornire la possibile nuova definizione del concetto di responsabilità, ovviamente anche penale, e di autonomia decisionale”.

A parere di chi redige, un consimile orientamento reca a una orribile annichilimento del concetto di libertà individuale. Medicalizzare la volontà umana significa confondere la responsabilità penale con la malattia psichica. Per conseguenza, tale esaltazione delle neuroscienze toglie senso a quella ratio rieducativa ex comma 3 Articolo 27 Costituzione, la quale costituisce il fondamento supremo della sanzione penale e del Diritto Penitenziario.

Le neuroscienze non possono sostituire i parametri valutativi di matrice giuridica. In effetti, questa supremazia tracotante della Medicina psichiatrica è stata analizzata e commentata pure da Bianchi (2009), secondo cui “di frequente, le neuroscienze vengono costantemente accusate di annientare la nozione di responsabilità [penale] personale [ex comma 1 Articolo 27 Costituzione] […] per il solo fatto di svelare la natura biologicamente condizionata dell’azione. Mentre il contributo dei condizionamenti ambientali viene pacificamente accettato, quello dei fattori propriamente biologici, per non parlare di quelli genetici, viene solitamente considerato con sospetto”.

In realtà, a parere di chi scrive, Bianchi (2009) utilizza, più o meno consapevolmente, il lemma “condizionamento”, dunque una volontà condizionata rimane libera, mentre una visione ipertrofica delle neuroscienze giunge all’erronea immagine di una capacità d’intendere e di volere completamente e deterministicamente assoggettata alle secrezioni chimiche del cervello.

Quindi, un’autodeterminazione meramente psico-patologica toglie pure consistenza al normale e ragionevole presupposto che un individuo, maggiorenne e ragionante, è e rimane perfettamente libero di respingere condizionamenti criminogeni e pulsioni delinquenziali. In effetti, Parisi (1998), in maniera maggiormente moderata, precisa che “le neuroscienze, oggi, ci consegnano un’immagine globale della natura umana, [ma] ci costringono, comunque, ad un profondo ripensamento […]. Bisogna evitare di confondere il soggetto della conoscenza con l’oggetto della conoscenza stessa […] il sapere sul cervello non può diventare l’unico sapere utile per l’adempimento del compito giuridico; infine, il giudice non deve delegare alla [neuro]scienza compiti ermeneutici che gli sono propri, favorendo la proliferazione di perizie di ogni tipo”.

La maggior parte dei Dottrinari italiofoni contemporanei intende affrancare la Giuspenalistica degli Anni Duemila da un surrettizio senso di inferiorità nei confronti della psicopatologia forense, in tanto in quanto non tutte le condotte umane sono psichiatrizzabili. Non sempre e non comunque la patologia mentale inficia la capacità d’intendere e di volere del reo, giacché esiste pure una devianza criminale perfettamente consapevole, dunque pienamente ed ordinariamente punibile.

  1. Il concetto di “libera volontà” nelle neuroscienze

Fuselli (2009) si è lodevolmente soffermato sulla corretta nozione di “azione volontaria”, nel senso che “la responsabilità penale descritta dal Codice Rocco è costruita a partire da concetti come coscienza, volontà, intendere […]. Essi presuppongono una concezione per la quale il soggetto [se imputabile] ha la piena padronanza –in termini di comprensione e di volizione– sulle proprie azioni. L’agente che commette un fatto corrispondente ad una fattispecie tipica è punito perché pienamente consapevole della contrarietà del proprio comportamento all’Ordinamento penale”.

Tuttavia, negli Anni Duemila, le neuroscienze, o, perlomeno, la neuroscienza più radicale, hanno affermato che il reato e la relativa volizione altro non sarebbero se non il frutto di reazioni chimiche del cervello.

Dunque, a parere degli Autori maggiormente avanguardisti, non ha più senso parlare di sanzione e di responsabilità personale, in tanto in quanto ogni delitto scaturirebbe da un funzionamento anomalo della psiche. Per conseguenza, il trattamento penitenziario dovrebbe trasformarsi in una mera cura psichiatrica, senza valutare o presupporre il deliberato consenso del condannato. In effetti, Gazzaniga (2008) è giunto al punto di asserire che “a questo punto, non ha senso parlare di punizione nel Diritto Penale, nell’eventualità in cui si riuscisse a dimostrare che l’azione dipende [solo] dal cervello del soggetto agente, incapace di comportarsi diversamente”. Come si può notare, pertanto, il carcere non dovrebbe più tendere alla rieducazione, ex comma 3 Articolo 27 Costituzione,  bensì alla cura, senza nemmeno richiedere, tra l’ altro, un minimo di collaborazione attiva al recluso.

Anzi, un’ulteriore conseguenza dell’assolutizzazione delle neuroscienze sarebbe costituita pure dal proscioglimento automatico, per infermità mentale, in quasi tutti i Procedimenti Penali radicati a seguito della commissione di devianze delinquenziali percepite alla stregua di sintomi certi di patologie psichiche.

Sempre a tal proposito, Caruana (2010) ha, giustamente, precisato che “in un’aula di tribunale si potrebbe incorrere nel pericolo di incappare in valutazioni di tipo deterministico del giudice sull’inesistenza dell’azione volontaria […]. Per conseguenza, da un punto di vista pratico, tutto il sistema andrebbe riorganizzato, per evitare l’aberrazione di punire soggetti [sempre e comunque] privi di colpa”. Provvidenzialmente, però, non mancano Dottrinari equilibrati che non esaltano le scoperte neuroscientifiche e che proseguono nell’utilizzare il concetto giuridico novecentesco di “libertà di scelta e di azione” (Burkhardt –2003-).

Una maggiore moderazione tradizionalista proviene pure da Paglieri (2010), il quale difende la ratio della libera volizione, in tanto in quanto “il problema principale non riguarda tanto il rispetto […] accordato alla ricerche neuroscientifiche, quanto l’incapacità [in Dottrina] di discriminare fra ciò che merita fiducia, in tali ricerche, e ciò che, invece, va sottoposto a vaglio critico e, in alcuni casi, rifiutato”. Altrettanto pertinente è pure l’osservazione di Merzagora Betsos (2011), la quale definisce le scoperte sul funzionamento del cervello “un aiuto in più”, che, tuttavia, non sostituisce la valutazione autonoma del Giurista, al quale non va chiesto di instaurare un rapporto di supina sudditanza nei confronti della psicopatologia forense.

  1. La neuroscienza nella Criminologia statunitense

Trionfalisticamente e, per il vero, poco prudentemente, Goodenought & Zeki (2004) esaltano l’analisi medica della responsabilità penale, ovverosia “oggi, grazie ai progressi tecnologici, si conosce molto bene l’attività cerebrale […]. Ciò implica la certezza che gli stati mentali soggettivi hanno uno specifico correlato neuronale. In tal modo, le neuroscienze hanno la capacità di offrire al Diritto nuove opportunità di contatto con la psicologia, la filosofia e l’economia”. Anzi, i due testé menzionati Dottrinari sono giunti al punto di coniare il neologismo “neurolaw” [neurodiritto], il che indica una fiducia illimitatamente entusiasta nei confronti della medicina legale. In definitiva, pertanto, la devianza anti-normativa, negli USA, è sempre più percepita alla stregua di una diversità patologica del cervello. La reazione a siffatta diversità neuronale, dunque, non è la riabilitazione pedagogica, bensì la cura di una mente malata.

Negli Anni Novanta del Novecento, agli albori delle neuroscienze, Cavalla (1991) notava, in piena polemica verso la Criminologia statunitense, che “uno dei problemi che, secondo Zeky e Goodenought, non favorisce l’integrazione tra neuroscienze e diritto è il mito giuridico secondo il quale tutti gli individui sono uguali. Senonché, traspare una visione patologica del diritto, quando, invece, una prospettiva processualistica […] dimostra che il diritto tiene bene in considerazione le differenze tra gli individui”. In definitiva, nella Criminologia statunitense contemporanea, il deviante, anche se anti-sociale ancorché non anti-giuridico, è ridotto ad un portatore di patologie socialmente pericolose, le quali, necessariamente, minacciano la pacifica convivenza dei consociati normodotati.

Nella Criminologia statunitense, i “neuroinnovatori” maggiormente espliciti sono Greene e Cohen. P.e., basti pensare che, con estremistico entusiasmo, Greene (2008) giunge financo a sostenere che “noi siamo decisamente votati alla neuroinnovazione, perché le neuroscienze cambieranno il diritto attraverso la trasformazione delle intuizioni morali delle persone circa il libero arbitrio e la responsabilità”.

La posizione di Greene e di Cohen è radicalmente deterministica, in tanto in quanto, secondo tali Autori, l’analisi processuale della capacità d’intendere e di volere va medicalizzata e psichiatrizzata sino alle estreme conseguenze, ovverosia sino al punto di reputare la delinquenza come un epifenomeno patologico del cervello. Del pari, Greene & Sommerville & Nystrom & Darley & Cohen (2001) ipotizzano, in tema di analisi della responsabilità penale, una vera e propria rivoluzione epistemologica, in tanto in quanto “la grande portata innovatrice [delle neuroscienze] investirà il Diritto, andando a colpire direttamente la percezione che gli individui hanno dell’ azione umana.

Tutto questo sarà possibile grazie alle risultanze delle neuroscienze cognitive […]. La nostra concezione di volontà è illusoria ed il Diritto ha solo recepito quelle che, per secoli, sono state le credenze sulla responsabilità [penale] personale [ex comma 1 Articolo 27 Costituzione], giustificazione per l’irrogazione di una sanzione penale”. In passato, le Teorie retributive sostenevano che ogni reato va punito per proteggere il quieto vivere della comunità, ma Greene e Cohen cambiano prospettiva e giungono ad affermare che la sanzione giuridica altro non è che la cura psichiatrica di una mente difettosa.

Le neuroscienze, negli USA in epoca contemporanea, hanno abbandonato il binomio colpevole/innocente in favore del binomio sano/malato. Malato è ognuno che infrange l’Ordinamento socio-giuridico. In epoca attuale, le neuroscienze statunitensei, come asserito da Greene (2008) affermano che “non sono gli eventi esterni che diminuiscono la capacità d’intendere e di volere […] poiché non è stato il soggetto a compiere il crimine, bensì il suo cervello […] Tu sei il tuo cervello, e il tuo cervello è il compositore e l’orchestra tenuti insieme”. A parere di chi scrive, tale “neurolaw” reca alla orribile e pericolosa conseguenza di trasformare il carcere in un triste luogo di oppressione medico-dittatoriale, giacché il recluso non è rieducabile, bensì è uno scarto psicopatico da neutralizzare o, quantomeno, la speranza di una fine-pena dignitosa scompare drammaticamente e barbaricamente.

Il carcere si trasforma in un gulag sovietico che reprime anziché preparare ad una vita esente da pena. La Criminologia statunitense sta rifiutando tre secoli di Illuminismo umanitario e democratico-sociale. Provvidenzialmente, nella Dottrina italiofona, De Caro & Marraffa (2010) contestano l’oltranzismo determinista della neurolaw statunitense, in tanto in quanto “al Diritto […] non importa se esiste il libero arbitrio in senso metafisico, in opposizione al determinismo hard, ma se i soggetti posseggono quel minimo di raziocinio e di capacità volitiva che consente di ritenerli responsabili delle proprie azioni, se queste sono contrarie all’Ordinamento giuridico”. Del pari, è profondamente erroneo l’asserto neuro-determinista di Morse (2004), secondo cui “il comportamento [anche anti-giuridico] degli individui è il prodotto di forze che sono, in definitiva, al di là del loro controllo”. La Criminologia neuroscientifica statunitense tende, purtroppo, a negare un ordinario e tradizionale legame tra Diritto, volontà e responsabilità.

Come ovvio, si tratta di Teorie estremistiche e contrarie alla normale predicazione del libero arbitrio nell’essere umano. Un conto è parlare di condizionamenti, un altro conto è psicologizzare la devianza anti-normativa sino al punto di medicalizzare qualunque atto di ribellione o, comunque, di trasgressione nei confronti dell’Ordinamento giuridico.

A parere di chi redige, la soluzione abita in un approccio neuro-moderato, nel quale l’eventuale patologia non limita, sempre e comunque, la capacità d’intendere e di volere. P.e., assai pertinentemente, Sommaggio (2010), con il debito senso della misura, ha precisato che “secondo il Diritto, un soggetto agente è tale quando è in grado di agire secondo intenzioni e ragioni, non perché spinto esclusivamente dall’istinto […] Non importano al modello giuridico le cause fisiche che regolano il funzionamento cerebrale, in quanto [il Diritto] intende l’individuo come essere capace di comportamenti pensati e motivati, e non come un relitto biofisico guidato dal movimento chimico-elettrico dei neuroni. La responsabilità è quindi frutto di quel minimo di razionalità di cui, secondo il sistema penale, è dotato l’uomo. Al contrario, si esclude la sussistenza della responsabilità, in capo al soggetto, se manca quel minimo di capacità di comprensione e di volizione richiesto per configurare l’imputabilità penale. In questi casi, il soggetto rimane un agente intenzionale, ma la possibilità di esercitare un controllo cosciente sulla propria condotta risulta gravemente compromessa a causa di anomalie del sistema encefalico”

  1. Criminologia, psicologia forense e tossicodipendenza/alcoldipendenza

Il consumo di sostanze stimolanti è metatemporale e metageografico, ma, come sottolineato da Gulotta (2008) “ciò che, invece, ha più recenti origini è lo sviluppo della costruzione sociale della tossicodipendenza, caratterizzata da una graduale diffusione delle droghe, sino al consumo di massa delle stesse, e allo sviluppo di una crescente attività delinquenziale che ha reso necessario l’intervento della legge penale […]. Il passaggio da fenomeno a problema […] deriva da un cambiamento dell’ interesse e delle prospettive sociali”. Probabilmente, a parere di chi redige, non si risolverà mai il problema della distinzione tra ontologia delle droghe e strutture epistemologiche sociali in tema di droghe, ma, come rimarcato da Ponti & Merzagora Betsos (2008), è certo che le (poli)tossicodipendenze cagionano almeno quattro forme di criminalità:

  1. la criminalità diretta, ossia la commissione di reati cagionati dall’effetto di droghe / alcol
  2. la criminalità dovuta alla Sindrome da carenza, ovvero la commissione di atti delittuosi consumati in uno stato di sofferenza angosciosa legato all’astinenza, la quale provoca la perdita di auto-controllo
  3. la criminalità indiretta, dovuta alla necessità di reperire denaro per acquistare la sostanza/l’alcol
  4. la criminalità ambientale, connessa alla sottocultura di appartenenza

Un altro concetto prodromico è quello di “dipendenza”. Ponti & Mezagora Betsos (2008) propongono la tradizionale distinzione tra la dipendenza psicologica e quella fisica. La dipendenza psicologica viene qualificata come “la condizione [mentale] per cui l’assenza della sostanza ingenera uno stato di disagio”.

Viceversa, è fisica la dipendenza che si manifesta nel “bisogno dovuto allo stato fisiologico alterato”. Tuttavia, è interessante notare che, in Dottrina, Canali (2003) ha proposto il superamento del binomio dipendenza fisica/dipendenza psicologica, poiché “quando si parla di dipendenza, ci si riferisce ad un comportamento molto più complesso e soggettivamente variabile, alla cui insorgenza interagiscono diversi fattori personali ed ambientali; a creare dipendenza, infatti, non è solo l’assunzione di sostanze psicoattive, ma anche il gioco d’azzardo, il sesso, il cibo o l’utilizzo di internet”.

Un ulteriore concetto basilare, ancorché intuitivo, è quello di “sindrome da astinenza”, la quale, sempre secondo Ponti & Merzagora Betsos (2008) non ha regole assolutamente certe, giacché “essa varia a seconda del tipo di sostanza assunte e  del livello di dipendenza sviluppato […] [e, ognimmodo, molto dipende pure] dalle caratteristiche bio-psico-sociali dell’ individuo”. Infine Ponti & Merzagora Betsos (2008) precisano, sempre sotto il profilo introduttivo, che la “tolleranza”, nel linguaggio della psicopatologia forense, “indica la tendenza ad aumentare le dosi assunte inzialmente, per poter raggiungere l’effetto desiderato, poiché, con l’uso costante, l’organismo diventa, man mano, meno sensibile e l’effetto della sostanza tende a diminuire”.

Come pertinentemente e lodevolmente notato da Romano & Grasso (2012), è profondamente erroneo e diseducativo equiparare gli stupefacenti ex TU 309/90 alle bevande alcoliche. I testé menzionati Autori, inoltre, sottolineano che “l’alcol risulta oggetto di una politica meno severa rispetto alle droghe [di cui nelle Tabelle del TU 309/90] e gode di una diversa considerazione sociale”. In ogni caso, nel vigente Codice Penale italiano, il trattamento sanzionatorio dei reati commessi sotto l’effetto di stupefacenti/alcol varia a seconda di cinque tipologie di intossicazione: quella accidentale, quella volontaria, quella acuta, quella abituale e quella cronica. Ex Articolo 91 comma 1 CP, se l’ubriachezza deriva da “caso fortuito o forza maggiore”, il soggetto non è imputabile, ma, ex comma 2 Articolo 92 CP, “se l’ubriachezza era preordinata al fine di commettere il reato o di prepararsi una scusa, la pena è aumentata”.

Similmente, ex comma 1 Articolo 92 CP, l’ubriachezza volontaria “non esclude né diminuisce l’imputabilità”. Naturalmente, come precisato dall’Articolo 93 CP, gli Artt. 91 e 92 CP “si applicano anche quando il fatto è stato commesso sotto l’azione di sostanze stupefacenti”. L’Articolo 94 CP, in tema di ubriachezza abituale, prevede l’aumento della pena. Ex comma 2 Articolo 94 CP, “agli effetti della legge penale, [e, per analogia, del TU 309/90], è considerato ubriaco abituale che è dedito all’uso di bevande alcoliche e in stato di frequente ubriachezza”. Infine, ex Articolo 95 CP, “per i fatti commessi in stato di cronica intossicazione prodotta da alcol, ovvero da sostanze stupefacenti, si applicano le diposizioni contenute negli Artt. 88 e 89 CP [in tema di vizio totale o parziale di mente]”.

  1. Le neuroscienze tra verità parziali e deliri di onnipotenza

La lettura, in chiave criminologica, del cervello è stata inaugurata, negli USA, negli Anni Sessanta del Novecento, dal docente universitario Schmitt, fondatore del “Neuroscience Research Program”. Per quanto afferisce all’esperienza italiana, il “Memorandum Patavino”, presentato, nel 2015, a Padova, ha tentato di dimostrare la presunta utilità delle neuroscienze in tema di danno da tossicodipendenza e da alcoldipendenza.

Grazie alla risonanza magnetica funzionale (fMRI) ed alla tomografia ad emissione di positroni (PET), si è potuto acclarare che l’abuso di stupefacenti incide sulla morfologia del nucleo accumbens e di altre aree coinvolte nei meccanismi di craving. Inoltre, la fMRI, effettuata su alcolisti acuti, ha rivelato una riduzione della sostanza bianca e grigia, l’allargamento ventricolare e un’ipertensione endocranica sub aracnoidea. Sono emerse, inoltre, alterazioni strutturali nell’ ippocampo, nei corpi mammillari, nel talamo e nella corteccia cerebrale, nelle aree coinvolte nei processi di memoria, nonché una riduzione di circa il 10 % della sostanza bianca nel corpo calloso.

In particolar modo, quando l’alcoldipendenza diviene irreversibilmente cronica, si è evidenziato, con la fMRI e con la PEC, un aumento dell’attivazione nell’insula, area che provoca sentimenti di esclusione sociale, ed una ridotta attivazione nella corteccia prefrontale ventrolaterale, il che potrebbe essere la causa di deficit inibitori che provocano difficoltà d’interazione sociale, spesso evidenti negli alcolisti ed aggravati dalla compromissione della connettività fronto-sociale. Gli Autori più lombrosiani, e chi scrive si dissocia da tale approccio deterministico, avrebbero scoperto la presunta esistenza di un genotipo che predisporrebbe all’alcoldipendenza, ovvero un difetto ereditario (ereditario ?, ndr) del gene Gabrb1, che influenzerebbe il metabolismo ed il sistema dopaminergico.

Senz’altro, le neuroscienze patiscono molti deliri di onnipotenza, ma è sicuramente vero che l’assunzione di sostanze stupefacenti può provocare un’alterazione dei circuiti della ricompensa e della decisione, i quali subirebbero delle significative alterazioni strutturali e funzionali. Le principali funzioni cognitive, quali il processo decisionale, la motivazione, l’apprendimento e le emozioni, emergono da circuiti cerebrali che coinvolgono il trasmettitore della dopamina. Uno dei primi passi nello sviluppo della dipendenza da droghe vegetali o sintetiche consiste proprio nell’alterazione dell’attività dopaminergica, che comporterebbe una progressiva riconfigurazione dei circuiti cerebrali. In altre parole, per effetto della ristrutturazione maligna di tali circuiti, si crea un meccanismo per cui l’individuo avverte un impulso irrefrenabile a ricercare la sostanza/la bevanda alcolica, di cui non può fare a meno. Il soggetto diventa, appunto, dipendente.

In tali soggetti, si assiste ad un progressivo aumento del desiderio e ad un diminuito controllo degli impulsi. Altri Studi neuroscientifici, soprattutto anglofoni, hanno indagato i correlati neuropsicologici dell’abuso di sostanze nel lungo periodo e hanno dimostrato che individui con storie di abuso acuto presentano compromissioni neuronali a carico delle funzioni esecutive, della memoria e dei processi decisionali, nonché anomalie neurobiologiche che coinvolgono i gangli basali ed i circuiti pretemporali. Sezna dubbio, comunque, l’utilizzo di sostanze a lungo termine può comportare alterazioni strutturali e funzionali. Ciò che incide sono, per lo più, l’età, il dosaggio e la durata del periodo di assunzione, oltre che l’assunzione poli-tossicomanica di più sostanze contemporaneamente ed eventuali comorbidità con altri disturbi. Inoltre, molte strategie terapeutiche, basate su evidenze neuroscientifiche, sembrano capaci di intervenire sulle alterazioni cerebrali, riorganizzando i circuiti neuronali alterati. Alla luce di svariate Ricerche, si ritiene che il tradizionale concetto di “alterazione patologica permanente”, con cui, nel Novecento, si configurava la condizione di cronicità, sia poco attuale. La neuroscienza, infatti, tende a descrivere il cervello in termini di plasticità cerebrale, soprattutto nella giovane età, il che rende la condizione di “cronica intossicazione”, ex Articolo 95 CP, così come attualmente definita dalla Giurisprudenza italiana, di difficile o, financo, impossibile accertamento

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