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Le videoriprese in domicilio privato: problematiche e stato della normativa e della giurisprudenza

Video recordings in private homes: problems and state of the law and jurisprudence
videoriprese
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Abstract

Il seguente contributo si propone di svolgere una breve disamina sul tema delle videoriprese in domicilio privato e sul luogo di lavoro, nonché sulla loro utilizzabilità nel processo penale.

The following contribution aims to carry out a brief examination on the subject of video recordings in private homes and in the workplace also on their usability in criminal proceedings.

 

Un breve focus sulle videoriprese in domicilio privato

Quello delle video-riprese rappresenta uno degli argomenti più delicati e complessi del diritto processuale penale: delicati, perché tali operazioni, al pari delle intercettazioni, incidono sul diritto alla libertà e alla segretezza delle comunicazioni, tutelato dall’articolo 15 Costituzione, nonché l’inviolabilità del domicilio, contemplata dall’articolo 14 della Carta fondamentale; complessi, perché il codice di procedura penale non le menziona tra gli strumenti investigativi, né vi sono altre norme che le disciplinano.

Il domicilio, a differenza di tanti altri concetti usati per esprimere libertà costituzionali, è emerso molto prima che si ponesse il problema della sua garanzia. In particolare, il Costituente ha tenuto conto di come il domicilio fosse già tutelato dal codice penale, individuandolo nell'abitazione o in qualsiasi altro luogo di privata dimora, riguardo al quale il titolare avesse il diritto di escludere gli altri (articolo 614 codice penale).

Il tema delle video-riprese è stato oggetto di una continua evoluzione giurisprudenziale, data la loro sempre maggiore utilizzazione a scopi investigativi; esse costituiscono, infatti, uno dei frutti dello sviluppo tecnologico di più recente espansione, che ha influenzato anche il diritto processuale penale e, in particolar modo, la fase delle indagini preliminari. Mancando qualsiasi disposizione o riferimento normativo in ordine a questo mezzo - pertanto atipico - di ricerca della prova, la relativa disciplina è stata oggetto di un acceso dibattito. Peraltro, proprio grazie ai preziosissimi apporti di giurisprudenza e dottrina, è stato possibile fissare taluni punti fermi circa la loro utilizzabilità processuale. Del resto, le stesse Sezioni Unite della Cassazione hanno affermato che è possibile ipotizzare mezzi di ricerca della prova atipici, quali le videoriprese di immagini in luoghi diversi dal domicilio. L’articolo 189 codice procedura penale dispone: «Quando è richiesta una prova non disciplinata dalla legge, il giudice può assumerla se essa risulta idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti e non pregiudica la libertà morale della persona. Il giudice provvede all’ammissione, sentite le parti sulle modalità di assunzione della prova».

Ciò significa che solo le videoregistrazioni effettuate fuori dal procedimento possono essere introdotte nel processo come documenti e diventare quindi una prova documentale (si pensi ad esempio, alle videoregistrazioni di violenze negli stadi), mentre le altre, effettuate nel corso delle indagini, costituiscono, secondo il codice, la documentazione dell’attività investigativa, e non documenti (Cassazione Sezioni unite, 21 giugno 2000). Secondo un primo orientamento giurisprudenziale le videoriprese vanno incluse nella categoria dei «documenti», dato che l’articolo 234 codice procedura penale, innovando rispetto all’abrogato codice di rito, comprende in tale categoria le rappresentazioni di «fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo». Per queste ragioni e a garanzia dei diritti dei singoli, il legislatore ha ritenuto necessario prevedere diversi limiti alla utilizzabilità degli strumenti di ricerca, usando la categoria generale della inutilizzabilità di cui all’articolo 191 codice procedura penale.

 

Alcuni orientamenti giurisprudenziali rilevanti

Se particolari problemi non si pongono in relazione ai luoghi pubblici, in cui è pacificamente autorizzata la polizia giudiziaria a predisporre ed eseguire video-riprese, più delicato è il caso dei luoghi privati, perno del dibattito in questione. In particolare, detto dibattito prende le mosse dal caso Viskovic del 2000 (Cassazione Penale, sezione IV, 16 marzo 2000, n. 7063), in cui la Corte ha altresì ritenuto che la natura documentale o atipica della ripresa non è sufficiente a determinarne la validità in ogni caso e indipendentemente dalle modalità utilizzate per la loro acquisizione. La sentenza “Viskovic” può essere considerata come un punto di partenza del dibattito relativo alle video-riprese.

Vi è stata poi la celebre pronuncia della Corte Costituzionale, dell'11/04/2002, n. 135, che ha introdotto una fondamentale distinzione in materia: quella tra le ipotesi di videoregistrazioni di comportamenti comunicativi e comportamenti non comunicativi. Il problema di costituzionalità si pone, infatti, solo in relazione alle seconde «venendo allora in considerazione soltanto l’intrusione nel domicilio in quanto tale […]. La libertà di domicilio ha [infatti] una valenza essenzialmente negativa [concretandosi nello ius excludendi alios]”. Le videoriprese di comportamenti non comunicativi hanno infatti un aspetto differente, a seconda del luogo in cui sono poste in essere, e solo entro determinati limiti, possono considerarsi legittime (Cassazione Sezioni unite, 26 novembre 2003, Gatto). Anche secondo altre pronunce (Cassazione Sezione VI, 21 gennaio 2004, n. 7691, Flori, e Sezioni IV, 18 marzo 2004, n. 37561, Galluzzi), le riprese visive effettuate dalla polizia giudiziaria in luoghi pubblici o aperti al pubblico sono un mezzo atipico di ricerca della prova e non necessitano della preventiva autorizzazione dell’autorità giudiziaria (Cassazione Sezione IV, 19 gennaio 2005, n. 11181, Besnik). Invero, le carenze normative, unite alle incertezze interpretative, hanno determinato il dibattito circa i limiti della loro utilizzabilità, cui hanno cercato di dare soluzione le Sezioni Unite nel 2006.

Se la “sentenza Viskovic” rappresenta l’incipit del dibattito, la “sentenza Prisco” (Cassazione, Sezioni Unite, Prisco, 28/03/2006, n. 26795) ne costituisce il punto di arrivo. Con questa storica sentenza, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno precisato una volta per tutte il regime processuale delle riprese visive in campo investigativo, che costituiscono un mezzo di prova al quale non si può rinunciare. La “sentenza Prisco”, punto cardinale del tema delle video – riprese, non è mai stata disattesa.

 

La recentissima giurisprudenza

Negli ultimi anni, si è invece assistito ad un approfondimento della stessa tematica, secondo plurimi punti di vista.

Primo riferimento va ad un'importante Corte Costituzionale, sentenza 07 maggio 2008, n. 149 (Barbera), che costituisce una prima precisazione rispetto a quanto affermato nel caso Prisco: affinché scatti la tutela del domicilio stabilita dall’articolo 14 Costituzione, non basta che un comportamento venga tenuto in luoghi di privata dimora, ma occorre, altresì, che si tratti di luogo in concreto riservato. Qualora invece il comportamento tenuto all’interno del luogo domiciliare non sia in concreto riservato, le video – riprese sono sottoposte al medesimo regime previsto per quelle effettuate in luoghi pubblici, onde potranno essere disposte anche dalla p.g. di propria iniziativa e saranno utilizzabili nel procedimento come prova atipica (conforme anche il “caso Biviera”). Diverso, invece, quanto affermato dalla Cassazione Penale, sezione VI, 24 settembre 2008, n. 36701 (“caso Portoghese”), in cui è stata riesaminata la tematica delle video – riprese dal punto di vista delle modalità acquisitive, ricavando due importanti punti fermi: a) la non necessità del contraddittorio in sede di visione, da parte del giudicante, dei filmati ritualmente acquisiti, in quanto tale visione non costituisce esecuzione di attività tecniche e attività diretta alla formazione della prova; b) il carattere non ripetibile della documentazione investigativa acquisita, come tale perfettamente inseribile nel fascicolo per il dibattimento, o comunque acquisibile al processo come documento. Nel “caso Galati" invece, Cassazione Penale, sezione I, 20 febbraio 2009, n. 7455, la Corte aveva ritenuto esclusa la applicabilità della disciplina relativa alle intercettazioni e ritenuta pienamente legittima l’iniziativa della polizia giudiziaria.

Restano fuori dalla materia delle intercettazioni anche le video – riprese effettuate con impianti di videosorveglianza messi in opera da soggetti pubblici o privati; soluzione, questa, confermata dalla Cassazione Penale, sezione II, 31 gennaio - 12 febbraio 2013, n. 6812, in un caso di video – riprese operate dalla persona offesa. La sentenza sembra risolvere un punto per certi versi delicato: quello delle video – riprese effettuate mediante impianti di videosorveglianza predisposti dai privati. La ripresa di comportamenti comunicativi costituisce una forma di intercettazione, di cui, pertanto, segue la disciplina. La ripresa di comportamenti non comunicativi ha, invece, una disciplina che varia a seconda del luogo nel quale viene posta in essere. A tal proposito, va rammentata una pronuncia della giurisprudenza di legittimità, in cui si è affermata l’utilizzabilità delle riprese di comportamenti non comunicativi realizzate in ambito domiciliare, ove le medesime siano effettuate nel rispetto delle condizioni previste dall’articolo 266 comma 2 codice procedura penale, e purché tali riprese siano avvenute «incidentalmente», nel corso di un’attività di indagine volta, in base ad una valutazione ex ante, alla registrazione di comportamenti comunicativi. Pertanto, le video – riprese nei luoghi riservati possono essere disposte solo con un atto motivato del p.m.; e – se ciò sia avvenuto – i loro risultati sono utilizzabili come prova atipica (Corte Costituzionale, n. 1, 2013; Corte di Cassazione, Sezione II, 24 aprile 2013- 14 agosto 2013 n. 34979; Cassazione penale Sezione 4, n.7697 del 21/12/2016, dep.2017, Quarticelli).

 

Le videoriprese sui luoghi di lavoro

La Cassazione, sezioni unite, 23 marzo 2017, n. 31345 (D’Amico) stabilì che i luoghi di lavoro non rientrano nella nozione di privata dimora, salvo che il fatto sia avvenuto all’interno di un’area riservata alla sfera privata della persona offesa. Con riguardo alla nozione di privata dimora, infatti, ritenne che siano «indefettibili elementi: a) utilizzazione del luogo per lo svolgimento di manifestazioni della vita privata (riposo, svago, alimentazione, studio, attività professionale e di lavoro in genere), in modo riservato ed al riparo da intrusioni esterne; b) durata apprezzabile del rapporto tra il luogo e la persona in modo che tale rapporto sia caratterizzato da una certa stabilità e non da mera occasionalità; c) non accessibilità del luogo, da parte di terzi, senza il consenso del titolare». L’approdo è stato recepito dalla giurisprudenza di legittimità sul versante delle videoriprese investigative (Cassazione, sezione III, 23 novembre 2017, n. 4744; Cassazione, sezione V, 15 settembre 2017, n. 5797; Cassazione, sezione V, 18 aprile 2018, n. 35767).

L’articolo 4 comma 1 dello Statuto dei lavoratori stabilisce che “gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali. In alternativa, nel caso di imprese con unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione ovvero in più regioni, tale accordo può essere stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. In mancanza di accordo, gli impianti e gli strumenti di cui al primo periodo possono essere installati previa autorizzazione della sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro o, in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più sedi territoriali, della sede centrale dell’Ispettorato nazionale del lavoro. I provvedimenti di cui al terzo periodo sono definitivi”.

Sono utilizzabili nel processo penale, ancorché imputato sia il lavoratore subordinato, i risultati delle videoriprese effettuate con telecamere installate all'interno dei luoghi di lavoro ad opera del datore di lavoro per esercitare un controllo per tutelare il patrimonio aziendale messo a rischio da possibili comportamenti infedeli dei lavoratori, in quanto le norme dello Statuto dei lavoratori poste a presidio della loro riservatezza non proibiscono i cosiddetti controlli difensivi del patrimonio aziendale e non giustificano pertanto l'esistenza di un divieto probatorio (Cassazione Penale Sezione II, 16 gennaio 2015 n. 2890, CED Cass.).

La Cassazione aveva ritenuto “utilizzabili i risultati delle videoriprese effettuate con la telecamera installata all’interno del luogo di lavoro”. E questo dal momento che le norme dello Statuto dei lavoratori poste a tutela della riservatezza dei dipendenti non vietano i c.d. “controlli difensivi del patrimonio aziendale e non giustificano pertanto l’esistenza di un divieto probatorio”.

Nel particolare ambito delle videoriprese sul luogo di lavoro la normativa di riferimento sotto il profilo privacy è la seguente: il Provvedimento Generale dell’8 aprile 2010 del Garante Privacy; il Regolamento Europeo 2016/679/UE, sintetizzato in GDPR; il Parere Gruppo di Lavoro articolo 29 (ora EDPB, European Data Protection Board o Comitato europeo per la protezione dei dati) n. 2/2017 dell’8 Giugno 2017 sul trattamento dei dati dei lavoratori nei luoghi di lavoro – WP 24; le Linee guida sul trattamento di dati personali attraverso sistemi di videosorveglianza (Guidelines 3/2019 on the processing of personal data through video devices) adottate dall’European Data Protection Board il 13 luglio 2019.

La normativa giuslavoristica vieta l’utilizzo di impianti audiovisivi per controllare l’adempimento dell’attività lavorativa ma ne consente l’impiego (subordinandolo, tuttavia, all’accordo sindacale o all’autorizzazione amministrativa) quando le finalità sono di altra natura anche se, indirettamente, ne derivi la possibilità di un controllo dell’attività lavorativa.

Sotto un profilo pratico le finalità per le quali diventa legittima l’installazione di telecamere sul posto di lavoro al fine di videosorveglianza sono: esigenze organizzative e produttive: si pensi alla necessità di riprendere un macchinario per verificare che questo funzioni correttamente e finisca un ciclo di produzione per iniziarne un altro; oppure a una telecamera posta sull’uscio del negozio per vedere se entrano clienti e riceverli; tutela della sicurezza del lavoro; tutela del patrimonio aziendale.

Il Garante per la protezione dei dati personali ha definito in più casi illecito il trattamento dei dati personali mediante il sistema di videosorveglianza, in assenza del rispetto delle previsioni di cui all’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori e nonostante la sussistenza del consenso dei lavoratori medesimi.

 

Conclusioni

La presenza di telecamere sul posto di lavoro e quindi, più in generale, la videosorveglianza sui luoghi di lavoro rimane sempre un argomento sensibile, al quale dedicare la massima attenzione per il tramite di professionisti qualificati avendo riguardo ai principi normativi di riferimento, che si sono ampliati anche in ragione della disciplina comunitaria in materia di privacy, impattando quindi diverse fonti e tematiche giuridiche.

In conclusione, le videoregistrazioni aventi ad oggetto comportamenti comunicativi e non comunicativi disposte dalla p.g. nel corso delle indagini preliminari in luoghi non riconducibili al concetto di domicilio sono qualificabili come prova atipica disciplinata dall'articolo 189 codice procedura penale e quindi utilizzabili senza alcuna necessità di autorizzazione preventiva del giudice (Cassazione sezione VI penale n. 5253/2020; Cassazione penale n. 13779/2020).