Tra ius scriptum e diritto vivente: il caso degli infermieri baresi e l’esercizio abusivo della professione
Tra ius scriptum e diritto vivente: il caso degli infermieri baresi e l’esercizio abusivo della professione
Il recente rinvio a giudizio di quindici infermieri baresi per presunto esercizio abusivo della professione offre interessanti spunti per una riflessione non solo giuridica ma anche valoriale: fino a che punto la norma penale può intervenire quando la condotta, pur formalmente irregolare, non arreca danno concreto né espone la collettività a rischio?
Il caso mette in luce il contrasto, sempre attuale, tra formalismo legislativo e realtà sostanziale dell’attività professionale, rivelando la tensione costante tra ius scriptum e diritto vivente.
Le indagini, condotte dai NAS su delega del Ministero della Salute, hanno confrontato gli elenchi del personale infermieristico con quelli degli Ordini professionali, rilevando iscrizioni tardive — in alcuni casi avvenute decenni dopo l’inizio del servizio.
La normativa di riferimento parte dal D.M. 739/1994, che già prevedeva l’obbligo del titolo abilitante, e si completa con la Legge 3/2018 (c.d. Legge Lorenzin), che ha reso obbligatoria l’iscrizione all’Albo per l’esercizio della professione infermieristica. In precedenza, il sistema consentiva prassi amministrative più flessibili, che spiegano il ritardo di molte iscrizioni formali.
Il reato contestato è quello di esercizio abusivo della professione ex art. 348 c.p., che tutela l’interesse pubblico all’affidabilità e alla correttezza delle professioni regolamentate, nonché, nel caso delle professioni sanitarie, la sicurezza delle prestazioni rese ai cittadini.
Va ricordato che tale disposizione configura un reato di pericolo astratto, nel quale l’offesa è presunta sulla base della sola condotta tipica: l’ordinamento ritiene di per sé pericoloso l’esercizio di attività riservate senza il possesso dei requisiti legali. Ciò nondimeno, il giudice è chiamato a verificare che la condotta sia effettivamente idonea a porsi in contrasto con la ratio della norma, poiché — come affermato dalle Sezioni Unite (Cass., SS.UU., 23 marzo 2012, n. 11545) — il principio di offensività in concreto opera come limite implicito di ogni incriminazione, impedendo che siano punite condotte meramente formali o prive di reale attitudine lesiva.
In questa prospettiva, assume rilievo la distinzione tra abusività formale e abusività sostanziale: la prima, ancorata allo ius scriptum, si fonda sulla mera assenza del requisito legale (come l’iscrizione all’albo o la registrazione in un elenco professionale); la seconda, invece, guarda alla realtà concreta dell’attività svolta e alla sua effettiva capacità di ledere l’interesse pubblico tutelato. Quest’ultimo approccio valorizza il principio di offensività in concreto e riconosce come penalmente rilevante solo la condotta che incide davvero sulla funzione di garanzia propria della professione.
Nel caso degli infermieri baresi, gli imputati erano titolari di titolo abilitante, svolgevano le loro mansioni in strutture pubbliche e sotto costante vigilanza sanitaria. In questo contesto, l’assenza o il ritardo dell’iscrizione all’albo non sembra integrare un abuso sostanziale della professione, ma al più un’irregolarità meramente formale.
Eppure, il G.U.P. non ha ritenuto di poter chiudere la partita in limine litis, ossia di escludere in via preliminare l’offensività o la sussistenza del reato, rinviando la valutazione al dibattimento. Una scelta che segnala la difficoltà, ancora oggi, di far prevalere una lettura sostanzialistica del diritto penale su un approccio meramente formale o burocratico.
In questo contesto si pone anche la questione dell’errore sul fatto, disciplinato dall’art. 47 c.p. La norma stabilisce che l’errore su un elemento del fatto che costituisce reato esclude il dolo e, quando incolpevole, può comportare anche l’esclusione della colpa. In termini generali, l’errore rilevante è
quello che incide sulla rappresentazione soggettiva dell’agente: quando il soggetto, per una falsa percezione della realtà, non si rappresenta un elemento costitutivo del reato, manca la coscienza e volontà dell’azione antigiuridica.
Nel caso di specie, gli infermieri hanno operato per anni in forza di contratti regolari, sotto il controllo delle amministrazioni e con il consenso implicito dell’ASL; circostanze che rendono plausibile ritenere che non si siano rappresentati la natura abusiva della propria attività. Si tratterebbe, pertanto, di un errore su un elemento essenziale del fatto — l’abusività sostanziale dell’esercizio — e non di un mero errore di diritto, il quale, come noto, non scusa (art. 5 c.p.).
La giurisprudenza ha più volte affermato che l’errore sul fatto può incidere sull’elemento soggettivo del reato doloso, qualora l’agente non abbia rappresentato correttamente uno degli elementi costitutivi — materiale o soggettivo — del tipo (Cass. pen., Sez. VI, 21 giugno 2017, n. 30827). Tale impostazione si inserisce nella più ampia prospettiva di un diritto penale sostanziale, attento non solo alla forma della violazione ma alla reale percezione soggettiva dell’illiceità, in linea con il principio di colpevolezza sancito dall’art. 27 Cost.
La vicenda induce quindi a una riflessione più ampia sul delicato equilibrio tra i principi di legalità e ragionevolezza.
Il diritto penale, in ossequio alla natura di extrema ratio, non può trasformarsi in uno strumento di mera tutela formale, pena il rischio di svuotare di senso la sua funzione di garanzia sostanziale. Il caso degli infermieri baresi mostra, ancora una volta, che la legalità non può esaurirsi nella rigidità dello ius scriptum, ma deve saper dialogare con il diritto vivente: quello che nasce dall’esperienza concreta, dalla prassi applicativa e dal senso di giustizia che anima la collettività.