Joseph Cornell: novanta minuti di ritardo

stazione
stazione

Joseph Cornell: novanta minuti di ritardo


Tra Roma Tiburtina e Roma Termini lo spazio-tempo sembrava dilatato e la dimensione reale cominciava a deformarsi; oltre il vetro mi pareva di non vedere nulla, nessun segno di civiltà, come fossi un’astronauta abbandonata su un altro pianeta, attorniata da un buio pesto privo di galassie e insegne luminose. La fame che avevo alle 22:30 mi rendeva spiritualmente acuta, ma troppo impaziente di scendere da quel macchinario e addentare qualcosa.

Era il tempo, tuttavia, quel tempo che sembrava irrimediabilmente perduto a ferirmi e non lo sopportavo. Che cos’è un ritardo del treno, d’altronde, se non tempo rubato, ulteriore tempo rubato alla nostra già sintetica esistenza? Spazientita mi sedetti al limite del sedile, in procinto di alzarmi, pur sapendo che avrei dovuto attendere ancora a lungo in quella posizione e famelica guardai in giro in cerca di un significato.

 Mi venne in mente Hemingway e quel capitolo dal titolo “La fame era un’ottima disciplina” in cui scrive: «Lì potevi sempre entrare al museo del Luxembourg e tutti i quadri erano più intensi e più chiari e più belli se eri a pancia vuota con la fame da lupo. Io imparai a capire Cézanne molto meglio e a vedere precisamente come faceva i paesaggi quando avevo fame. Mi domandavo sempre se anche lui non fosse affamato quando dipingeva, ma pensavo che era possibile che si fosse soltanto dimenticato di mangiare. Era uno di quei pensieri assurdi ma illuminanti che ti vengono quando non hai dormito oppure sei affamato. Più tardi pensai che Cézanne probabilmente era affamato in un altro senso”.

Persa in quel riferimento, mi accorsi, solo perché sollecitata dalla gestualità, che una signora seduta davanti a me mi stava parlando: “È un IPhone? Posso chiederle se mi presta il caricabatterie? Sa, questo ritardo non me l’aspettavo e rischio di non riuscire ad avvisare i miei”. Glielo porsi con gentilezza, mentre la studiavo. “Ecco il modo per dare valore al tempo perduto!” pensai “Conoscere lei, questo mi offre il destino e io voglio sapere di lei” come quando ti spiegano qualcosa di nuovo o leggi un libro e ti imbatti in un concetto vero.

Il vestiario non raccontava abbastanza e nemmeno la pettinatura o gli accessori potevano indurmi a qualche ipotesi sulla sua personalità, ma gli occhi scintillavano senza sosta, sembrava non risentissero di quel ritardo né dei morsi della fame. Le parole testimoniavano cura e la costruzione del periodo raccontava qualcosa di diverso dalla sua figura, forse un’originalità, un’autenticità alternativa, non affettata, ma desiderosa.

Rossella mi raccontò di essere in pensione e di aver svolto per anni un ruolo diplomatico – organizzativo, di raccordo tra diverse istanze, diverse esigenze, diverse menti, aveva mediato per tanti anni in quegli uffici comunali e aveva concluso la sua carriera sì soddisfatta, ma intenzionata a dedicarsi ad altro, a qualcosa che la facesse vibrare.

“A che cosa, Rossella?”

 “All’arte!”

Frequentava l’Accademia di Belle Arti a Roma e aveva sostenuto una tesi su un artista statunitense, Joseph Cornell, uno dei più importanti artisti visivi e registi sperimentali del ‘900, autodidatta, molto colto, scultore ma soprattutto pioniere dell’assemblaggio. Mi raccontò delle sue Shadow Boxes. Scatole di legno, per l'appunto, chiuse da un vetro, all'interno del quale venivano assemblati oggetti di diversa natura, facenti parte della sua vasta collezione personale. I criteri di assemblaggio erano alquanto casuali, infatti egli credeva che oggetti prelevati negli angoli più disparati della città e composti insieme potessero dar vita a un'opera d'arte. Insomma, creava legami, connessione tra le cose e queste cose aprivano mondi.

Anche Rossella era un’artista e mi mostrò alcune sue creazioni in cui le sedie erano protagoniste “Storie di una sedia di posa nell’atelier Modigliani”, opere belle davvero che, se avessi avuto una casa tutta mia, magari in campagna o al mare, ne avrei voluta una, magari da mettere in una nicchia ben illuminata della parete o accostata ad altri estri creativi miei o di altri; ma non avevo né la parete né la casa.

“Brava!” esclamai e pensai “Sapevo che questo tempo non sarebbe stato perduto!”

Ispirata aggiunsi “Bisogna lasciarsi guidare dalla bellezza e vivere così, seguendola o cercando in ogni dove anche quando si nasconde”.

Sembrò colpita da quella osservazione che descriveva davvero il mio modus vivendi e continuammo a parlare di arte, del Santuario della Fortuna Primigenia di Palestrina, dell’ultra mondo delle icone e della mostra su Caravaggio a palazzo Barberini che avremmo voluto vedere al più presto. Ogni tanto controllavamo la schermata e l’app per commentare i minuti di ritardo del treno che aumentavano senza ritegno, in barba al nervosismo che quella carrozza conteneva a stento. Un passeggero, che avevo visto far su e giù, stava ormai manifestando chiari segni di impazienza, lo si capiva perché l’italiano aveva lasciato posto al dialetto che ora, al telefono, s’era fatto così stretto da divenire incomprensibile, ma rinunciai a seguire anche quella storia e ridimensionai la mia fame di umanità, focalizzando sulla donna dagli occhi scintillanti.

“Mi capita di stare spesso con i giovani, sai, intendo con i ragazzi che sono lì con me all’università e pensano davvero di costruire il loro futuro con l’arte, mi fanno tenerezza, perché per me ora è un godimento, ma solo ora, dopo aver lavorato tanto per la mia indipendenza… loro non sanno ancora che il mondo reale è lontano da questa creatività e mi dispiace vederli così illusi”.

Illusi?

Mentre riflettevo su quella affermazione il treno stava ormai frenando, eravamo arrivati a Termini e tutti si muovevano inquieti verso l’uscita. Imbastii una risposta confusa, volevo dissentire, dirle che quella roba lì, quello studio, quella creatività, quella bellezza non erano cose vane, ma il suo realismo serafico accompagnato da un’esperienza pragmatica ebbe la meglio e le mie parole risultarono una farneticazione poco motivata. La salutai grata e mi ripromisi di seguire i suoi lavori.

Si alzò e mentre scendeva per scomparire tra la folla, vidi che stringeva tra le mani un libretto “Il cacciatore di immagini. L'arte di Joseph Cornell” di Charles Simic. Pensai che “cacciare le immagini” volesse dire in fondo andare a caccia di senso, lei stessa lo cercava nell’arte e nella bellezza, proprio come quei suoi giovani compagni.

Giovani ragazzi che credono nel senso della vita oltre le apparenze e le trappole della società, che si muovono con forza e determinazione verso uno scopo, che usano una razionalità pura e dinamica. Ragazzi che si fidano della vita e di un ideale che ti può cambiare la vita ogni momento, anche a sessant’anni e forse in modo più emozionante che a venti, perché l’ideale si manifesta in modo potente, dopo tanta ricerca. La giovinezza ha a che fare con questo atteggiamento del cuore, senza filtri né incrostazioni, ma crescendo ce ne dimentichiamo frenati da dubbi e paure. Basta poi una goccia di verità per risvegliarci dal torpore e ridarci senso, sangue e gioia nelle vene. E si va a caccia di immagini, di corrispondenze, di bellezza e chissà mai che in questa fede nella vita non ci si realizzi davvero in una professione appassionata, in amicizie autentiche, in un amore zampillante fino alla fine dei nostri giorni.

Si può vivere per meno di così?