L’enigma del diritto penale secondo Jorge Luis Borges: “La lotteria a Babilonia”

“La lotteria a Babilonia” di Jorge Luis Borges
“La lotteria a Babilonia” di Jorge Luis Borges

Babilonia, essa stessa, non è altro che un infinito gioco d'azzardo

J. L. Borges, Finzioni

 

1. Introduzione

Tra il 1935 e il 1944 Jorge Luis Borges scrisse una serie di racconti che furono poi pubblicati insieme nella raccolta “Finzioni”, divisa in due parti: “Il giardino dei sentieri che si biforcano” e “Artifici [1].

Letteratura onirica, fantastica, simbolica, irreale: la quantità delle definizioni attribuite alle Finzioni testimonia la difficoltà di ridurle a un genere sperimentato e definire il tracciato e lo scopo del viaggio proposto da Borges.

Una costante sembra comunque emergere: l’autore offre il suo sguardo ai lettori ma al tempo stesso li invita a diffidarne, a servirsi dei loro occhi ma a diffidare anche di questi, a seguire le sue strade ma a cercarne anche altre.

Le Finzioni sono un continuo rimando da una prospettiva a un’altra ed è proprio questa infinitezza di piani che, paradossalmente, sembra definire la realtà: il reale non è mai unico e fisso, è sempre molteplice e mutevole.

Il racconto “La lotteria a Babilonia”, inserito nella prima parte delle Finzioni, è un magnifico esempio della costruzione borgesiana.

È anche altro: la rappresentazione della lotteria come strumento essenziale di definizione dell’identità e dell’etica pubblica babilonese e mezzo privilegiato per attribuire a ciascuno il suo fanno sì che Borges entri legittimamente a far parte della cerchia di coloro che hanno provato a comprendere la genesi del diritto penale e le pulsioni umane che ne sono state alla base.

Più d’uno, per la verità, sostiene che il diritto penale sia il prodotto di una scienza e che di conseguenza siano scienziati coloro che ne definiscono la struttura e le coordinate e, forse, anche gli altri che per funzione istituzionale traggono da quel prodotto quanto serve per identificare fattispecie, condotte e sanzioni là dove occorra.

L’ovvio corollario è che solo questi scienziati hanno le carte in regola per affrontare e risolvere gli enigmi penali, soprattutto quando si ha a che fare col segreto dei segreti, l’origine della colpa e della pena e l’affermazione della loro necessità.

Ma questo modo di vedere le cose è solo uno dei tanti possibili.

Si può opporre, e si intende farlo, che il diritto penale, in quanto costruzione di uomini che riflettono su uomini e stabiliscono cause ed effetti che incidono sulla pelle di uomini, dovrebbe essere soprattutto materia di filosofi, letterati, poeti, neuroscienziati, poiché costoro, ben più dei giuristi, sembrano poter comprendere la natura umana.

La Lotteria a Babilonia, quali che fossero gli scopi narrativi di Borges, merita quindi di essere presa in considerazione come spiegazione dell’enigma penale.

 

2. Il racconto

Chi narra è un uomo di Babilonia: è stato un potente e uno schiavo, ha comandato e servito, ha conosciuto successo e fasti, carcere e pene, speranza e terrore.

Non è una condizione insolita la sua, anzi: tutti i babilonesi hanno un destino simile.

Non è neanche per caso – anzi sì ma è un caso elevato a sistema - che questo avviene: c’è una ragione precisa ed è la lotteria, nata per iniziativa di alcuni affaristi e riservata ai plebei.

Pochi spiccioli bastavano a comprare oggettini d’osso o pergamena sui quali era inciso un simbolo. Seguiva un sorteggio e i fortunati ricevevano monete d’argento.

Questa prima versione non funzionò: era priva di virtù morale – non ci sono impegno e travaglio nella fortuna - e, rivolgendosi solo alla speranza, non sollecitava abbastanza l’interesse del pubblico.

Si fece un primo cambiamento, inserendo un esito infausto ogni trenta favorevoli: il suo “beneficiario” era tenuto a pagare una multa che poteva essere ingente.

Questo semplice espediente risollevò le sorti della lotteria e ne fece un’abitudine di massa al punto che chi le si sottraeva era considerato con disprezzo.

Ben presto la riprovazione si estese a chi, avendo giocato e perso, si rassegnava a pagare la multa.

Nessuno pagò più temendo di essere giudicato una persona da poco ma questo espose a perdite la Compagnia – così si cominciò a chiamare l’entità responsabile della lotteria – che dovette correre ai ripari.

Si iniziò a processare i perdenti morosi e a condannarli al pagamento del dovuto o, in alternativa, a qualche giorno di carcere. Tutti i condannati optarono per la clausura al punto che si decise di omettere la lista delle multe ed esporre direttamente i giorni di prigione corrispondenti ai numeri sfavorevoli. Questa sublimazione metafisica accrebbe enormemente il potere della Compagnia e le conferì una dimensione ecclesiastica.

Non bastò. L’apparizione di elementi non pecuniari piacque così tanto che si pretese l’aumento dei numeri avversi: i moralisti avevano infatti osservato che il benessere materiale non serviva alla felicità e gli edonisti avevano aggiunto che la delizia stava nell’alternanza tra speranza e terrore.

Questi movimenti furono alla base di un nuovo ordine: la Compagnia ottenne la pienezza dei poteri pubblici che le erano indispensabili per provvedere alle sue complesse e molteplici funzioni, tutti i babilonesi parteciparono automaticamente ai sorteggi tenuti ogni sessanta giorni.

Gli esiti della lotteria divennero incalcolabili: i fortunati erano ammessi al concilio dei maghi o potevano sbarazzarsi di un nemico o ottenere il favore delle donne che inquietavano i loro sogni; alla sfortuna potevano invece seguire morte, mutilazioni o infamia.

La scelta dei possibili esiti era un segreto gelosamente custodito dalla Compagnia i cui emissari si servivano di spie e astrologi per scoprire i desideri e le paure più recondite dei babilonesi. Allo stesso fine furono scelti luoghi appartati dove ognuno poteva depositare delazioni di ogni sorta.

Non sempre, come è naturale, le notizie raccolte erano esatte e qualcuno mormorò e protestò. Fu facile per la Compagnia diffondere un messaggio che invitava a considerare gli errori non come una contraddizione ma come uno strumento che corroborava l’influenza del caso nell’ordine del mondo.

La spiegazione fu accettata e originò discussioni e infine una proposta: se la lotteria era un’infusione di caos nel cosmo, non sarebbe stato forse opportuno portare questa verità alla pienezza delle sue conseguenze e far sì che fosse sempre e solo il caos a governare ogni fase del gioco?

La proposta fu accolta e provocò una vasta riforma.

Poté così accadere, ad esempio, che un primo sorteggio dettasse la morte di un uomo, un secondo proponesse una molteplicità di possibili esecutori, un terzo indicasse il nome del carnefice, un quarto potesse ribaltare il primo sorteggio e quindi sostituire una sorte felice alla morte oppure renderla più crudele, un quinto dispensasse gli esecutori dal loro compito e così via.

Oggi il caso permea interamente di sé ogni aspetto della vita dei babilonesi, anche quello più minuto: chi acquista una dozzina di anfore di vino non si meraviglia affatto se una di esse contiene una vipera, chi redige un contratto vi inserisce deliberatamente un dato erroneo, chi pubblica libri si premura che nessun esemplare sia uguale agli altri.

Incredibilmente, c’è chi dubita che la Compagnia esista davvero, chi pensa che si sia estinta da secoli e chi invece giura che durerà fino alla notte dei tempi.

Alcuni, vili al pari dei dubbiosi ed eresiarchi, arrivano a dire che è compito vano interrogarsi sulla realtà di quella tenebrosa corporazione, poiché “Babilonia, essa stessa, non è altro che un infinito gioco d'azzardo”.

 

3. Il caso elevato a Grundnorm

Nella Babilonia borgesiana ci sono un potere pubblico, la Compagnia, un ordinamento giuridico, la lotteria, e un principio generale, il caos che ne determina gli esiti e gli effetti.

Come è frequente nelle esperienze umane, è un assetto nato dall’alto per interessi elitari di natura economica: la lotteria è sì un passatempo riservato ai plebei ma progettato da affaristi e destinato a produrre utili.

La configurazione originaria non funziona, troppo scialbo e prevedibile è il suo meccanismo.

È la prima lezione per i gestori del gioco – ma si potrebbe chiamarli anche padri costituenti perché questo sono - e non la sprecheranno: la merce si vende e il profitto si genera solo quando si sollecitano le corde più intime dei compratori.

Già, ma quali? La promessa di qualche moneta non funziona per i plebei, figurarsi per i benestanti.

Ed ecco la prima di tante intuizioni geniali: l’ansia. A chi gioca non sarà più permessa la tranquillità, dovrà convivere con la preoccupante consapevolezza che, se gli andasse male, potrebbe non cavarsela con la perdita degli spiccioli investiti per partecipare alla lotteria.

È il cambiamento che tutti attendono. L’inquietudine indotta da quel semplice moltiplicatore della sfortuna centra il bersaglio, attrae ogni ceto, diventa un bisogno e insieme un dovere, genera riprovazione a carico di chi le resiste.

Edificate le basi per la dipendenza, si crede a ragione che tanto più è radicata, meglio è.

Il terrore è meglio dell’ansia, l’esito avverso pagato con il dolore fisico e la perdita della libertà è più emozionante di una banale pena pecuniaria per quanto alta possa essere.

Non basta ancora. Si introducono nuove varianti. Secondo l’esito del sorteggio, si potrà perdere tutto o avere tutto, entrare nell’élite sociale oppure precipitare tra i reietti.

Si constata poi che il terrore e il desiderio, se sono attrattivi quando si rischia in proprio, diventano irresistibili quando li si può proiettare su altri, acquisendo il potere di dannare un nemico o di possedere la donna desiderata.

Infine, si comprende la verità ultima. Ciò che i babilonesi bramano sopra ogni altra cosa e di cui non sapranno mai più fare a meno è il caso, la sublime certezza che nulla è certo nelle loro vite e che così sarà nei secoli e nei millenni.

Si può essere schiavi ma sperare che siano già in moto i meccanismi che permetteranno di entrare nel consiglio dei maghi, oppure temere il contrario.

Si può incantarsi alla vista dei giardini pensili di Babilonia ma convivere nello stesso tempo con l’idea che al prossimo sorteggio potrebbe seguire la propria condanna a morte, oppure sperare il contrario.

Si ripudia perfino il concetto di errore, riconfigurandolo come ordinario fattore di produzione del caos.

La perenne incertezza e l’immanente possibilità di un cambio di destino diventano dunque il bene supremo dei babilonesi e la causa giustificatrice dell’intera regolazione delle loro vite.

Sullo sfondo, immanente e vaga anch’essa, agisce la Compagnia.

Nessuno sa davvero cosa sia, chi ne faccia parte, come agisca, quali siano i suoi fini.

È perfino incerto se esista davvero.

Ma questo non impedisce di attribuirle natura divina e di considerare vile ed eretico chiunque osi metterla in discussione.

 

4. Le similitudini

Per quanto strano possa sembrare, l’ordinamento giuridico babilonese descritto da Borges e il diritto penale come lo conosciamo noi contemporanei condividono varie caratteristiche identitarie.

La seduzione del potere punitivo che attira chi lo detiene tanto quanto chi potrebbe finirne vittima.

L’esoterismo di quel potere.

I suoi sacerdoti/maghi/stregoni che praticano riti altrettanto esoterici nella forma, nel linguaggio, nelle procedure, nelle decisioni, negli effetti e nella loro durata.

La superfetazione del giudizio che non è più, se mai lo è stato, limitato a una specifica contestazione, e pretende di estendersi all’intera vita di chi lo subisce e di aprire su di essa un dibattito infinito.

La pena che non è più, se mai lo è stata, retribuzione rieducativa ma ostracismo e ghettizzazione e annichilazione e ostacolo perenne.

La pretesa che i suoi effetti siano marchiati sulla carne dei destinatari e vi rimangano come una lettera scarlatta.

La vittima del male che si dice commesso, da cui si pretende indignazione, implacabilità, spietatezza, essendo questi sentimenti gli unici considerati consoni alle aspettative pubbliche.

Lo spettacolo che ruota attorno all’accusa, al giudizio e alla pena, le folle di plaudenti e di curiosi, il brivido eccitato che percorre le loro schiene.

Gli improvvisi rovesciamenti di sorte con colpevoli sottratti alla colpa e innocenti che vi sono attratti.

Prima di tutto e sopra tutto il caso che agita tutte le cose fino a renderle indistinte, che incorpora l’errore e ne fa strumento attivo della propria geometrica potenza, che crea bisogni e intercetta desideri ma è pronto a distruggere entrambi, che incute speranza e terrore.

E infine, al di sopra del caso, la Compagnia.

Sarebbe vano andare a cercarla o tentare di rintracciare i suoi emissari, la Compagnia è chiunque e dovunque.

La misteriosa entità che tutto conosce perché tutto spia e tutto sorveglia.

A suo agio nei salotti e nei bassifondi perché possiede i potenti e i diseredati e può conservarli al loro posto o travolgerli se così le piaccia.

In confidenza con la vita e con la morte perché anche di esse è padrona.

Babilonia non è così lontana.

 

[1] Tra le molte edizioni italiane delle Finzioni, si segnala quella di Einaudi del 2014, con traduzione di Franco Lucentini.