Il populismo nella Giuspenalistica

Mare
Ph. Stefania Fiorenza / Mare

Il populismo nella Giuspenalistica

 

Le paure collettive

Negli Anni Duemila, Fiandanca (2013)[1] ha coniato le espressioni “populismo penale” e “populismo giudiziario”. Ovverosia, l'opinione pubblica e persino molti Operatori giuridici hanno rigettato l'idea di una Giuspenalistica strettamente e rigorosamente tecnica, ove l'applicazione professionale delle Norme non ha nulla a che fare con la ratio emotiva ed ansiogena del “fare giustizia”. Tale abbandono della natura eminentemente scientifica del Diritto Penale e della Procedura Penale è la medesima che si riscontra nella odierna Common Law statunitense, ove al Magistrato è affidato il fuorviante ruolo di “paladino della Giustizia” e di “vendicatore” delle parti lese. Per tal via, il Diritto statunitense reputa di risolvere qualunque pur minimo disordine anti-sociale attraverso la sanzione criminale e la carcerazione intra-muraria. Ogni devianza, anche quelle più bagatellari, è oggetto di Procedimenti penali ove il trattamento penitenziario viene percepito e proposto quale unica soluzione, anche a fronte di manifestazioni comportamentali anti-conformistiche ancorché non anti-giuridiche. Nel Nordamerica, ma anche e sempre di più in Europa, il Diritto Penale viene presentato come la migliore soluzione al fine di reprimere il dissenso nei confronti della ferrea regola sintetizzata nell'espressione anglofona “Law and Order”.

Tutte le esternazioni contestatorie sono soffocate nel nome della “zero tolerance”, anche quando la rottura degli schemi sociali non integra gli estremi della anti-normatività etero-lesiva. Anzi, il populismo penale, almeno dal punto di vista giornalistico, si è rafforzato pure nel tessuto sociale italiano. P.e., Pulitanò (2013)[2] sottolinea che “[oggi predomina] un orientamento di politica criminale di tipo espressivo e guidato dal consenso. In presenza di sentimenti sociali di paura, rabbia, risentimento, indignazione, spesso rappresentati – se non costruiti – dai mass media come autentici, diffusi ed incontenibili, si richiede l'intervento, subito, in modo esemplare e definitivo, per rassicurare i cittadini”. A parere di chi redige, l'allarmismo mass mediatico denunziato da Pulitanò (ibidem)[3] si è fatto strada pure all'interno della Giurisprudenza, nella quale la pena detentiva ha abbandonato la propria funzione rieducativa per approdare al porto oscuro e pericoloso della ratio della “pena esemplare”. Ciò è dimostrato, ad esempio, nell'ipertrofico ricorso all'ergastolo nelle fattispecie processuali aventi ad oggetto il femminicidio. Analoga osservazione vale pure per l'eccessiva severità a-tecnica in tema di stupro, pedofilia e pedopornografia. Troppi Magistrati giudicanti si lasciano trasportare, anche nell'Ordinamento italiano, dal sensazionalismo televisivo, che inficia la natura eminentemente riabilitativa del carcere.

La “sentenza esemplare” costituisce un concetto non-tecnico che viola la clausola suprema pedagogica di cui al comma 3 Art. 27 Cost. (“le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”). La Carta Costituzionale non attribuisce al giudice il ruolo demagogico di giustiziere o di salvatore dei deboli. Tantomeno, il Megistrato non è tenuto al ripristino della pacifica convivenza collettiva. Del pari, pure Palazzo (2018)[4] punta il dito anch'egli contro l'abbandono della tecnica in favore della demagogia, nel senso che “i saperi accademici e la ricerca empirica perdono prestigio (a meno che non forniscano supporto alla vox populi) e le garanzie costituzionali diventano privilegi insostenibili. Ogni evento [criminoso] perde la sua specificità e viene decontestualizzato, per assurgere a caso emblematico su cui riversare le istanze punitive diffuse e da cui trarre utilità in termini di visibilità, popolarità e consenso. Ogni risposta penale viene investita di una funzione risolutoria: su di essa ricadono aspettative elevate circa la capacità di risolvere ogni questione sociale, lavare ogni ingiustizia e curare ogni malessere individuale e collettivo”. Gli asserti di Palazzo (ibidem)[5], seppur implicitamente, alludono alla deminutio odierna in tema di “giusto processo” ex Art. 111 Cost. . Oppure, si pensi a tutte le volte in cui la “vox populi” della politica e del giornalismo deviato invocano l'oblio del “diritto alla difesa” di cui all'Art. 24 Cost. . Oppure ancora, nuovamente, la volgarità populista mette in secondo piano o, addirittura, ignora la “rieducatività” dell'esecuzione penitenziaria garantita dal comma 3 Art. 27 Cost. .

Da segnalare è pure Ferrajoli (2018)[6], secondo cui “il popolo esasperato e con un'emotività eccedente (il riferimento va all'effervescenza collettiva di Durkheim, ma anche ai concetti di panico morale e panico perpetuo) definisce ogni situazione in termini emergenziali e direziona i decisori politici, in continua ricerca di consenso, verso la rassicurazione sociale”. Dunque, anche Ferrajoli (ibidem)[7] mette in evidenza la pericolosità di un Diritto Penale populista; similmente, anche la Criminologia si perverte allorquando segue la linea del “panico perpetuo”, conferendo carattere di gravità ad episodi che di grave non hanno alcunché. P.e., basti pensare al falso allarme contemporaneo afferente a presunte “baby gangs” non grandemente o irreparabilmente etero-lesive. Trattasi di allarmi sociali fasulli costruiti da un giornalismo politicizzato che cerca solamente di generare consensi elettorali astutamente pilotati e strumentalizzati.

Assai pertinente è pure l'analisi di Donini (2019)[8], per il quale “gli elementi attorno a cui si definiscono, nella Letteratura criminologica, i tratti del populismo penale sono: la presenza di sentimenti popolari in eccesso; l'utilizzo di questi sentimenti a fondamento di decisioni politiche, orientate prevalentemente ala rassicurazione sociale; il coagularsi di queste decisioni politiche nel campo penale, come luogo privilegiato per dare risposta alle pressioni emotive popolari; l'elaborazione di una politica criminale di espansione dell'area della penalità”. Come si può notare, Donini (ibidem)[9] pronuncia anch'egli il suo j'accuse nei confronti di una Giuspenalistica e di una Criminologia prive di un approccio autenticamente e seriamente tecnico. Viceversa, il Diritto Penale occidentale contemporaneo tende a cavalcare spavaldamente i malumori popolari e propone la sanzione detentiva di lunga durata alla stregua di una medicina sociale in grado di contenere l'anti-giuridicità violenta, ammesso e non concesso che siffatta violenza non sia solo l'innocua manifestazione di un'anti-socialità non collettivamente pericolosa.

Similmente, Amodio (2019)[10] rileva che “la questione del populismo penale sembra riguardare innanzitutto un eccesso di sentimenti popolari: è dalla rilevanza dell'utilizzo strumentale e retorico di questa eccedenza emotiva che misure penali anche molto simili [e troppo rigide, ndr] vengono definite più o meno populiste”. Gli asserti di Amodio (ibidem)[11] riportano alla mente l'ossessiva onnipresenza criminologica del trinomio omicidio volontario-stupro-rapina. Nuovamente, gli Operatori giuridici mettono in risalto la non-idoneità di un Diritto Penale a-tecnico e perennemente ostaggio dei malumori collettivi.

 

La ratio della “paura del crimine”

Secondo Hobbes, ogni Ordinamento socio-giuridico deriva dalla “paura” reciproca di ogni consociato verso gli altri. In maniera magistrale, Risicato (2019)[12] evidenzia che “l'origine delle grandi e durevoli società [per Hobbes] è il reciproco timore […]. Hobbes fa della paura il fondamento del potere e, al tempo stesso, l'elemento cardine della sua legittimazione. E' una paura che deriva dal sentirsi tutti vulnerabili di fronte alla violenza diffusa e che mette in azione la ragione, la quale innanzitutto suggerisce opportune clausole di pace. Ma questi patti non sono sufficienti a garantire la pace, in quanto manca un'autorità che garantisca la loro osservanza. Nasce, così, il Leviatano, lo Stato moderno, che da mostro biblico dall'aspetto terribile diventa, in Hobbes, il corpo di un super-uomo che contiene e rappresenta i tanti uomini che compongono il corpo sociale”. Come si nota, l'analisi di Risicato (ibidem)[13] attinente al pensiero di Hobbes si attaglia perfettamente alle società occidentali contemporanee, in cui predomina un'intesa ed irrefrenabile fobia che mette ciascun cittadino contro l'altro.

Sicché, lo Stato è chiamato ad annichilire i pericoli di una presunta aggressività di individui emarginati e borderline, i quali costituirebbero un serio pericolo per il pacifico consorzio civile. In particolar modo, l'immigrato straniero, quand'egli è povero e non integrato, viene oggi percepito alla stregua di un “pericolo” nei confronti della pace collettiva. Tale paura dell'altro è, poi, astutamente ingigantita da mass media al servizio di gruppi politici demagogici e in cerca di facili consensi elettorali. La rilettura di Hobbes proposta dall'italiofona Risicato (ibidem)[14] è assai simile a quella di Pratt (2007)[15], il quale asserisce che “il Leviatano è l'esito di un percorso che dalla paura porta alla città, ed è la paura ad indicare la strada per uscire dalla guerra e a trovare il modo per convivere. Allo stesso tempo, la paura non si dissolve, ma viene messa al centro dello Stato moderno, nel sistema penale, l'unico (o quasi) legittimato ad usare la forza e la paura che incute l'uso della forza (l'arresto, il processo, la pena) per contenere le violenze sociali e le paure diffuse”. Ecco, di nuovo, in Pratt (ibidem)[16] e, più latamente, nella Criminologia anglofona, la nascita di una Giuspenalistica e di un'esecuzione penitenziaria che nulla ha di rieducativo, in tanto in quanto il carcere non è tenuto a riabilitare il condannato, che null'altro diventa se non uno “scarto sociale” da neutralizzare con pene detentive di lunga durata.

Il Diritto Penale, soprattutto nell'Ordinamento statunitense, è completamente avulso da quella ratio pedagogica che, negli Anni Quaranta del Novecento, è stata consacrata nel comma 3 Art. 27 della Costituzione italiana. Il nuovo sistema penale degli Anni Duemila intende cancellare trecento anni di umanizzazione illuministica della sanzione criminale. L'essenziale è annichilire chi infrange, anche in maniera bagatellare, il contratto di stabilità pattuito dalla maggioranza dei consociati, senza alcun rispetto nei confronti di quella dignità umana sancita nell'Art. 3 CEDU nonché nelle Regole penitenziarie europee. Detto in altri termini, come riferito da Bottoms (1995)[17] “la pena, usando le parole di Cesare Beccaria (anche se da Hobbes intendeva prendere le distanze), ha la funzione di creare impressione, per distogliere il dispotico animo di ciascun uomo dal risommergere nell'antico caos le leggi della società”. Tuttavia, a parere di chi scrive, un conto è predicare la sola general-preventività della pena, mentre un altro conto è coniugare la natura dissuasiva della sanzione a quella rieducativa.

Non v'è dubbio, come rimarcava Beccaria, che il carcere genera una salutare “paura” nell'aspirante infrattore, ciononostante l'Ordinamento giuridico è tenuto a far comunque prevalere soprattutto ed anzitutto la valenza pedagogica della/nella incarcerazione. Far prevalere il solo fine retributivo del carcere significa ritornare a quelle “torture [e] pene o trattamenti inumani o degradanti” vietati dall'Art. 3 CEDU. Eppure, esiste un certo giornalismo televisivo deviato che, più o meno surrettiziamente, intende dis-umanizzare il Diritto Penale e la Criminologia penitenziaria. Siffatte, prevalenti ed ossessive fobie sociologiche sono state citate pure in Newburn (1997)[18], il quale nota che “volenti o nolenti, siamo tutti attraversati, nelle nostre vite quotidiane, dalla promessa moderna di concentrare la violenza sociale e le relative paure in un unico luogo: la penalità, che, in tal modo, diventa il perno attorno a cui ruota la convivenza sociale. E' un dato di fatto radicato nel sentire collettivo che può costituire il punto di partenza per percorsi di giustizia innovativi, ma che non può essere cancellato con un tratto di penna”.

Pertanto, nell'inglese Newburn (ibidem)[19] è lucidamente percepito il pur necessario pericolo di un Diritto Penale che, presso l'opinione pubblica, costituisce un valido argine ad ogni forma di devianza; anzi, la Giuspenalistica contemporanea si propone come risolutiva anche nei confronti di quelle intemperanze borderline non etero-lesive che il Codice di Procedura Penale italiano definisce “fatti non costituenti reato”. In buona sostanza, il populismo penale propone il carcere come il luogo ideale e legittimo ai fini del contenimento di chi, anche in misura minima, contesta la ratio della legalità e dell'ordine. Il Diritto Penale e, per conseguenza, la detenzione intra-muraria divengono, per tal via, una sorta di medicina sociale efficace ed ineludibile. Tutte le devianze vengono “penalizzate”, anche quelle non aggressive e munite di una pericolosità meramente astratta.

Gli effetti negativi del populismo penale sono oggetto pure della lucida analisi di Ginzburg (2015)[20], il quale afferma che “paura della violenza, politica e penalità sono fortemente connesse nell'esperienza moderna, a tal punto che oggi, nonostante molti progetti stiano prendendo strade diverse (si pensi ai Restorative Justice Programmes ed al recupero di forme di adesione alla norma per convinzione secondo i principi della Procedural Justice), la loro connessione sta assumendo una nuova centralità ai nostri giorni” Detto in altri termini, Ginzburg (ibidem)[21] reputa, con un chiasmo molto ben riuscito, che la Criminologia occidentale contemporanea “è sintetizzabile in due espressioni: la paura nella politica, la politica della paura”.

In effetti, la cronaca nera televisiva abbonda di stereotipi neo-retribuzionisti, come quello dello straniero ladro e dello slavo stupratore. Il giornalismo politicizzato dimentica volutamente la criminalità degli autoctoni e si concentra su episodi violenti  marginali che cagionano il c.d. “etichettamento” di intere minoranze. Il falso e fuorviante mito dello “sporco negro” finisce per generare fobie sociali eccessive e prive di un fondamento statistico. P.e., la verità numerica mette in rilievo che l'omicidio volontario è drasticamente diminuito, in Italia, rispetto agli Anni Novanta del Novecento. Altrettanto sottaciuto è che il femminicidio viene agito prevalentemente da uomini bianchi ben integrati e muniti di cittadinanza italiana. Oppure ancora, è altrettanto vero che i minorenni italiani delinquono nella stessa misura di quelli stranieri. Del pari, Cornelli (2019)[22] rileva, giustamente, che “la paura nella politica sta ad indicare la crescente rilevanza della paura bel discorso pubblico e la sua esplosione o enfatizzazione in alcuni momenti o periodi”. Cornelli (ibidem)[23] nota anch' egli che un eccessivo allarme sociale in tema di criminalità è fasullo e completamente difforme rispetto ai più seri ed oggettivi censimenti criminologici. Giornalismo e politica troppo spesso si alleano per il solo fine di incrementare i consensi elettorali, ma si tratta di una prospettiva criminologica squallida, a-tecnica e tutt'altro che scientifica.

 

L'approccio criminologico

Negli Anni Settanta del Novecento, Cohen (1972)[24] ha coniato il neologismo “panico morale”. Anzi, il testé menzionato Dottrinario anglofono ha tenuto a precisare che “proprio in considerazione della costante presenza del tema della paura nel discorso pubblico, si deve parlare di panico perpetuo. Sta di fatto che il tema della paura entra nella politica attraverso la questione della sicurezza urbana, che, al di là delle differenze nei diversi Paesi occidentali, si costituisce attorno all'affermazione del diritto a non avere paura”.

Dunque, nuovamente, Cohen (ibidem)[25] ricorda che, all'origine del “penal populism” sta la genesi artificiosa di paure collettive da parte di chi dirige ed influenza il dibattito pubblico. In effetti, anche negli Anni Duemila, il giornalismo televisivo non cessa di cagionare procurati allarmi attorno ad episodi di devianza i quali, in ultima analisi, sono marginali e scarsamente violenti. P.e., la cronaca quotidiana amplifica a dismisura intemperanze giovanili non etero-lesive. Oppure ancora, si pensi a fenomeni non certo gravi quali i graffiti o gli schiamazzi notturni. Sovente, ai mass media è affidato il compito di estremizzare infrazioni borderline anti-sociali ancorché non anti-normative, come accade, per esempio, allorquando innocui rassembramenti adolescenziali vengono qualificati come “baby gangs”. Tale “panico perpetuo” reca l'unico fine di polarizzare il consenso degli elettori. D'altra parte, anche le dittature nazi-fasciste del Novecento fondavano la loro forza sulla ratio della eliminazione del “nemico” che turba la pace sociale.

Dal canto loro, Ceretti & Cornelli (2019)[26] precisano che “a partire da una concezione della sicurezza come diritto individuale e dalla moltiplicazione delle domande di sicurezza, si creano le condizioni per quel lento scivolamento dallo Stato sociale in Stato penale descritto da studiosi come Wacquant e Garland. Inoltre, si legittima l'espansione su scala globale del mercato della sicurezza, ossia dell'offerta di beni e servizi spesso usati nell'industria bellica e trasferiti in ambito civile, sempre più calibrati sul singolo e sulla sua capacità di spesa, e sempre più performanti nel difenderlo dagli altri. Proprio come se la città diventasse un piccolo teatro di guerra di tutti contro tutti”.

Lodevolmente e pertinentemente, Ceretti & Cornelli (ibidem)[27] evidenziano che, in epoca contemporanea, lo Stato democratico-sociale si sta sempre più trasformando in uno Stato di polizia dominato da una grande domanda di sicurezza. Di più, il securitarismo esasperato genera ricchezza per le imprese impegnate nell'installazione di sistemi di antifurto e di vigilanza. Sicché, la tutela dei consociati deboli e privi di mezzi di sostentamento è soppiantata dalla diffidenza collettiva e dal ricorso al Diritto Penale al fine di controllare e neutralizzare sacche di marginalità e povertà percepite come criminogene. Il povero ed il deviante si trasformano in potenziali delinquenti indegni di far parte della realtà urbana.

Dunque, l'interventismo e lo welfare vengono avvertiti come inutili, in tanto in quanto essi tolgono risorse alla difesa dei cittadini onesti e meritevoli di tutela. Non è tollerata, nel populismo penale, alcuna devianza, nemmeno quella astrattamente pericolosa. Questo eccessivo ed esasperato securitarismo è stato negativamente criticato pure da Baratta (2001)[28], secondo cui “dal passaggio da una concezione costituzionale della sicurezza come bene pubblico a quella che la intende come un diritto individuale, i leaders populisti traggono un grande giovamento, ma sarebbe semplicistico ritenere questi ultimi come i principali responsabili di una torsione concettuale che, semmai, affonda le sue radici nelle tendenze all'iper-individualismo. Alla de-istituzionalizzazione ed alla privatizzazione che, da molti decenni, si stanno affermando nelle democrazie occidentali […]. Sono politiche criminali  che, con la promessa di rassicurare, finiscono per alimentare un cortocircuito delle democrazie contemporanee. [Ormai] la Legislazione europea e nordamericana sulla sicurezza urbana […] ha introdotto misure che tendono ad estendere l'area penalmente rilevante e ad anticipare la soglia della punibilità”.

La situazione evidenziata da Baratta (ibidem)[29] mette in luce, seppur implicitamente, il divario abissale tra le civiltà industrializzate e quelle rurali. In effetti, sino al boom economico degli Anni Sessanta e Settanta del Novecento, la quieta vita agricola era completamente avulsa dal securitarismo ansiogeno venutosi a creare nei decenni successivi. Per cui, nella società pre-industriale, i piccoli borghi contadini non necessitavano di una Giuspenalistica ossessiva ed onnipresente fondata sul ricorso esasperato al carcere. Il mondo rurale era munito di valvole di sfogo in grado di contenere le devianze meno allarmanti attraverso strumenti riabilitativi meta-normativi ed extra-giuridici. Viceversa, in epoca attuale, ogni minimo disturbo della pace sociale è giuridificato e penalmente sanzionato. Del pari, Ruotolo (2012)[30] nota che “il diritto a non avere paura sta trasformando la sfera pubblica perché esso è prioritario e si contrappone ad altri diritti (p.e., quelli alla casa, alla cura, alla protezione sociale e lavorativa) finendo per delegittimarli. In Europa, il tema della sicurezza urbana […] ha comportato una riallocazione di risorse pubbliche dallo welfare a misure di disciplinamento e di controllo […]. In alcune città statunitensi, per esempio, sono state sperimentate le zone rosse: interi quartieri, di solito turistici o centrali, in cui non è possibile accedere se si è stati anche solo denunciati per alcuni tipi di reato […]. Il riconoscimento del diritto a non avere paura porta con sé la moltiplicazione esponenziale delle richieste di protezione e, dunque, l'espandersi dell'area penale e della sorveglianza sia pubblica sia privata”.

Pertanto, anche Ruotolo (ibidem)[31] mette in risalto che il populismo penale è antinomico rispetto alla ratio costituzionale post-bellica di “Stato democratico-sociale”, giacché la sete di sicurezza porta non alla riabilitazione, bensì alla emarginazione del debole bisognoso di interventi pubblici di sostegno. Nella civiltà della “zero tolerance” non v'è posto né per la devianza innocua né per la povertà. Ogni risorsa viene canalizzata in modo da (iper)garantire la quiete pubblica, anche quando il “nemico” anti-sociale non pone in essere condotte strettamente anti-giuridiche. Cornelli (2018)[32] giunge ad asserire che “si tratta di politiche di acting out, ossia misure che intendono rassicurare il prima ed il più velocemente possibile, senza preoccuparsi degli effetti che producono: aumentare le pene ed introdurre nuovi reati è una risposta semplice e comprensibile a tutti […]. Così le politiche di sicurezza comunicano, in modo obliquo e confuso, ciò che non sarebbe (ancora) accettabile manifestare apertamente, vale a dire quel sentimento diffuso di sfiducia verso la democrazia, che con i suoi checks and balances (pesi e contrappesi), i suoi principi di Stato di Diritto (rule of law), le sue conquiste civili e sociali e le sue forme di rappresentanza non è ritenuta più in grado di garantire sicurezza e benessere”.

 

Le radici culturali del populismo penale

Garland (2004)[33] sottolinea che “buona parte della legislazione penale è stata adottata per contenere le paure diffuse di quei gruppi, comunità o categorie di persone che hanno avuto maggiore possibilità di premere sui governi perché agissero a loro difesa. Il Diritto Penale è il campo in cui le sensibilità collettive s'incrociano e si scontrano per ottenere forme immediate di legittimazione. La fissazione del limite tra ciò che è sanzionabile e ciò che non lo è costituisce una via facile per dare risposta alle pressioni popolari, che esprimono anche mutamenti culturali importanti”. Come si può notare, secondo Garland (ibidem)[34] la nomogenesi penale è tutt'altro che egualitaria, in tanto in quanto il Diritto Penale viene prodotto o, eventualmente, novellato grazie alla volontà dei gruppi socialmente più influenti.

Per conseguenza, gli individui borderline, devianti e minoritari non possiedono alcun ruolo all'interno del processo legislativo. A tal proposito, negli Anni Novanta del Novecento, Ruggiero parlava dell'esistenza di un “Diritto [Penale, ndr] dei potenti” il cui iter formativo non segue alcuna ordinaria regola democratica. La Giuspenalistica odierna non tutela le minoranze; anzi, essa criminalizza condotte anti-conformistiche che provocano disagio presso i ceti più elevati. Ora, si comprende agevolmente che questa anti-democraticità del Diritto Penale apre la strada a quel populismo penale dittatoriale ed auto-conservativo che reprime, con l'etichettamento, ogni pur minima contestazione, anche se essa non cagiona alcuna lesione o messa in pericolo di beni normativamente tutelati dall'Ordinamento. Tuttavia, entro tale perverso meccanismo demagogico, è e rimane fondamentale l'uso distorto dei mass media, ivi compresa la rete web. P.e., Postel (2019)[35] asserisce che “si deve mettere in risalto il ruolo dei mass media nel fomentare le paure sociali, [e] la pressione [massmediatica] di gruppi di interesse che agiscono con tecniche di manipolazione comunicativa del consenso […]. Oppure, si consideri pure la spregiudicatezza delle campagne di odio che anticipano decisioni politiche […]. Populistiche sono anche quelle misure che, nutrendosi di sentimenti collettivi ostili, individuano capri espiatori o nemici pubblici ed inaspriscono le pene limitando le garanzie processuali”.

Gli asserti di Postel (ibidem)[36] ricordano da vicino la propaganda nazista contro gli Ebrei nella prima metà del Novecento. Anche in epoca attuale, la televisione, Internet e, più latamente, la cronaca giornalistica hanno il potere di veicolare messaggi xenofobi o, più semplicemente, violenti, con la conseguente invocazione di una Giuspenalistica duramente severa e repressiva. A partire dalla diffusione nazional-popolare della carta stampata, i mass media hanno assunto il ruolo di portavoce dei raggruppamenti politici che strumentalizzano la normazione penalistica al fine della raccolta di facili consensi. I mezzi di comunicazione in malafede amplificano a dismisura episodi bagatellari di microcriminalità per creare un “nemico” da annichilire grazie ad un utilizzo ipertrofico della sanzione criminale e della detenzione rigorosamente intra-muraria. Il Diritto Penale, per tal via, si trasforma in un mezzo sovietico di imposizione di pensieri socio-politici dittatoriali e fortemente repressivi.

Analogo parere è espresso da Finchelstein (2019)[37], a parere del quale “negli ultimi decenni, proprio riprendendo il significato di degenerazione dei processi democratici, si parla diffusamente di populismo in Europa, negli Stati Uniti ed in molti Paesi dell'America Latina, con riferimento ad un processo socio-politico che spinge per l'affermazione di forme di democrazia autoritaria svuotando di senso e rendendo sterili le Costituzioni e le Istituzioni vigenti”. Pertanto, Finchelstein (ibidem)[38] sostiene che il populismo penale si pone in netto contrasto con quello che, in Italia, è il principio di eguaglianza sancito nel comma 1 Art. 3 Cost. . La contemporanea distorsione populistica del Diritto Penale cagiona un trattamento anti-democratico che distingue tra chi influenza la nomogenesi penalistica e chi, invece, la deve subire senza poter partecipare ad alcun processo decisorio. Il cittadino c.d. “debole” è tenuto a subire una Legislazione completamente contraria alle regole ordinarie della democrazia socio-interventistica.

La deminutio dell'eguaglianza dei consociati nella formazione del Diritto è sottolineata pure da Levitsky & Ziblatt (2018)[39], ovverosia, secondo detti Dottrinari anglofoni, “il tratto anti-sistemico del progetto populista acquista significato nei termini di un'involuzione demagogica dell'impianto democratico delle società occidentali contemporanee […]. Il populismo è, innanzitutto, una strategia politica attraverso cui un leader, caratterizzato da un alto grado di personalismo, esercita o si propone di esercitare il potere di governo basandosi sul supporto diretto ed immediato (prescindendo dunque dalle mediazioni istituzionali o di organizzazioni collettive) di un numero ampio di sostenitori, in gran parte non organizzati. Non si tratta, dunque, semplicemente di uno stile o di una modalità di fare politica che cerca esplicitamente il consenso di cittadini più o meno organizzati […], ma di una strategia in cui il richiamo diretto al popolo è operato da un leader che pretende di essere il suo unico legittimo rappresentante, creando una forte connessione sentimentale, al punto di fondere la propria immagine con quella del suo popolo, e che si propone, in tal modo, di rigenerare la società, negando legittimità ad istanze diverse da quelle da lui incarnate”.

 

 

[1]Fiandanca, Populismo politico e populismo giudiziario, Criminalia, 2013

 

[2]Pulitanò, Populismi e penale. Sull'attuale situazione spirituale della giustizia penale, Criminalia, 2013

 

[3]Pulitanò, op, cit.

 

[4]Palazzo, Paura del crimine, rappresentazione mediatica della criminalità e politica penale (a proposito di un recente volume), MediaLaw, 3/2018

[5]Palazzo, op. cit.

 

[6]Ferrajoli, Democrazia e populismo, Rivista AIC, 3/2018

 

[7]Ferrajoli, op. cit.

 

[8]Donini, Populismo e ragione pubblica. Il post-illuminismo penale tra lex e ius, Mucchi, Modena, 2019

 

[9]Donini, op. cit.

 

[10]Amodio, A furor di popolo. La giustizia vendicativa gialloverde, Donzelli, Roma, 2019

 

[11]Amodio, op. cit.

 

[12]Risicato, Diritto alla sicurezza e sicurezza dei diritti: un ossimoro invincibile ? Giappichelli, Torino, 2019

 

[13]Risicato, op. cit.

 

[14]Risicato, op. cit.

 

[15]Pratt, Penal Populism, Routledge, London/New York, 2007

 

[16]Pratt, op. cit.

 

[17]Bottoms. The phylosophy and politics of punishment vand sentencing, in Clarckson & Morgan, The politics of sentencing reform, Clarendon Press, Oxford, 1995

[18]Newburn, Youth, crime and justice, in Maguire & Morgan & Reiner, The Oxford Handbook of Criminology, Oxford University Press, Oxford, 1997

 

[19]Newburn, op. cit.

 

[20]Ginzburg, Paura, reverenza, terrore. Cinque saggi di iconografia politica, Adelphi, Milano, 2015

 

[21]Ginzburg, op. cit.

 

[22]Cornelli, La paura nel campo penale: una storia del presente, Quaderno di storia del penale e della giustizia, 1/2019

 

[23]Cornelli, op. cit.

 

[24]Cohen, Folk Devils and Moral Panics: The Creation of the Mods and Rockers, Martin Robertson, Oxford, 1972

 

[25]Cohen, op. cit.

 

[26]Ceretti & Cornelli, Del diritto a non avere paura. Note su sicurezza, populismo penale e questione democratica. Diritto penale e processo, 11/2019

 

[27]Ceretti & Cornelli, op. cit.

 

[28]Baratta, Diritto alla sicurezza o sicurezza dei diritti ? In Anastasia & Palma, La bilancia e la misura – giustizia, sicurezza e riforme, Franco Angeli, Milano, 2001

 

[29]Baratta, op. cit.

 

[30]Ruotolo, Sicurezza, dignità e lotta alla povertà, Dal diritto alla sicurezza alla sicurezza dei diritti, Editoriale Scientifica, Napoli, 2012

 

[31]Ruotolo, op. cit.

 

[32]Cornelli, La politica della paura tra insicurezza urbana e terrorismo globale, Criminalia 2018

 

[33]Garland, La cultura del controllo. Crimine e ordine sociale nel mondo contemporaneo, traduzione de Il Saggiatore, Milano, 2004

 

[34]Garland, op. cit.

 

[35]Postel, Populism as a Concept and the Challenge of U.S. History, Ideas (online), 14/2019

 

[36]Postel, op. cit.

 

[37]Finchelstein, Dai fascismi ai populismi. Storia, politica e demagogia nel mondo attuale, Donzelli editore, Roma, 2019

 

[38]Finchelstein, op. cit.

 

[39]Levitsky & Ziblatt, How Democracies Die: What History Reveals About Our Future, Viking, Harvard, 2018