Il Leprone

Il Leprone
E dunque Buscaroli/Santerno, amico degli animali, tutti, dai gatti ai grilli, dai ricci agli scorpioni, che ancora si trovano nell’assolata Romagna della “campagna”, amico dei cani (la trovatella Briciola che si divideva l’aia coi gatti indigeni), dei merli, dei piccioni e delle cavallette…
Santerno depreca fatti, parole e lettere dell’Italia cacciatrice della fine degli anni Settanta (sarebbe bello che fossero inventate, nella loro impudicizia, invece no).
Mi svegliano di colpo tre fucilate, secche e fortissime, in rapida successione. Mi precipito alla finestra, in tempo per vedere il nostro leprone filare come una saetta lungo il muro della casa. Dico il nostro, perché lo riconosco. E’ quello che tutte le sere, le sue altissime orecchie diritte sulla testa, faceva la passeggiatina, e attraversava, dignitoso e guardingo, il vialetto dei cipressi. Una sera, ci trottava davanti sulla strada, come imprigionato dal fascio dei fari dell’automobile. Fermai, spensi le luci perché se ne potesse andare. Macché. Si fermò anche lui e si sedette, in attesa. Quando rimisi in moto, ricominciò a trottare, tutto soddisfatto, fino al cancello. Ormai, l’hanno trovato. Due o tre giorni, e poi il nostro leprone sarà un coso floscio, appeso per i piedi.
Davanti alla casa, tutto intorno, imperversano un vociare, una confusione. Saranno in cinque, agitati come i loro cani, che razzolano dappertutto e annusano le piante. Nasce un putiferio di urla, invettive, discussioni. Protesto, grido. Le loro automobili mi ostruiscono il cancello. Miagolano che hanno nelle vene quella tale passione, assicurano che, avendo la lepre, hanno diritto d’inseguirla dappertutto. Replico che la lepre è sanissima, l’ho vista bene. Comici, nel loro raptus, interrompono: “Dov’è? Dov’è?”
L’affare si placa, finalmente se ne vanno, ritorno a casa dopo tre quarti d’ora.
Eravamo venuti ieri sera, molto tardi. Avevamo peregrinato tutta la giornata, tra mostre d’arte, piccole pinacoteche, pievi sparse nella campagna.
Avevamo atteso l’imbrunire davanti alla rossa mole di sant’Apollinare in classe, e poi cenato lietamente dai nostri cari amici di Ravenna. Infine, eravamo saliti in collina. Vieni a dormire in campagna, avevo detto all’amico. Io scriverò il colonnino, e tu potrai riposarti quanto vorrai. Per il colonnino avevo altre idee. La droga, la scuola, il papa polacco che sta passando di moda, gli aiuti ai paesi “poveri”. Tutte cose che si possono rimandare. E così, rispondo al lettore Gianni Italmondo, che da Albenga ha scritto a Montanelli contro “i vari signori Santerno e Co”, mettendosi “a disposizione” per “prove pratiche” in cui insegnare che cosa sia la “vera caccia”. Anche il lettore Luigi Bravi, di Desenzano, ha scritto al direttore, dicendosi “profondamente offeso dalla superficialità e dalla mancanza di ogni obiettività, con cui tale articolo (“La strage”, del 22 agosto) è stato scritto”. E insieme, rispondo ad una ventina di lettere di simile tono, che tuttavia non bilanciano il mucchio di contrari pareri, dove mi si esorta a continuare a insistere.
Prove pratiche, dimostrazioni? Per carità, ne ho di prima mano, e così eloquenti da indurmi a rinunciare a questa campagna amatissima, più che mai nobile, nel calmo andamento delle sue linee leopardiane, ora che la stagione si strugge e l’estate aspetta che stacchino i grappoli, così pieni quest’anno, per farsi imbottigliare e datare con loro, nell’archivio delle cantine. E invece, tornerò in città, a scanso d’altre fucilate e litigi che potrebbero finire male. Mi porterò, dietro, per consolarmi, la lettera del lettore Bravi, che mi assicura: “Nel silenzio di un bosco, dove un colpo di fucile suggella un atto vecchio di secoli durante il quale l’uomo torna veramente alla sua dimensione, la caduta della preda non è un atto di violenza, ma il consumarsi di un rito”. Ecco che cos’è la caccia, dice il pedagogo. Il signor Santerno “non conosce né mai si è immaginato il mondo della caccia, quello vero, non quello che Egli immagina dal chiuso del suo studio. Né ha certamente mai cercato un dialogo con questo mondo che rifiuta totalmente…”.
E’ vero, il dialogo non l’ho cercato. Mi è stato imposto, e tanto mi basta. La vigna dove preferisco passeggiare, è lordata dalle cacche dei cani, grappoli di uva strappati e gettati via dopo qualche assaggio, sono sparsi qua e là. La giornata è rovinata, lo scampolo di stagione che pregustavo, compromesso. Adesso lo so. Mi scriveranno che non ho conosciuto veri cacciatori, ma imitazioni fraudolente, brutte copie: se sapessi, i cacciatori sono cavalieri antichi, ecc. Ovvero, come mi assicura il lettore, il ritratto del cacciatore è quello “di una persona perfettamente inserita nella realtà della natura come oggi, purtroppo, si presenta e di essa sa cogliere i momenti migliori”. Sarò stato sfortunato, d’accordo. Ma siccome l’uomo, oltre che la misura di tutte le cose, è la misura di sé stesso, i cacciatori che conosco e che continuo a conoscere mi bastano per un “ritratto” convincente, purtroppo diverso da quello immaginato dal mio lettore. E quanto agli altri, che continuano ad esprimere solidarietà e simpatia, vorrei dire: meno lamenti, meno pianti, fateci vedere qualche iniziativa concreta, per favore…