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Bianco e oro. Un pomeriggio curioso

Statua d'oro
Statua d'oro

Bianco e oro. Un pomeriggio curioso

 

Mia moglie mi riscuote dal torpore pomeridiano: “C’è Zanichelli nell’ingresso”, dice. “L’editore ? ”, domando. ( e poi mi mordo la lingua, ché non ci sono più Zanichelli da generazioni, l’editrice è una società anonima, ora in mano ultramarxiste, gruppuscolari; pochi giorni fa l’onorevole Preti entrò nella libreria sotto il Pavaglione per chiedere uno dei suoi romanzi e si trovò davanti un tizio inviperito che rispose “non teniamo libri fascisti”).

“Ma no, Zanichelli il doratore”, riprende lei didascalica, devastando il breve sogno d’estate, con un editore dal pedigree carducciano che m’aspetta, paziente, in anticamera. “Ah, le poltrone”, mormoro avviandomi. Immagino l’intoppo, il restauro avrà rivelato qualche magagna e l’eccellente artigiano arriva a consulto. Proprio così: le due poltrone neoclassiche stanno molto peggio che non sembrasse quando decidemmo di riprendere scrostature e screpolature.

Quando le comperai dal vecchio Matteucci, una quindicina d’anni fa, mi parve d’aver messo le mani su autentici tesori. E poi, venivano dalla casa d’una contessa, eroina d’antiche cronache mondane, ch’era stata l’amante in titolo d’un principe dei Savoia, cugino di Vittorio Emanuele. Anche quando non mi parvero più degne d’esser pubblicate in un mobilio neoclassico alla Morazzoni, rimasero sempre allegre e fastose, il rosso vivo della tappezzeria sul bianco e oro delle superfici patinate, contro il bianco e oro delle librerie, rimandò sempre, lungo gli anni, il suo accordo squillante, eco di fanfare svanite.

Zanichelli mi guarda, sorridente e contrito. E’ uno di quegli artigiani d’una volta, cui dispiace dar dolore al cliente, rivelandogli il cattivo stato in cui si trovano le interiora dei legni, delle cornici. Bofonchio che ci penserò, le tenga lì due o tre giorni, e chi ha voglia di buttar centinai di migliaia di lire a rifar poltrone in bianco e oro con l’aria che tira: adesso poi, dopo queste elezioni. Il viso di Zanichelli s’illumina, come alla scoperta d’un cruccio infantile, cui la sua bonaria saggezza sappia porgere un conforto rassicurante: “Ma che cosa dice, dottore. Intanto, non hanno ancora la maggioranza. E poi, creda, ci sarà meno ingiustizia, si starà meglio”.

Il largo viso sorridente e onesto dietro le lenti, i capelli grigi, l’aspetto confidenziale, Zanichelli sembra un vecchio medico di famiglia. Quest’aria rassicurante l’ha filtrata lungo i decenni nel laboratorio, uno dei migliori d’Italia, dove generazioni dei collezionisti più esigenti vennero a far restaurare o rifare da capo le cornici più difficili e preziose, i fregi, le teche, le appliques,  le consoles marmorizzate.

Quel che gli altri intagliano, Zanichelli decora, cappello di carta in testa e occhiali sul naso, e depone gli strati d’oro in foglia, l’argento della “mecca”, le vernici, le lacche, le velature. Il grande stanzone richiama irresistibilmente la logora immagine dell’alveare, nessuno alza la voce, anche i più giovani assumono lo stile di riserbo, l’umana e garbata ironia dei due maestri anziani. Non m’ero mai posto il problema delle opinioni politiche di Zanichelli, ma le avrei collocate per vie socialdemocratiche o repubblicane, varianti popolari e padane di quel che i signori chiamano liberalismo. Ma ora, realizzo che Zanichelli ha votato per il PCI. E’, anzi, il primo e finora il solo, dei due o tre milioni di voti comunisti, che mi presenti un nome e una faccia conosciuti.

Non parliamo più di politica, lui è lì impacciato, e dice che non c’è ragione di allarmarsi. Gli rispondo che conosco Cecoslovacchia, Ungheria e dintorni, abbastanza per desiderare che quel destino sia risparmiato a gente come lui, e come me. Ma è roba vecchia, e per quanto io sappia che è vera, sento che non fa presa. Zanichelli è sicuro, come tanti altri, che da noi possa essere davvero diversa: “Ma quelli sono altri paesi”, dice col tono dell’intenditore a cui non la sia fa, che parli d’altri, selvaggi, corbelloni e citrulli. Per un attimo, penso di chiedergli se crede se saranno in molti, quel giorno famoso che si starà meglio, ad aver voglia di bianco e oro, o di belle cornici in stile rinascimento, di sansovine e formigine, salvator rosa e trottole, albane e gandolfine. Poi lascio perdere. I miei argomenti non riuscirebbero mai a scalfire la granitica illusione del mio Zanichelli. Nel suo sorriso è comparso il segno più allarmante del male: il guizzo astuto, quella persuasione d’essere furbi, i più furbi della terra, che ci ha sempre fregato, a noi italiani, dai secoli dei secoli.
 

Da “Il Giornale”, 19 luglio 1975